TESTO Commento su Es 32,7-11.13-14, Sal 50, 1Tm 1,12-17. Lc 15,1-32
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XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (11/09/2016)
Vangelo: Es 32,7-11.13-14; Sal 50; 1Tm 1,12-17; Lc 15,1-32
In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Forma breve (Lc 15, 1-10):
In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
L'evangelo di questa 24a domenica del tempo ordinario potrebbe essere definito come un inno alla gioia per il ritrovamento di ciò che si era perduto: un pastore ritrova la pecora smarrita e con gioia se la carica sulle spalle e ritorna all'ovile dove lo attendevano le altre pecore che non si erano perdute; una donna lascia tutte le altre occupazioni per trovare la dracma che aveva perduto e che rotolando si era nascosta in un angolo della casa; Ma il ritrovamento del figlio sbandato da parte di un padre che non aveva mai perso la speranza riepiloga e sintetizza, in una delle parabole più significative dell'evangelo, tutti i temi sui quali in questa domenica siamo invitati a riflettere, temi nodali per l'esperienza di ogni famiglia. Tutte le altre letture: Esodo 32, Salmo 50, 1Tm 1 incorniciano questo quadro in cui è dipinta tutta la nostra vita. Nella pagina dell'Esodo viene narrata la perversione di un popolo (e per estensione di una comunità, di una Chiesa) che sceglie la sicurezza del vitello d'oro piuttosto che l'incertezza e l'oscurità delle fede, ma che tuttavia, con questo carico di peccato, riesce addirittura a far pentire Dio di aver solo immaginato un castigo. Dio ama, non castiga. E poi c'è quel salmo 50, il canto-capolavoro di Davide pentito; potrebbe essere cantato ogni domenica quando invochiamo la pietà del Signore: "Vedi, Signore, quanta malvagità abita il mio cuore, nonostante i miei buoni propositi, ma tu purificami, trasforma le macchie in candore". E infine Paolo che apre il suo cuore a Timoteo: egli non sta a ritornare ossessivamente ad un passato di violenza e di odio, ma esprime la gioia e la riconoscenza a chi lo ha reso forte e gli ha concesso misericordia.
È dunque sulla parabola che vorrei soffermarmi.
È un mattino, forse, quando il giovane figlio di una famiglia benestante, dopo una notte insonne, si presenta al padre. Ha deciso. Ha preparato con cura il discorso. Ha ripetuto più volte mentalmente quelle parole che, appena uscite di bocca, già pesano come macigni: "Voglio la mia parte di eredità".
La mia parte, perché non è l'unico figlio. E il fratello maggiore, per la verità, non ha mai pensato di chiedere la sua parte di beni. Sta troppo bene sotto l'ala protettiva paterna. Partire o restare non è un dilemma per lui. Non corre rischi. Non sembra avere, come suol dirsi, tanti grilli per il capo.
Non sono molti i padri disposti in vita a concedere in eredità ai figli le proprie sostanze: non per malanimo, ma perché significherebbe evocare l'immagine incombente della propria morte.
Eppure il ragazzo insiste: butta sul piatto, impietosamente, ragioni inconfutabili da parte di ogni genitore degno del nome: l'autonomia e la responsabilità. Deve partire, se vuole diventare adulto. Rivendica il diritto alla libera scelta del proprio stato di vita. Non vuole più dipendere, perché ogni dipendenza eccessiva intossica.
Il padre divide le sostanze, una parte al figlio maggiore, un'altra parte al figlio minore. E questi parte.
Il padre e il figlio maggiore rimangono in casa. Solo il padre la abita davvero. Si può vivere in una casa per proteggersi dalle intemperie, per lavorare, per mangiare e per mettersi comodi davanti al televisore. Per riscaldarsi. Per dormire. E' la "casa-riparo". La "casa-rifugio" dei sociologi. Ma tutto questo è qualcosa di profondamente diverso dall' "abitare". Da quell'abitare che è il dato serio dell'esistenza. Che può diventare una questione di vita o di morte. Se non fosse così, chi si metterebbe in viaggio per "ritornare" a casa? Basterebbe la mancanza di un riparo a indurre i fuggitivi a "ritornare" alla casa paterna?
Ed abitare è anche potersi mettere alla finestra e attendere l'arrivo del figlio, partito per un paese lontano.
E il figlio "si mise subito in cammino e ritornò da suo padre" (Luca 15,20).
