TESTO Abbiamo fatto quanto dovevamo fare
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XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (06/10/2013)
Vangelo: Lc 17,5-10
In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Il detto assai noto di Gesù sulla fede che sposta le montagne si trova in tutti e tre i vangeli sinottici, con qualche variante e in contesti diversi; Luca lo colloca in un momento cruciale della vicenda degli apostoli. Essi hanno condiviso con il Maestro un buon tratto di cammino e già si sono sentiti rimproverare da Lui un paio di volte per la loro scarsa fede: "dov'è la vostra fede?" dice Gesù dopo aver calmato la tempesta (Luca 8,25) e "gente di poca fede, il Padre sa di che cosa avete bisogno!" (12, 28).
In seguito a tali richiami i discepoli si rendono conto ancora più fortemente della loro piccolezza di fronte alle esigenze sempre più forti e radicali proposte da Gesù, che chiede a chi vuole seguirlo un totale distacco dalle ricchezze (Luca 16, 13) e la capacità di un perdono senza limiti (17, 4). Così domandano al loro Signore: "Aumenta la nostra fede!"
La risposta di Gesù, come spesso succede, corregge il tiro della domanda stessa: non si tratta di aumentare la fede, di averne tanta o poca, ma di vivere una fede autentica, genuina; allora ne basterà anche una briciola e, attraverso questo pur minimo spiraglio, si manifesterà la grandezza e la potenza di Dio.
L'idea è resa attraverso un paragone iperbolico: ciò che è umanamente impossibile, come sradicare un gelso, l'albero dalle radici più profonde e ramificate che può durare anche seicento anni, e trapiantarlo nel mare (sic!) diventa possibile nella fede. E' da notare che Gesù non si riferisce a gesti spettacolari fini a se stessi, dal momento che Egli non ha mai operato miracoli in tal senso, ma alla potenza dello Spirito, che solo può cambiare i cuori e realizzare ciò che per l'uomo è impensabile: anche saper perdonare il proprio fratello fino a sette volte in un giorno (come viene detto in Luca 17,4), cioè sempre, visto che biblicamente sette significa pienezza e totalità.
Dunque la potenza della fede è anzitutto la potenza dell'amore, quell'amore incredibile per l'uomo, per ogni uomo, che Dio ha manifestato nel suo Figlio e che rende il credente stesso capace a sua volta di amare. Lo aveva ben sperimentato S. Paolo che, raggiunto da questo amore, da accanito persecutore dei cristiani era diventato l'apostolo delle genti e che perciò ha potuto esprimere chiaramente il nesso, anzi il primato dell'amore sulla fede: "se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla" (1° Cor. 13, 2).
E lo ha ben sperimentato, ai nostri giorni, Madre Teresa di Calcutta, che non ha certo compiuto gesti spettacolari, ma ha fatto ben più che trapiantare gelsi in mare: ha innescato una corrente di amore totalmente gratuito e disinteressato che tuttora parla molte lingue ed è destinato a durare a lungo.
Il discorso di Gesù prosegue poi con la similitudine, propria di Luca, del "servo inutile", che, come il precedente paragone del gelso, non va presa alla lettera interpretando ogni elemento e ogni personaggio, ma considerata nel suo "punto di forza": l'equiparazione del credente a quello che nella società del tempo era lo schiavo.
Ovviamente la scelta del termine di paragone non implica alcuna approvazione della schiavitù! Semplicemente Gesù fa leva su una situazione molto comune all'epoca e molto ben conosciuta per far capire quale deve essere l'atteggiamento del cristiano verso Dio: Egli lo invita a superare quella mentalità farisaica per cui si accampano diritti e si pretendono riconoscimenti per il proprio operato nella vecchia logica del "do ut des" (cioè: io ti do, affinché tu a tua volta mia dia qualcosa), come se Dio fosse obbligato a ricompensare l'obbedienza ricevuta dall'uomo.
Invece, sull'esempio dello stesso Figlio di Dio che "spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil. 2, 7) e venne nel mondo non per fare la sua volontà ma quella del Padre, anche ciascuno di noi è chiamato a lavorare nella vigna del Signore come un umile servo, che non pretende riconoscimenti per quello che fa', perché, avendo sperimentato nella sua vita la straordinaria gratuità dell'Amore, non può fare a meno di viverla a sua volta nei confronti dei suoi fratelli, di ogni fratello che il Padre gli fa incontrare; e non solo non accampa titoli di merito, ma trova tutta la sua ricompensa nella gioia del servizio stesso. In fondo la logica sottostante è la stessa del brano precedente: si tratta "semplicemente" di fare spazio a Dio, cui nulla è impossibile (Luca 1,37).
E allora potremo fare nostra, con verità, la preghiera di Madre Teresa: "Signore, dammi la fede che muove le montagne, ma con l'amore. Insegnami quell'amore che prova gioia nella verità, sempre pronto a perdonare, a credere, a sperare e a sopportare. Infine, quando tutte le cose finite si dissolveranno e tutto sarà chiaro, possa io essere stato il debole, ma costante riflesso del tuo amore perfetto."