TESTO Commento su Isaia 5, 1-7; Galati 2, 15-20; Matteo 21, 28-32
don Raffaello Ciccone Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza
II domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore (Anno C) (08/09/2013)
Vangelo: Is 5, 1-7; Gal 2, 15-20; Mt 21, 28-32
28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. 29Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Isaia. 5, 1-7
L'immagine della vigna è un prezioso impegno, una gloria per il contadino d'Israele e il suo capolavoro poiché richiede cura e attenzione, competenza e sollecitudine, fatica e operosità. Il risultato non è immediato, ma alimenta la sorpresa che rimanda a fine stagione, quando finalmente l'uva è stata torchiata e il vino è raccolto. Se tutto è andato bene, se la stagione ha mantenuto i suoi ritmi, se il lavoro si è svolto con intelligenza e con pazienza, se si è vigilato contro le bestie selvatiche e contro i ladri, con l'aiuto di Dio, finalmente, il risultato buono c'è stato.
Siamo come di fronte ad un processo. Inizia il profeta, amico di Dio, che si presenta come amico dello sposo. Lo sposo è Dio, tradito dalla sposa, il popolo che viene presentato come una vigna di cui Dio stesso si prende cura. E' il suo capolavoro ed il suo orgoglio. Perciò Israele, particolarmente custodita nella pace, deve diventare modello del progetto di Dio nel mondo: "Alla fine dei tempi nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione... Siederanno tranquilli sotto la vite, sotto il fico e più nessuno li spaventerà." (Michea 4,1-4). La vigna è simbolo di pace, di unità familiare, di festa. L'amata del Cantico dei Cantici sogna di correre tra i filari, la mano nella mano con il suo diletto: "Andremo nelle vigne; vedremo se germoglia la vite, se le gemme si schiudono, se fioriscono i melograni, là ti darò il mio amore" (7,13). La sposa dell'uomo benedetto da Dio è come una "vite feconda" nell'intimità della sua casa (Ps 128,3).
Un verbo importante che viene richiamato nel lavoro della vigna è il verbo "fare": è il lavoro di Dio per Israele. L'altro verbo drammatico è: "aspettare", che identifica la libertà del suo popolo e la trepidazione di Dio per una risposta di amore. Il testo è insieme carico di significati e drammatico poiché rispecchia, sotto i simboli e le immagini, il dramma della infedeltà e la tragedia della violenza e della guerra. Il messaggio, che ci viene dato anche oggi, è che "li ho strappati dalla schiavitù, io li ho resi liberi, e voi non avete maturato il significato della pace, il rispetto per ogni persona, la fedeltà alla mia parola che è attenzione a ciascuno".
E se nella prima parte il profeta, l'amico di Dio, canta l'amore di Dio per il suo popolo e quindi per tutti noi che lo conosciamo in Gesù; nella seconda parte Dio stesso (il padrone della vigna) interviene, in prima persona, e denuncia la "lite". La vigna viene cancellata totalmente, diventerà deserto, spontaneamente cresceranno rovi e pruni (vedi il testo della Genesi: 3,18: "spontaneamente dal terreno non nasceranno che cardi a motivo della infedeltà). Poi viene superata la parabola e si entra nel merito dell'accusa, espressa con chiarezza: "Egli aspettava diritto (mishpat) ed ecco delitto (mishpach), attendeva giustizia {tsedaqa) ed ecco lamento (séaqa)". Il gioco di parole, in ebraico, suggerisce quanto sia facile equivocare e passare dal rispetto alla prevaricazione, dalla giustizia allo sfruttamento che provoca pianti e angosce.
Nella storia i popoli della terra hanno creduto di poter raggiungere grandezza, benessere e potenza attraverso l'oppressione, l'ingiustizia, la guerra. E purtroppo lo si può dire anche dei popoli che hanno accettato la fede in Gesù. Verificando la nostra storia, noi cristiani non ci siamo certo comportati meglio degli altri. Nell'esperienza del secolo scorso, in particolare, i grandi drammi ci hanno obbligato a percorrere strade più coerenti con la parola di Gesù, ma non ancora sufficientemente maturate a livello di popolo.
Papa Francesco ci ricorda che la fede non è compatibile con la violenza. E proprio nel secolo scorso, dopo infinite tragedie, è stato fortunatamente stabilito, pur nei drammi e nelle difficoltà, il significato della "non violenza" e il coraggio di perseguire strade di pace. Non dimentichiamo che il grande campione della "non violenza" declinata addirittura a livello politico è stato un indù: Gandhi che pur conosceva e ammirava Gesù.