È emozionante, anche per un non esperto d'arte, contemplare il celebre quadro che Rembrandt dipinse nel 1668, intitolato Il ritorno del figliuol prodigo, attualmente esposto all'Ermitage di San Pietroburgo (Leningrado). Attraverso un sapiente gioco di chiaroscuri, di luci e di ombre, l'artista mette in evidenza il modello di relazione che si instaura, nella parabola lucana, tra il padre e il figlio minore. Un fascio di luce illumina il padre ed il figlio, quest'ultimo in atteggiamento umile, contrito, e nel contempo confidente, mentre il padre - il cui cuore è sempre rimasto vigile nell'attesa, sentinella nella notte - gli appoggia dolcemente, quasi timoroso di ferirlo, le mani sulle spalle, in un gesto di protezione e di accoglienza. In una casa paradossalmente senza donne, in una famiglia in cui non s'intravede la presenza di una madre, si è avvolti, e in qualche misura coinvolti, da un clima di indicibile tenerezza. Quelle mani sulle spalle, due mani di cui una maschile e una femminile, sono una carezza. Una carezza, non un gesto di possesso. "La carezza - scrive Emmanuel Lévinas - è un modo di essere del soggetto, in cui il soggetto nel contatto con un altro va al di là di questo contatto... Ciò che è accarezzato non è, a rigor di termini, toccato... È come un gioco con qualcosa che si sottrae, e un gioco assolutamente senza progetto né piano, non con ciò che può diventare nostro e identificarsi con noi, ma con qualcosa d'altro, sempre altro, sempre inaccessibile, sempre a venire. La carezza è l'attesa di questo avvenire puro, senza contenuto..." [Emmanuel Lévinas, Il Tempo e l'Altro, Il melangolo, Genova 1987, p.58]. S'intuisce che l'amore, ad un tempo paterno e materno del padre, precede il pentimento del figlio. Tra i due uomini si stabilisce uno scambio di sguardi che testimoniano una relazione ristabilita, il ripristino di un rapporto di fiducia e di affidamento, dunque di paternità-maternità-figliolanza, una nuova nascita dalla quale si genera la gioia, una festa. Una fame che rinasce all'infinito. Il senso profondo e autentico della "casa".
In ombra, quasi invisibile, sta il figlio maggiore. Lui non si è fidato e non si è affidato. Con il padre e con il fratello non ha mai sperimentato una vera comunicazione, la comunione dei cuori. Per questo pare non "abitare" la casa: è nell'ombra, al buio e al freddo. Si insinua anche in noi che osserviamo la scena una sensazione di gelo. Il figlio minore, giunto ad una tappa della sua vita, ha creduto di poter rinunciare ad essere figlio e fratello; il figlio maggiore non ha mai vissuto - né vive - l'esperienza di figlio e di fratello, ma unicamente quella di servo. Si è fratelli, infatti, quando ci si riconosce in una comune paternità. Ripiegato su se stesso, sul suo "io" così fragile da sentire il bisogno di costruire attorno a sé delle robuste barriere, gli occhi incapaci di fissarsi sul volto del padre e del fratello minore, per lui il padre è un datore di lavoro, un padrone da servire il più fedelmente possibile. Così si instaura una modalità regressiva dell'abitare la casa, una casa che non è, come dovrebbe essere, un incontro tra volti. "Dire come possono e debbono stare insieme questi volti, la parte più indifesa di noi, la più esposta, la più rivelativa e anche la più deterrente, tanto che è difficile uccidere uno guardandolo in volto, rappresenta la maniera nuova di studiare e di proporre il tema dell'uomo" [in Italo Mancini, Ritornino i volti, in "Bozze 85", p.77]. Dunque anche dell'abitare.
In realtà il vero problema - e anche il più complesso, quello che attanaglia la famiglia, oggi - è non sentirsi amati. Un dramma ed una sofferenza per ogni homeless. Chi non ha mai sentito l'esperienza del sentirsi amato, del sentirsi cioè un "altro" amato, poiché un rapporto d'amore non narcisistico può essere vissuto solo con un "altro-diverso-da-me", non riuscirà mai ad amare qualcuno. A guardarlo nel volto. Come ha intuito Rembrandt, ancor prima di Martin Buber e di Emmanuel Lévinas, il dramma e la sofferenza stanno nell'incapacità di guardare fisso gli occhi dell'altro, l'altro che viene a me attraverso il suo volto fragile e al contempo indistruttibile. Stanno in una casa nella quale - nonostante gli open space inventati dagli architetti - ci si perde, e da cui si "esce" con difficoltà: l'inferno sartiano dell'incomunicabilità. "L'enfer, c'est les autres".
La differenza comportamentale tra i due fratelli - autentici "idealtipi" weberiani - è un contrasto che non può essere letto convenzionalmente attraverso la coppia di concetti "conformismo - ribellione", ma con un'attenzione psicologica ed una sensibilità umana più profonde, all'interno di una vicenda di cui non conosciamo l'esito: l'uno, uscito di casa, ma in realtà alla perenne ricerca di una dimora, di una madre, di un padre, di un fratello, di un "altro" nel rapporto con il quale recuperare la dimensione dell'appartenenza; l'altro, che non si è mai mosso di casa, ma in realtà lontano da essa, incapace di "abitarla", e che dunque vive la dolorosa condizione dell'estraneità. Fra i due, chi è in realtà l'homeless? Un dolore che va preso sul serio e rispettato, come tutti i dolori umani. Ed è questa la sfida per ogni famiglia e per ogni comunità cristiana.
LUIGI GHIA
Direttore della rivista dei CPM italiani "Famiglia Domani"
TRACCIA PER LA REVISIONE DI VITA
- Dio ama tutti senza eccezioni, o vuole essere amato? Siamo capaci di sentirci amati da Dio? Ci sentiamo perdonati da Dio?
- Abbiamo già sperimentato una gioia profonda nei confronti di un seppur faticoso cammino di fede da parte dei nostri figli, dei fidanzati che incontriamo,, delle coppie con le quali facciamo un "lavoro" pastorale?
- Davide è riuscito a vivere il disgusto per una vita basata sull'ipocrisia e sull'arroganza. Siamo capaci anche noi di cogliere questo peccato nella nostra vita quotidiana?
- Quale spazio diamo nella nostra vita alla speranza?,