TESTO Commento su Is 57,15-58,4a; 2Cor 4,16b-5,9; Mt 4,1-11
don Raffaello Ciccone Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza
I domenica di Quaresima (Anno B) (22/02/2015)
Vangelo: Is 57,15–58,4a; 2Cor 4,16b–5,9; Mt 4,1-11
1Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
ed essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:
Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti:
Il Signore, Dio tuo, adorerai:
a lui solo renderai culto».
11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
Isaia 57, 15 - 58, 4a
Il profeta Isaia (gli studiosi considerano questo testo scritto dal " Terzo Isaia ") vive nel periodo del ritorno da Babilonia (ha scritto i capitoli 56-66) nel VI secolo a.C., durante il periodo della ricostruzione di Gerusalemme. In questo tempo ci sono difficoltà per il tempio (66,1); la comunità è rientrata, ma in preda alla sfiducia e alle lotte intestine (66,5), ha difficoltà di ordine morale e religioso (55,9-11; 60,20). Vi sono Giudei che praticano l'idolatria (57,7-8; 65,3. 11) ed i capi del popolo sono inetti ed indifferenti.
Il profeta garantisce la grandezza di Dio inarrivabile (trascendenza), insieme con la sua vicinanza, poiché Egli cura le persone umili e povere (v 15). E se mostra severità contro i comportamenti malvagi, tuttavia sa mostrare misericordia perché altrimenti "davanti a me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato" (v 16). E se il Signore reagisce abbandonando, per un tempo, coloro che falliscono, tuttavia Egli ama e garantisce che "guarirà, guiderà, concederà il conforto a chi sbaglia" (v 18).
Il rapporto con Dio si gioca sempre sulla libertà di Dio e dell'uomo: al centro c'è la legge che è la volontà di Dio in rapporto alla ubbidienza del suo popolo alle scelte morali. Agli occhi di Dio sono chiari i sentimenti di ciascuno, le sue vie, le sue afflizioni. Il testo fa riferimento non solo agli esuli ritornati, ma anche a coloro che restano dispersi nelle terre del mondo antico e quindi non possono tornare a Gerusalemme. Tuttavia il Signore provvede a tutti ed è misericordioso con tutti. Ma a Gerusalemme continuano ad esserci ancora anche degli empi che risiedono nella comunità dei salvati e che si comportano come il mare agitato che sconvolge il vivere del popolo. Imbrattano il mondo spargendo fango e detriti ovunque. Sembrano ricordi di una alluvione che si è sviluppata anche allora in tempi di calamità.
Ma il conflitto sulla legge morale, che Dio verifica, necessita di una mediazione per la giustizia e il comportamento irresponsabile del popolo. Perciò Dio ha bisogno di un profeta. Il Signore ha fiducia di lui e lo impegna perché si faccia udire con la parola gridata senza timore: "Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati" (58,1).
È necessario che qualcuno non abbia timore di parlare e che si rivolga a tutti per chiarire: deve essere una parola che tocchi il cuore di ciascuno. In fondo il Signore si fida nella intelligenza di ciascuno, dei sentimenti, della volontà di comprensione e, aiutato dalla forza e dalla coerenza del profeta, mette in chiaro il vero significato e la vera sostanza del culto e del rapporto dei suoi fedeli con Lui. Inizia qui uno splendido testo di chiarimento di cui leggiamo solo l'inizio. Che cosa significa davvero il digiuno e in quali rapporti si pone, rispetto all'amore ed alla fiducia con Dio? E quale rapporto della fede con il digiuno, col fare penitenza, con la preghiera e la supplica in confronto al prossimo? E quale rifiuto provoca la prevaricazione che causa schiavitù? E quanto ci si deve sentire coinvolti, in un mondo, da Dio dato a tutti, dove ci siano, invece, persone senza casa, senza libertà, senza pane, senza vestito? Il Signore sottolinea fortemente che il vero digiuno e il vero modo per essere gradito a Lui sono questi impegni di rapporto sociale: "Libera dall'oppressione, sciogli le catene inique, togli i legami del giogo, rimanda liberi gli oppressi, spezza ogni giogo" (58,7-10). L'atteggiamento di autosufficienza che non vuol condividere con altri che sono poveri, l'individualismo, l'abbandono delle responsabilità sociali, il rifiuto del bene comune e quindi della politica che ridistribuisce secondo il bisogno, la responsabilità che ognuno abbia competenze e si rispetti il diritto al lavoro, un salario minimo garantito sapendo ridimensionare gli stipendi e le pensioni troppo alte, tutto questo fa parte di responsabilità che toccano l'orizzonte della giustizia.