"Vitigni pregiati" (v 2) fanno probabilmente riferimento a paesi esteri da cui sono stati importati (qui potrebbe essere l'Egitto). Costruire una torre piuttosto che solo una capanna come spesso si usava per passare la notte come rifugio e per fare la guardia, per tenere lontano i ladri, è il richiamo alla dinastia di Davide, a cui Dio ha fatto le sue promesse.
Galati. 2, 15-20
Paolo si è fermato nella regione occupata dai Galati (attuale Turchia centrale) durante il secondo viaggio missionario (50-52 d.C.) a causa di una malattia (4,13-14). Per Paolo anche questa è un'occasione e un segno per parlare di Gesù a queste popolazioni. Molti, probabilmente appartenenti a diverse comunità, accolgono il suo annuncio e sono per lo più pagani. Perciò si capisce il significato di rivolgersi, nella lettera, "alle chiese della Galazia" (1,2). Il messaggio che Paolo porta è stato, prima di tutto, sperimentato nella sua vita. E' consapevole e si preoccupa di parlarne con grande lucidità, pur rendendosi conto di dover dire agli ebrei che la legge e i riti debbono definitivamente cedere il passo alla legge di Gesù Signore.
Egli conduce i suoi ascoltatori su un'altra strada, liberandoli dalla ossessione della legge di Mosè, carica di prescrizioni che angosciano l'esistenza e rendono davanti a Dio ogni credente, continuamente, solo cosciente di infedeltà. E tuttavia, alcuni ebrei, pur convertiti alla parola di Gesù, ritengono che bisogna continuare ad essere attenti alla legge ebraica, lo predicano e quindi creano confusione. Molti rivedono la loro posizione, precedentemente assunta con Paolo, e accettano la proposta di questi ebreocristiani, probabilmente di origine farisaica, come d'altra parte lo era stato Paolo, ma esigenti e, in mancanza di confronto, anche convincenti. Quando Paolo viene a saperlo, si preoccupa non solo di chiarire la propria posizione, ma anche di richiamare i fratelli cristiani, che ha conosciuto, alla chiarezza della fede. Così, dopo aver compreso la libertà del Vangelo, le "Chiese della Galazia" stanno ritornando alla schiavitù della legge mosaica (1,6-10; 3,1-5). Paolo parla, nel suo scritto, della missione avuta da Dio, dei suoi rapporti con gli apostoli di Gerusalemme, e ripropone, con grande intensità, i temi centrali del Vangelo e l'assoluta superiorità della fede cristiana sull'antica legge. Egli tuttavia mette in guardia anche da quella mentalità che ci porta a sentirci garantiti e protetti perché impegnati in opere giuste, giuste oltretutto secondo i nostri criteri, costruiti sulla cultura corrente, sul buon senso, sulle abitudini, sulla propria sensibilità e, spesso, su luoghi comuni. La Legge di Gesù non dà molti precetti, ma ci mette a confronto su uno stile di vita, sulle scelte e i criteri che il Signore ha portato, e su una sensibilità che, in fondo, deve quotidianamente essere tradotta nel rapporto con gli altri: "Ama il prossimo tuo". Così chi è credente in Gesù non solo rispetta la legge della convivenza, la responsabilità del costruire insieme una società, ma vive anche questo rapporto sempre nuovo e sempre difficile che è quello del rivedere la propria mentalità e quindi riorganizza, ogni volta, lo stile dell'accoglienza.
