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TESTO Commenti su Is 43,10-21; 1Cor 3,6-13; Mt 13,24-43

don Michele Cerutti

VII domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno B) (11/10/2015)

Vangelo: Mt 13,24-43 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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24Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”».

31Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».

33Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:

Aprirò la mia bocca con parabole,

proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.

36Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». 37Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!

Le letture di oggi ci aiutano a comprendere la Chiesa come realtà complessa e dinamica.
Le due lettere di S. Paolo, dirette alla comunità di Corinto, sono fra le più importanti dell'epistolario di questo apostolo e le possiamo considerare assai utili al fine di farci conoscere la vita di quei primi raggruppamenti di cristiani.
L'indole dei Corinzî era quella di essere curiosi e amanti della scienza. Portavano l'influenza della cultura greca che era quella di apparire sapienti ed erano incapaci d'una disciplina seria e costante.
Era una città famosa per i vizî della carne, si può immaginare come la vita di quella comunità non dovesse essere troppo tranquilla e ordinata. Dopo che Paolo ebbe lasciato Corinto, Apollo, particolarmente edotto nelle Scritture, essendo stato ben istruito nella fede da Priscilla e Aquila, si recò da quei fedeli. Egli annunciava senza dubbio la dottrina del Vangelo in maniera ortodossa, ma in maniera sicuramente più affascinante e dotta, e così i Corinzî furono presi dalla sua elevata parola. Venne tuttavia a configurarsi una fazione di credenti distinti da altri che restavano affezionati a Paolo.
Paolo conobbe lo stato della chiesa di Corinto mentre si trovava a Efeso nella sua terza grande missione (circa l'anno 55-56).
La risposta non si fa attendere. Paolo, Apollo, ecc. non sono capi o fondatori di scuole, ma ministri di Dio, dispensatori dei suoi beni, e ognuno di loro lavora secondo la grazia ricevuta dall'alto; nel giorno del giudizio poi apparirà quanto ciascuno avrà fatto e con qual fine.
La caratteristica dell'autorità, della responsabilità nella Chiesa va visto non nella logica del potere, del prestigio, del farsi obbedire, ma nella logica del servizio, del dono della propria vita e di quelle proprie capacità utili per far crescere la comunità nella fede, nell'amore verso Dio e verso i fratelli. Come è importante che la Chiesa si verifichi perché non prevalga la logica mondana dell'ordine, di quella prudenza, della legge, delle garanzie e sicurezze, ma propria quella evangelica che è del servizio e della comunione.
Il servizio nella comunità si esprime in forme, modi, stili, competenze differenti ma nello stesso tempo complementari per raggiungere la crescita della comunità. In ogni comunità lo Spirito suscita un pluralismo di doni che concorre al bene comune. Le diversità devono diventare una ricchezza per la comunità, non motivo di lacerazioni.
Dalla parabola della zizzania emerge una lezione essenziale. Occorre nutrire la massima fiducia nell'efficacia dell'annuncio della parola di Dio, nonostante la persistenza del male nel mondo. La chiesa non va immaginata come una comunità di perfetti che si separa dal mondo (come pensavano nel 300 d.c. i donatisti), ma come una realtà radicata nel mondo, nel quale convivono insieme buoni e malvagi. Neppure al suo interno è possibile tracciare una linea di demarcazione tra i due gruppi, perché il bene e il male coesistono in ogni raggruppamento umano come in ogni singolo individuo, anche se credente.
Occorre lasciare che il bene e il male esistano l'uno accanto all'altro per un periodo indefinito, perché la separazione avrà certamente luogo alla fine. Infatti, la separazione sta nella dialettico, che avviene nella storia, non mediante l'elevazione di barriere, ma in forza della testimonianza che spinge la storia a evolvere nella direzione del regno di Dio.
Non dobbiamo aver timore è il Signore che scrive la storia.
Isaia pronunzia un oracolo in Babilonia, la terra dove la migliore gente di Israele è stata deportata dopo la rovina di Gerusalemme.
In tale clima il Profeta della scuola di Isaia (detto Deuteroisaia, o Secondo Isaia), riversa sul suo popolo la Parola viva del Signore. Proprio a lui si riconosce questa capacità di ricomposizione, nella fede, della comunità chiamata al pentimento, alla conversione, ma anche alla consolazione che verrà dalla restaurata amicizia con Dio.
In terra d'esilio, terra d'aridità spirituale e di desolazione, la tentazione è quella di attaccarsi ai riti, quali il culto del sabato e della circoncisione; o, come si manifesterà insidiosamente nella postesilica epoca giudaica sino ai tempi di Cristo, anche di fissarsi sulla Parola, sull'obbedienza alla Legge come garanzia di salvezza e di giustizia. Ma il pericolo è proprio questo: attaccarsi a un Dio di cui si riconoscono le grandi opere del passato, di un'epopea mirabolante ma remota per sempre.
Un Dio cui non si dà sostanzialmente più credito.
Il Dio della Legge è un Dio in pensione, limitato al conteggio retributivo, non più riconosciuto come capace di intervenire in modo innovativo nella Storia.
Un Dio sì liberatore, una volta, sì Creatore, un tempo remoto, ma non un Dio eterno ri-creatore.
Invece il profeta sa vedere oltre l'esilio un nuovo esodo, il nuovo dono di una Gerusalemme riedificata, come potremo scorgere nel capitolo successivo, un nuovo popolo (Sl 102,19) perché rinnovato da Dio.
Dobbiamo avere lo sguardo di Isaia sulla Chiesa, su questo popolo di Dio alla ricerca di una verità forte.
Si è aperto un Sinodo e c'è chi dall'esterno soffia sul fuoco per cercare di bruciare ogni speranza.
Ci possiamo scoraggiare se abbiamo gli occhi puntati a terra, ma la storia è scritta da Dio Padre e solo a Lui dobbiamo guardare con fiducia.

 

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