TESTO Ci mancano profeti di giustizia!
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
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XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (05/07/2015)
Vangelo: Mc 6,1-6
1Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
È talmente famoso da essere divenuto un proverbio di uso comune. Mi riferisco alla lapidaria espressione di Gesù presente nel Vangelo di questa domenica, spesso riferita come proverbio, appunto, addirittura nella sua versione latina: "Nemo propheta in patria sua". In Marco suona così: "Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria". Spesso, chi cita questa frase, lo fa a propria difesa, quasi a dire: "Vedete? Nessuno apprezza ciò che sono e ciò che dico, soprattutto tra coloro che mi conoscono, perché sono invidiosi: per cui lascio perdere, e vado a fare del bene altrove, dove vengo apprezzato o quanto meno dove nessuno mi critica!". E questo atteggiamento lo notiamo in molti gruppi di volontariato, in molte associazioni, anche in molte delle nostre comunità cristiane, dove spesso si arriva a giustificare la propria incapacità ad inserirsi nel loro tessuto sociale o nei vari ambiti di impegno con questa laconica affermazione: "Nessuno è profeta in patria!". Per cui, si rinuncia a fare del bene, si rinuncia a mettersi al servizio degli altri.
A volte, il disprezzo e l'incomprensione verso le persone che vogliono fare del bene agli altri è un fatto reale che interpella la nostra coscienza sulla maniera di accogliere tutti, di dare ad ognuno la possibilità di esprimersi secondo le proprie inclinazioni e le proprie doti. A mio avviso, però, rimane ingiustificato il fatto di "tirarsi indietro" perché criticati o non apprezzati, richiudendosi così in un'inattività o in un'indifferenza che non aiutano affatto la comunità. Gesù stesso non smette di predicare o di fare miracoli, nella sua patria: fa quello che può ("impose le mani ai pochi malati"), e pur meravigliandosi della loro incredulità, continua ad essere una presenza in mezzo ai suoi, privilegiando forse le periferie rispetto al centro, la strada rispetto alla sinagoga ("Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando").
In definitiva, Gesù non smette di fare il profeta, di essere un segno della presenza di Dio tra la sua gente: e in questo, vediamo concretizzato quanto abbiamo ascoltato nella prima lettura, dove il profeta Ezechiele riferisce di un probabile momento di difficoltà e di contrasto da lui incontrato nella sua missione a causa proprio del popolo di Dio, di coloro che avrebbero dovuto accoglierlo come segno della presenza di Dio nel popolo e invece si intestardiscono a voler fare a meno di Dio. Dio sa bene che non è il profeta, l'oggetto del rifiuto da parte del popolo, bensì lui stesso e la sua parola: forse, proprio per questo è convinto che la presenza del profeta nel popolo - nonostante i contrasti - sia necessaria, perché quantomeno non manchi un riferimento alla parola di verità, perché non manchi mai al popolo un segno della presenza di Dio. E ciò, è ben espresso dalle ultime parole della prima lettura: "Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro".
La vicenda di Gesù è ancor più complessa di quella di Ezechiele, perché nel suo caso Dio e il profeta, la parola di Dio e la parola annunciata dal profeta, coincidono proprio nella persona di Gesù. L'incomprensione (o meglio il disprezzo) è verso ciò che annuncia, quindi la sua parola, ma anche e soprattutto verso la sua persona, ritenuta "geneticamente non predisposta" ad attuare da Messia. Come mai questo atteggiamento dei Galilei verso il loro famoso compaesano, accentuato ancor di più dal fatto che all'inizio - nei primissimi capitoli del Vangelo di Marco - Gesù a Cafarnao (quindi ancora nella sua Galilea) viene esaltato come un profeta "che insegna con autorità", diversamente dagli scribi e dai farisei? La chiave di tutto sta proprio qui: nell'atteggiamento delle autorità religiose e politiche del tempo, le quali quasi da subito avevano capito di trovarsi di fronte a un profeta particolare, anzi, possiamo dire che avevano capito che si trattava veramente di un profeta che incarnava in sé tutte le caratteristiche del Messia, e questo era ritenuto da esse un duro colpo alla loro autorità, soprattutto perché parlava al popolo della misericordiosa giustizia di Dio, più grande della loro giustizia basata sulla legge. Proprio nel momento in cui Gesù compie prodigi e libera dal male, essi lo discreditano, dicendo che ciò avviene non per la forza di Dio, ma per la forza del principe del male, Beelzebul. Tra quella prima volta a Cafarnao e questo ritorno a Nazareth, essi hanno avuto tutto il tempo di creare un clima di ostilità nei confronti di Gesù, passando dalle accuse di bestemmia alle offese personali; per cui, Gesù viene accolto dai suoi compaesani come un falegname, le cui mani fanno sedie e tavoli e quindi non possono certo "compiere prodigi"; viene accolto come "il figlio di Maria", e non di Giuseppe (come era nella logica del tempo e come avviene, ad esempio, nel Vangelo di Luca), sottolineando così le dicerie intorno all'incertezza della sua paternità; viene ritenuto un "ladro di sapienza", uno che sa le cose, ma non si sa bene come e da chi le abbia imparate. È ovvio, allora, che di fronte a un atteggiamento di questo tipo Gesù abbia una reazione che lo porta - come dicevamo - a stare un po' nella retroguardia e a dirigersi più verso la strada che verso la sinagoga. Senza, tuttavia, rinunciare ad essere una presenza profetica; senza rinunciare a dire loro le cose in faccia, così come stanno: "Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua".
Oggi, siamo orfani di questo tipo di profezia. Siamo orfani di profeti dallo stile e dal cuore simile a quello di Gesù, che sappiano dire le cose come stanno, che siano in grado di resistere agli attacchi dei potenti, che sappiano rimanere lì, in mezzo alla gente, a volte anche nel silenzio e nella marginalità, se non nella persecuzione, a proclamare la presenza del Regno di Dio, che è più grande che qualsiasi tentativo di abuso di autorità e di potere da parte di chi pensa di poter essere anche più grande di Dio. Vogliamo coltivare la speranza di potere avere sempre, in mezzo a noi, una profezia forte alla quale affidare i nostri aneliti di giustizia.
E vorrei terminare questa nostra riflessione con un passaggio di un'omelia di Oscar Romero, recentemente beatificato, che ritengo uno degli ultimi grandi profeti di questo tempo:
"Essere come Cristo, liberi dal peccato, è essere veramente liberi, con la vera liberazione. E colui che con questa fede, posta nel risorto, lavora per un mondo più giusto, protesta contro le ingiustizie del sistema attuale, contro tutti i soprusi di un'autorità abusiva, contro i disordini degli uomini che sfruttano gli uomini; chiunque lotta a partire dalla resurrezione del grande liberatore, solo costui è un autentico cristiano".