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TESTO Commento su Ger 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27

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XXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (31/08/2014)

Vangelo: Ger 20,7-9|Rm 12,1-2|Mt 16,21-27 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 16,21-27

In quel tempo, 21Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni.

Solo chi è stato ed è innamorato - e lo si può essere in ogni età della vita - può comprendere lo sfogo di Geremia: "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;/ mi hai fatto violenza e hai prevalso./ Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno;/ ognuno si beffa di me./ (...) Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente,/ trattenuto nelle mie ossa; / mi sforzavo di contenerlo,/ ma non potevo" (Ger 20,7-9). L'innamoramento ci proietta in una condizione strana: si vive pensando solo alla persona amata dalla quale ci siamo lasciati sedurre; esiste solo più lei nel nostro cuore e nel nostro orizzonte di vita. Difficile è nascondere questa condizione che ci fa compiere le azioni più strane e che ha, come conseguenza, addirittura quella di farci sentire esclusi dalla società; vorremmo ribellarci a questa esclusione, ma ne siamo incapaci; gli stessi amici ci guardano con aria di commiserazione; ci deridono, forse, per il nostro aspetto perennemente trasognato... E a questo punto proviamo quasi una sensazione di rabbia nei confronti della persona che ci ha sedotto. Vorremmo tornare indietro, non esserci mai innamorati, ma l'amore (la Parola di Dio che lo ha chiamato, per il profeta) è come un fuoco ardente impossibile da dominare. Raffinato psicologo, Geremia!

Che fare in questi frangenti? Consentire che l'innamoramento si converta in amore. L'innamoramento non è ancora amore, come pensano molti giovani in ogni tempo. Può, deve diventarlo, consentendoci di superare quella fase fusionale con la persona amata che preclude l'accettazione delle differenze reciproche; deve trasformarsi da momento emotivo e irrazionale a momento vissuto razionalmente nella fatica della relazione. L'amore non è solo sentimento, ma volontà; capacità, acquisita attraverso un lungo esercizio, di offrire noi stessi all'altro senza annullarci, ma rimanendo noi stessi: il "sacrificio" non significa l'annullamento di sé, ma la consapevolezza di appartenere all'altro, ma appartenendosi sempre più profondamente; discernimento di un progetto che, per chi crede, è il piano di Dio per noi. Coglie bene questo aspetto la sintesi vigorosa di Paolo che scrive ai cristiani di Roma: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto". Facilissimo innamorarsi; ben più difficile amare con questi sentimenti che Paolo indica ai suoi fratelli nella fede, e a noi, sempre un po' zoppicanti.

Nell'evangelo (Mt 16,21-27) Gesù lo dice senza mezzi termini. Chi vuole seguirlo, cioè amare ogni persona singolarmente nel senso più fecondo e più pieno della parola, deve assumere la propria croce. Prendere, assumere: non brandire. La croce non si brandisce, come ha iniziato a fare Costantino nei primissimi secoli del cristianesimo, e hanno continuato a fare i suoi successori, fino a oggi, con la benevolenza di chi, all'interno della Chiesa, ha subito intuito i benefici che ne potevano derivare; " in hoc signo vinces..." continua a essere lo squallido slogan di chi brandisce la croce per vincere. E sotto questo segno, un alibi!, sono stati e sono compiuti gli obbrobri delle crociate e dei roghi su cui venivano bruciati gli infedeli. Le persecuzioni. Le discriminazioni razziali. Le stragi degli innocenti. La croce contro i poveri, gli esclusi, i piccoli, i senza potere: un segno di sconfitta trionfalmente trasformato in segno di vittoria. Non era questo che voleva il Maestro e non è questo che vuole il Messia sofferente. Vuole che in ogni famiglia tutti i componenti siano uguali, che tutti abbiano la medesima dignità e le medesime opportunità, e che se qualcuno deve essere privilegiato, questi sia chi all'interno di questa famiglia fa più fatica. E il mondo deve avere la configurazione di una famiglia, e la storia deve essere una storia di famiglia. Questo significa amare con intelligenza e con volontà. Sapendo che chi si pone contro questo progetto è "scandalo", divisore, pietra di inciampo. Lo dice il Maestro, a muso duro, a chi sarà il primo Papa.
Traccia per la revisione di vita
- Siamo mai stati innamorati? Come abbiamo interpretato e vissuto il passaggio dall'innamoramento all'amore? Che cosa significa per noi, oggi, amare?
- Facciamo discernimento (revisione di vita), in coppia e in famiglia, sull'amore che ci lega gli uni agli altri?
- Ognuno di noi ha la propria croce. Come la portiamo? Con insofferenza? Sapendo di essere in sintonia con il Cristo e con tutta l'umanità sofferente?

Luigi Ghia Direttore di Famiglia Domani, rivista dei CPM italiani

 

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