TESTO Le ragioni della nostra Speranza
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
VI Domenica di Pasqua (Anno A) (25/05/2014)
Vangelo: Gv 14,15-21
«15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, 17lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. 18Non vi lascerò orfani: verrò da voi. 19Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. 21Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Ci stiamo avvicinando, in maniera decisa, alla Solennità dell'Ascensione, ossia al momento in cui la Chiesa fa memoria e rivive il ritorno di Gesù alla casa del Padre. Il saluto di una persona che si avvicina nel tempo - se in una famiglia qualcuno è abituato a viaggiare, lo si sa bene - crea già qualche giorno prima della partenza una certa malinconia, una tristezza di fondo, soprattutto per chi resta e deve ritrovare in sé le motivazioni per andare avanti nonostante la durezza del distacco. Il discorso di Gesù nell'ultima cena riportato dal Vangelo di Giovanni ci sta accompagnando in queste domeniche del Tempo di Pasqua; e la dimensione della sofferenza e della tristezza è dal Signore accentuata ancor di più con l'immagine degli "orfani".
Il Maestro dice: "Non vi lascio orfani". Non c'è altra figura, nella Sacra Scrittura, che esprima meglio il concetto di solitudine, quanto quella dell'orfano e quella a essa connessa della vedova. Al punto che vengono descritti quasi sempre come oggetto dell'attenzione misericordiosa di Dio, cosa che non avveniva invece nella società dell'epoca, dove lasciare dei figli senza la tutela dei genitori significava nella stragrande maggioranza dei casi abbandonarli alla miseria più nera.
Ora per noi comprendere a fondo la figura dell'orfano come indigente risulta un po' difficile, dal momento che una serie di programmi assistenziali messi in atto in quasi tutte le società sviluppate assicurano a un minorenne che dovesse ritrovarsi totalmente privo di parentela almeno un minimo di sussistenza vitale. Ma è sufficiente andare indietro con la memoria a 50 anni fa, oppure - per chi ancora non c'era - chiedere ai nostri anziani quanti fossero i bambini rimasti orfani per il conflitto mondiale da poco terminato e per la conseguente emigrazione di massa, e i racconti di desolazione e di tristezza legati agli orfani si sprecherebbero. La memoria andrebbe a quei luoghi - tristemente famosi come orfanotrofi - in cui la tristezza di bambini senza padre e senza madre suscitava immediata tenerezza e compassione, che a volte si traducevano in speranza nel caso venisse avanzata una richiesta di adozione da parte di famiglie senza figli naturali. L'attesa di una famiglia (all'interno di queste grandi mura) era talmente snervante che molti bambini vedevano passare gli anni ed avvicinarsi la maturità senza aver mai sperimentato il calore di un focolare domestico. Desolazione e tristezza, quindi, in un orfanotrofio, ma anche segni e motivi di speranza e di rinascita, nel momento in cui una famiglia riceve la notizia che la vita di un bambino, del "suo" bambino, continuerà (e si spera felicemente) fuori dalle mura di quel ricovero per fanciulli.
Gesù che promette ai discepoli "non vi lascerò orfani" alimenta in loro la speranza che la desolazione (che di lì a poco li avrebbe fatti rinchiudere con sofferenza tra le mura del cenacolo) presto avrebbe lasciato il passo alla gioia: una gioia che non si può contenere e che li lancerà fuori da quel ricovero in cui l'unica opportunità era sperare che nessuno li venisse a prendere.
Il tema della speranza ritorna fortemente nelle letture di oggi, e addirittura Pietro ci esorta a essere "sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi". Che cosa significa, per un cristiano, rendere ragione della propria speranza? Che cosa significa per un cristiano la speranza? Che cos'è, in fondo, la speranza?
La speranza è la fiduciosa attesa di un bene fortemente desiderato; è quell'atteggiamento (la teologia la definisce "una virtù") che aiuta l'uomo e la donna a passare da una situazione in cui non si vedono vie d'uscita a un'altra in cui qualsiasi spiraglio può sembrare un'opportunità di riscatto per uscire dal tunnel, dalla grotta oscura scavata dall'esatto contrario della speranza, cioè la disperazione.
Possiamo senz'altro dire che la speranza è veramente comune a tutti, forse anche per la sua totale gratuità, dal momento che sperare non costa nulla, e può senza dubbio portare a molto. Già gli antichi filosofi vedevano nella speranza un elemento che ci accumuna tutti: "La speranza è il solo bene che è comune a tutti gli uomini, e anche coloro che non hanno più nulla la possiedono ancora", diceva Talete cinque secoli prima di Cristo. Quando poi il messaggio di salvezza del Vangelo si diffonde nel mondo greco prima e occidentale poi, l'elemento filosofico della speranza si arricchisce con quello tipicamente cristiano, quello che ci fa "rendere ragione di ciò di cui speriamo", ovvero la promessa dell'immortalità a partire dalla Risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Ma neppure la speranza dell'immortalità è qualcosa di specificamente cristiano: molte altre espressioni religiose o filosofiche nel mondo parlano di una vita che prosegue oltre quella terrena.
Forse, allora la speranza di cui dobbiamo rendere ragione e che abita nei nostri cuori, è qualcosa d'altro. Senza dubbio, il suo fondamento è l'attesa del Regno che verrà, nella misura in cui, però, la speranza di questo Regno la costruiamo qui, oggi. La speranza cristiana, quella che salva - come ricordava papa Benedetto XVI - "agisce già nel presente, come certezza dell'avvenire e come fiducia che la propria vita non finisce nel vuoto", ma si apre a una prospettiva infinita, che non termina mai. E papa Francesco, con l'efficacia e la semplicità delle immagini che lo contraddistinguono, definisce la speranza "la più umile delle tre virtù teologali, perché nella vita non si vede, si nasconde. Tuttavia essa ci trasforma in profondità, così come una donna in dolce attesa è donna, ma è come se si trasformasse perché diventa mamma".
L'umiltà della speranza è quella stessa che Pietro ci ha ricordato nella seconda lettura: non possiamo imporre agli altri la speranza che abbiamo nel cuore, tutto va fatto "con dolcezza, rispetto, e retta coscienza". Questo può anche provocare sofferenza, perché vivere nella speranza, non è facile... Ma Pietro ci esorta: "È meglio soffrire operando il bene che operando il male". Così fu per Cristo, che addirittura fu "messo a morte nel corpo ma reso vivo nello spirito".
Il "trucco" della speranza cristiana, sofferta e umile, è tutto lì: il dono dello Spirito che rende vivo anche ciò che muore. Ma di questo ne riparliamo a Pentecoste.