Noi riduciamo il tutto in elemosina e in volontariato, sempre necessari in molti casi ma non sufficienti. Problemi del genere sono politici, cioè problemi che interessano tutta la comunità civile, sono bene comune, legati alla responsabilità di tutti, ai diritti dell'uomo che l'ONU ha proclamato nel 1948, alla fine della terribile II guerra mondiale, come antidoto contro la tragedia della distruzione dell'umanità.
Ma giustizia suppone il superare l'idea della elemosina che deve restare a livelli eccezionali. La giustizia deve e vuole rintracciare meccanismi legislativi che permettano di raggiungere obiettivi utili alle persone in difficoltà, ciascuno con le capacità e l'operosità di cui è capace. La preghiera deve darci la forza di chiedere lo Spirito del Signore che ama ogni persona, per rendere il nostro mondo più giusto.
2Cor 4, 16b - 5, 9
Paolo si sente sfiduciato perché, attorno a lui, sorgono persone che equivocando il messaggio che egli porta, provocano tensioni e discordie. Così viene deformato il Vangelo di Gesù e, nello stesso tempo, vengono messe in cattiva luce la sua persona e la sua opera di apostolo. D'altra parte Paolo, che incomincia ad accusare un suo indebolimento fisico, sa confrontare la tribolazione di un "momentaneo peso leggero nella vita di quaggiù" con la crescita del vigore di un uomo che rinasce alla gloria futura, smisurata ed eterna, quale Dio offre a coloro che lo accolgono. Così le cose visibili sono di un momento, egli dice; se si paragonano a quelle invisibili, queste sono eterne. Paolo non disprezza la realtà di questo mondo e non indirizza al disimpegno e al disinteresse della realtà quotidiana. Invita, invece, a dare il giusto valore alla propria operosità. I beni materiali non possono in alcun modo trasformarsi in idoli né diventare fine ultimo dell'esistenza. Le cose materiali servono per vivere, non debbono diventare lo scopo fondamentale della vita umana. Perciò è saggio colui che vive questa vita come preparazione alla nascita di una nuova e definitiva realtà. Infatti egli crede che riceveremo, in cambio dell'abitazione della terra, una dimora eterna nei cieli.
Paolo esprime la certezza della fede in ciò che sta vivendo: il corpo è paragonato ad una tenda dei beduini che la montano e la smontano con rapidità, contrapposta alla casa eterna dei cieli cioè la dimora presso Dio dopo quest'esistenza terrena. Paolo richiama le due condizioni umane rispetto al mostrarsi del corpo. Con il nostro corpo possiamo mostrarci vestiti o nudi. Essere vestiti significa presentarci nello splendore di buone opere che ci abbelliscono come uno splendente vestito: splendidi perché rivestiti della dignità di figli di Dio che operano secondo la volontà di Dio. Essere nudi equivale ad un presentarci davanti a Dio a mani vuote, e quindi pieni di rossore, nella condizione dello schiavo che non ha una sua dignità (spesso gli schiavi venivano venduti nudi come animali). Dio ci ha fatti per la grandezza, per la trasformazione nella gloria, avendoci dato la caparra dello Spirito (v 5). Così lo Spirito Santo è la radice e l' inizio della realtà nuova. Si ritorna allo splendore della creazione, quando lo Spirito di Dio è il soffio della vita, offerto all'umanità, ma è anche lo Spirito che aleggia sul mondo ed è, anche, lo Spirito di Dio nella pienezza dell'amore di Gesù che ci viene inviato come riconoscimento della ubbidienza e della disponibilità a seguire la Parola del Figlio.