Matteo 21, 28-32
Matteo racconta, in quest'ultima parte del suo Vangelo, alcuni episodi di Gesù nella settimana precedente la Pasqua che lo porterà alla morte e alla risurrezione. Nel primo giorno, a Gerusalemme vengono ricordati due episodi (Matteo 21,1 e ss): l'ingresso messianico che Gesù stesso organizza a partire dal Monte degli ulivi e la scacciata dal tempio dei venditori, sostituendo la loro presenza con ciechi e sordi che guarisce e con i bambini in festa. Tutto questo crea sconcerto, scandalo, rifiuto dei responsabili del tempio. Il giorno seguente Gesù, che ha passato la notte con i suoi apostoli a Betania, ritorna nel tempio dopo aver simbolicamente provocato la sterilità di una pianta di fichi poiché porta solo foglie e non frutti (vv 18-22). Per tutto il giorno è rimasto nel cuore dei discepoli l'interrogativo di una maledizione per un albero che non è nella stagione dei frutti. E intanto Gesù nel tempio insegna e i capi dei sacerdoti e gli anziani lo contestano con una domanda precisa: "Con quale autorità fai queste cose? Chi ti ha dato quest'autorità?" Matteo allora riporta tre parabole: la parabola di due figli (21,28-32), la parabola dei vignaioli malvagi (21,33 46) e la parabola degli invitati alle nozze (22,1-14). Tutt'e tre queste parabole hanno, come tema, l'accoglienza del regno, la storia d'Israele nella sua essenziale vocazione e il comportamento delle autorità e degli onesti in Israele. Le tre parabole richiamano il rifiuto di fronte alle proposte di Dio, siano esse espresse dai profeti, o proposte da Giovanni Battista o suggerite dallo stesso Messia.
La parabola di oggi ha sempre, come riferimento, la vigna, grande amore di un contadino, esperto e orgoglioso del proprio lavoro, che sa operare con intelligenza e può ottenere benessere e pace. "Invitare il suo vicino sotto la sua vite e sotto il suo fico" è il sogno coltivato da ogni Israelita (Zac 3,10). La vigna è il grande progetto e il grande amore di Dio a cui non vuol far mancare persone sagge, competenti e fidate che impegnino il proprio tempo e le proprie risorse. Così il padrone (si capisce immediatamente che il padrone è Dio) chiede aiuto ai suoi due figli per la sua vigna. La proposta è fatta a tutti e due. E già questo è strano poiché nella riflessione d'Israele si parla di un unico figlio che è Israele stesso: "Dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (Osea 11,1) e al faraone viene dichiarato: "Israele è il mio figlio primogenito" (Esodo 4,22). Ma la provocazione si allarga. Il primo rifiuta, poi va a lavorare. Il secondo non è d'accordo con il progetto del padre, ma il padre va rispettato e quindi immagina che siano sufficienti parole ossequiose. Ma le parole non bastano. Lo ha già detto Gesù: "Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Mt7,21).
Gesù mette in luce un pericolo diffusissimo in ogni religione: quello del formalismo, per cui si garantisce ogni rispetto, non ci si schiera mai contro Dio, non lo si rifiuta assolutamente, né lo si rinnega. Magari il Signore è sempre al vertice dei nostri pensieri. Ma poi avvengono segni e fatti nuovi, imprevedibili: e noi ci rendiamo conto che si stanno aggiungendo messaggi diversi da quelli a cui siamo abituati eppure sufficientemente chiari. Restiamo disorientati ma non ci decidiamo a pensare e scegliere. Facilmente ritorniamo ai nostri "si" formali e dimentichiamo i richiami nuovi.
La religiosità dei frutti (Mt 21,18-22: la sterilità del fico) ci farà ripensare alla coerenza della vita, ma anche alla imprevedibilità che la Parola del Signore, facendosi presente, ci obbliga umilmente a ripensare: a cammini, progetti e segni. Per la gente del suo tempo il segno è Giovanni Battista, seguito dai peccatori (il mondo ebraico elenca come categorie di infedeli "i pubblicani e le prostitute", uomini e donne che hanno rifiutato il Signore). Ma Gesù si preoccupa di richiamare i responsabili religiosi del suo tempo, obbligandoli a misurarsi sul messaggio di Giovanni Battista, se non proprio sul suo. "Gesù rispose loro: «Anch'io vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, anch'io vi dirò con quale autorità faccio questo.
Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?» (21,24-25).
Essi non osano rispondere poiché non hanno accettato la parola del profeta e pubblicamente non lo vogliono ammettere. Né osano dire il loro perché. Allora Gesù dice: «Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose». Matteo scrive, circa 50 anni dopo, il suo Vangelo. Si sono aggiunti i pagani convertiti che, nella Comunità cristiana, rappresentano la maggioranza. Allora come oggi il problema si pone: fare la volontà di Dio significa preoccuparsi della vigna, renderla bella e accogliente, e trasformare questa nostra realtà in un mondo di pace. Accogliere il Signore e seguirlo non è prima di tutto la preoccupazione del proprio paradiso ma la disponibilità di operare secondo il suo disegno di pace e di amore nel mondo.
Resta sempre, come un macigno, l'avvertimento di Gesù a noi, credenti nella sua parola: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio" (21,31).