TESTO Mungeva le vacche e potava le viti. Nel frattempo mi parlava di Dio
don Marco Pozza Sulla strada di Emmaus
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V Domenica di Pasqua (Anno B) (03/05/2015)
Vangelo: Gv 15,1-8
1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
La modestia fu il suo forte: aspetto, questo, che pure i detrattori Gli riconobbero come tratto saliente della sua profezia irruente: «Senza di me non potete far nulla». Una storia modesta e sgangherata - poco più di trent'anni circoscritti in poco più di trenta chilometri quadrati - che ebbe e tenne l'ardire di diventare metro e aspirazione di qualsiasi altra storia dopo la sua. Una storia profumata di terra e di spezie, allagata di profumi e di odori, musicata con suoni e ritmi che l'uomo potesse capire, qualunque uomo avesse osato poggiare orecchio sui bordi dei Vangeli: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me». Eccesso di megalomania - l'ennesimo in una vita di eccessi che divennero misura della bellezza - o la più giusta delle dosi naturali per diventare fecondi?
La natura sembra avergli dato credito, anche stavolta. Il brivido è tutto lì, in quel che accade all'inizio della primavera sui tralci potati d'inverno. Avete mai osservato quella piccolissima goccia, così simile ad una goccia di rugiada, che si annuncia sul capo del tralcio, il medesimo che un mese prima era stato potato dal contadino? Quand'ero piccolo e vivevo col nonno, ogni primavera si divertiva a portarmi tra i filari delle sue viti - che per lui valevano quanto i tulipani e i narcisi nel giardino della nonna - per dare appuntamento a tutta la mia attenzione di bambino su quella goccia. Per lui era un segreto e un'annunciazione, un guadagno e un anticipo nello stesso tempo. Me la faceva notare e quando io, bambino, gli dicevo: "Nonno, ma anche la vite si mette a piangere?" lui mi correggeva. Non era pianto, era molto di più: quasi amore, un anticipo di eccitazione, quasi un grembo di donna che annunciava la sua fertilità. "Sta andando in amore" mi spiegava con quel suo ruvido e scheletrico parlare di montagna. Io non riuscivo ad immaginare come la vite potesse fare l'amore, ma quel che capivo - e mi bastava - era che quel tralcio era vivo, che dentro di lui c'era come un torrente di gocce che scorreva. Era un qualcosa che mi faceva sospettare della vita. Poi, se proprio non capivo, per spiegarsi andava a prendere vicino al letamaio uno di quei tralci secchi che aveva potato settimane prima, uno di quelli accatastati per essere bruciati. Lo prendeva, lo metteva vicino all'altro e mi diceva: "Vedi questo, siccome è secco non è più capace di far l'amore". Che bambino fortunato sono stato io: ho avuto un teologo che mi parlava di Dio e dei suoi misteri in mezzo ad un filare di viti, prossimi ad un letamaio, col coccodè delle galline come canto gregoriano di quelle inaspettate catechesi di primavera. D'altronde, era la sua traduzione del Vangelo: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto».
Potare. Il verbo della sottrazione e delle ferite, delle forbici da contadino e dell'inverno che brucia. Anche il verbo, però, che è condizione dell'amore, del fare l'amore della vite. Il verbo degli artisti: creare è sottrarre il superfluo per far sbocciare l'essenziale. Togliere ciò che non vuole vivere per fare spazio a ciò che vuole essere: brillare, fecondarsi, saporire. Potare è un verbo di sofferenza, di strazio e di ferite. Anche far nascere - a dar credito ad una donna che è divenuta madre - è ferirsi e sformarsi per dare vita. Se lasciarsi ferire è rischiare di vivere, esistono dunque tralci così stupidi da non lasciarsi potare? Il nonno mi diceva di sì, il Vangelo anche: «Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano». Anche mio nonno faceva così: quelli secchi li affastellava tra loro e li legava. Erano la gioia della nonna e delle sere d'inverno: bruciavano e scaldavano ma non sapevano profumo d'uva. Cioè non hanno mai saputo dirmi per che cosa erano nati. Mio nonno, per scelta e passione, era un contadino; per natura era un teologo finissimo. Mi convinse di Dio mungendo le vacche e potando le viti.