Infine vengono usate due immagini: quella della patria e quella del cammino. Abbiamo come termine finale una patria che ci fa uscire dall'esilio ed abbiamo un cammino di fede che ci porta alla visione. Paolo sente fortemente il desiderio di poter incontrare il Signore e tuttavia si pone a disposizione della volontà di Dio, mantenendo il suo compito di apostolo in questa vita. Importante è restare sempre a disposizione di Dio, sia nella dimora del corpo e sia esulando da esso, per essere nella pienezza della gloria con Dio. Davvero Paolo ha imparato in pienezza il messaggio di Gesù.
Mt 4,1-11 (Matteo)
Il vangelo delle tentazioni di Gesù mi richiama la preghiera che Lui ci ha insegnato - il Padre nostro- là dove ci fa' chiedere al Padre di non indurci in tentazione o, meglio, secondo una traduzione più esatta, di non esporci alla tentazione, di non lasciarci troppo a lungo nella tentazione. Anche il termine 'tentazioné, così radicato nella recita abitudinaria e tradizionale di questa preghiera, evocatrice soprattutto di 'tentazioni' legate ai VI comandamento nella versione dei catechismi di una volta, non è esatto, perché il testo greco ha la parola "peirasmòs", che più propriamente significa 'prova', 'lottà, 'sfida'.
E si tratta di 'prove' che riguardano il senso da dare alla propria vita e alla propria missione in essa, la prospettiva, l'orientamento. Non a caso la 'tentazione/prova' massima per Gesù è la Croce, cioè la rivelazione del dono di Dio, che accetta di morire con gli uomini e per gli uomini come manifestazione dell'assoluta e sorprendente gratuità dell'amore: "un amore che rimane fermo, totale, anche di fronte al rifiuto e al disprezzo, e che appare come la conclusione di una vita spesa nella gratuità".
Le 'prove', presentate a Gesù nel deserto, sono le scelte che Gesù fa non in una sola volta raccontata in questo episodio, ma in tutta la sua vita, perché il rifiuto del potere, del successo e dell'uso stravolto della Parola di Dio a proprio esclusivo vantaggio sono il modo concreto, visibile di mostrare e annunciare la novità di Dio, vivendola in prima persona.
E la novità di Dio consiste proprio nella totale accoglienza, da parte di Gesù, della logica del Padre, la cui volontà è che gli uomini si amino -imparino ad amarsi- come figli dello stesso Padre misericordioso, al di là di ogni schematismo e rigidità formale o della mentalità di sfruttare per se stessi i talenti propri e degli altri con la spettacolarità e l'inganno, peggio ancora con il vuoto e la chiassosità.
Collocare l'episodio delle 'tentazioni' di Gesù all'inizio della Quaresima ci richiama a considerare le nostre scelte di vita e le prove, che ora, nel nostro presente, siamo chiamati ad affrontare perché appunto, nel nostro cammino, prevalga la logica di Dio, cioè di un amore capace di spossessarsi di sé per essere totalmente liberatorio, accogliente, consolante. Egli è capace di fare della propria vita un "capolavoro" come diceva Madeleine Delbrel, per immettere in questo mondo, così tragicamente sfigurato dalla violenza del Male, germi di bellezza e di bontà, senza i quali si disperderebbe ogni possibilità di speranza.
Tutti siamo chiamati a questo.
don Raffaello Ciccone e Teresa Ciccolini (Vangelo)