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TESTO Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato

mons. Vincenzo Paglia   Diocesi di Terni

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (24/10/2004)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 9disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

"La preghiera dell'umile penetra le nubi, finché non sia arrivata non si ferma". Queste parole del libro del Siracide (35,17), che aprono la liturgia di questa domenica, ci pongono in continuità con quanto abbiamo ascoltato domenica scorsa. La preghiera resta l'orizzonte nel quale la Parola di Dio ci immette. Ma non è più l'insistenza nel rivolgersi a Dio, come nell'episodio della povera vedova, bensì l'atteggiamento che l'uomo deve avere nella preghiera. L'evangelista Luca (18, 9-14) inizia la narrazione della notissima parabola del fariseo e del pubblicano che si recano al tempio, con una premessa che ne mostra la ragione: "Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri".

Si tratta in verità di una situazione nella quale tutti possiamo ritrovarci. Ognuno di noi, in fondo, ha una buona considerazione di sé, accompagnata, invece, da un senso piuttosto critico verso gli altri. E credo sia opportuno sottolinearlo nei nostri tempi perché è diventato fin troppo facile puntare il dito contro gli altri, senza guardare sé stessi. Storture e deviazioni avvengono anche perché l'ambiente spesso le permette o le tollera. Non c'è dubbio che la caduta della tensione morale ci vede tutti corresponsabili, seppure in diverso grado, per cui è difficile tirarsene totalmente fuori.

La parabola di questa domenica è, perciò, davvero attuale: troppi sono coloro che si sentono più giusti degli altri; potremmo dire che il "tempio" di questo mondo è stracolmo di gente che "presume di essere giusta e disprezza gli altri". Il fariseo che sta ritto in piedi davanti l'altare e ringrazia Dio per la vita buona che conduce, non è solo, è circondato dalla maggioranza. Oddio, ha da vantare cose che la maggioranza difficilmente può presentare. In effetti ha qualcosa di esemplare: che vada al tempio è cosa buona; è anche bello che non si nasconda da una parte e non si metta in fondo vicino alla porta, come accadeva e accade ancora in molte nostre chiese. Inoltre, quel che il fariseo dice è vero: non è un ladro, non è un imbroglione, non tradisce la moglie ed è diverso da quel pubblicano che si è fermato in fondo. Eppoi digiuna veramente due volte la settimana e paga le offerte. Non sono cose da poco; non tutti le fanno. E' quindi anche giusto che ringrazi Dio. Insomma sembra davvero a posto in tutto.

Quanto al pubblicano, c'è da dire la stessa cosa, sebbene in tutt'altro senso. Che si fermi in fondo non è poi così esemplare; e se non ha il coraggio di alzare gli occhi al cielo è certo per buoni motivi. Se si batte il petto, lo fa a ragione (era un agente delle tasse, disposto a facili tangenti "ante litteram"). Si chiama peccatore e lo è veramente. Insomma, non è una persona che possiamo definire "per bene". Ma lo sa ed è pentito. Ed è proprio qui il motivo che fa rovesciare il giudizio della parabola. Gesù dice chiaramente che davanti a Dio non contano le opere che uno può accampare, bensì l'atteggiamento del cuore.

Questa parabola è certo una lezione sulla preghiera, ma ancor più lo è circa l'atteggiamento da avere davanti a Dio. Il peccato del fariseo non è sul piano delle pratiche religiose (le osserva tutte e con scrupolo), ma su quello della presunzione, dell'autosufficienza, della grettezza e della cattiveria, che lo spinge a giudicare con disprezzo il pubblicano peccatore. Lo si vede che è un peccatore da come giudica il pubblicano: senza pietà. Il fariseo sale al tempio non per chiedere aiuto o per invocare il perdono; anzi si sente in grado di fare lui le sue offerte a Dio. Ha un cuore pieno di sé. Il pubblicano, pur avendo raggiunto un notevole benessere nella vita – magari è anche temuto – al contrario, si sente bisognoso. Egli sale al tempio non a mani colme ma vuote, non per offrire ma per chiedere. Il suo atteggiamento davanti a Dio è quello di un mendicante che tende la mano (profittiamo per ricordare che i mendicanti davanti le chiese sono il segno della nostra condizione davanti a Dio, come scrive S. Agostino). Per l'evangelista, il pubblicano è il prototipo del vero credente: questi non confida in sé e nelle proprie opere, anche buone, ma solo in Dio. E' ancora una volta il paradosso evangelico: "chi si esalta sarà umiliato, mentre chi si umilia sarà innalzato". Sta anche scritto: "chi è povero cerca il Signore", non chi si sente giusto. E' una grande verità, e una grande saggezza che il Vangelo oggi propone alla nostra riflessione.

 

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