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TESTO Ognuno raccoglie cio che semina

Marco Pedron   Marco Pedron

XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (25/08/2013)

Vangelo: Lc 13,22-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 13,22-30

In quel tempo, Gesù 22passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. 26Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. 27Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Nel vangelo di oggi viene posta una grande domanda, tipica del tempo: "Sono pochi quelli che si salvano?". Tutti noi ci siamo posti questa domanda in qualche momento della nostra vita: "Ma di là ci sarà qualcosa?". E poi: "E se ci sarà, io ci sarò?". Tutti noi abbiamo paura di perderci, di finire nel nulla; è il timore del niente, del buio e della notte. E il fatto di farci questa domanda dice anche la nostra insicurezza e inquietudine a riguardo.

Allora Gesù dice di sforzarsi, di entrare per la porta stretta.

Il verbo sforzarsi in greco è "agonizo" e vuol dire lottare, gareggiare, combattere. L'agon era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare. Agonizzare è l'ultima estrema terribile lotta.

Sforzarsi, allora, vuol dire combattere, lottare, rimanere fermi su ciò che ci si è prefissati. Una porta stretta indica un luogo di difficoltà: cosa si fa di fronte ai problemi, alle questioni, alle strade senza apparente via d'uscita? Bisogna perseverare, cioè non arrendersi, lottare, impegnare tutte le proprie forze, non scoraggiarsi e non mollare la presa al primo fallimento. Perseverare è insistere tenacemente su di una cosa, saper aspettare, saper accettare anche la sconfitta momentanea ma non lasciarsi sviare dal proposito. Bisogna essere severi (per-severa-re), fissi, fermi, costanti, senza lasciarsi spaventare dalle contrarietà. Ci vuole disciplina; bisogna lavorare giorno dopo giorno anche se le cose sembrano darci contro.

Tutto ciò che conta, che è significativo, che è profondo è una lotta. Cioè: non si raggiunge in un attimo, in un colpo solo, in un istante, ma devo perseverare, devo metterci tutte le mie forze, tutta la mia attenzione, tutto il mio amore e devo provare e riprovare, non riuscire una, due, cento volte e non arrendermi.

La società ci passa un'immagine distorta della realtà: "Tutto e subito"; "In un attimo". Con il telefono in un attimo ci mettiamo in comunicazione con l'Australia; con il microonde in un attimo scaldiamo i cibi; con la tv in un attimo vediamo ciò che succede in questo istante a migliaia di chilometri da qui; con un pulsante apriamo il cancello, con un altro abbiamo il fresco in casa. Poi, siccome ci sono certi giochi televisivi che "in un attimo" ci promettono la ricchezza o che in un attimo ci fanno diventare famosi, allora prende forma in noi l'idea che tutto possa essere raggiunto in un attimo.
Ma la realtà non è così.

Per capire le mie paure, il perché reagisco urlando quando qualcuno mi fa un'osservazione o il perché non parlo più se uno urla contro di me oppure perché sono così timido o insicuro da vergognarmi di tutto, o il perché soffro di attacchi di panico o non dormo alla notte, non posso sperare nel "tutto e subito". Devo sforzarmi: cioè devo lottare, desiderare di capire, di conoscere, devo provarci, entrare dentro la questione, sviscerarla, scavare, cercare: è una battaglia! Altrimenti non ci tengo; se mollo subito vuol dire che non ci tengo tanto, che mi va bene così.

Per educare mio figlio che a tavola non si guarda la tv perché è bello parlarsi, devo sforzarmi. Cioè, è una lotta, è un impegno; devo essere tenace con me e con lui. Perché a volte mi piacerebbe vedere la partita di calcio finché si mangia; perché a volte vorrei fare un'eccezione; perché a volte non ho voglia di impormi. Ma se una volta dico bianco e l'altra nero allora mio figlio non ha riferimenti, regole e farà quello che vorrà. Allora devo rimanere fedele, essere costante, perseverare in ciò che ritengo importante.

Perché la mia fede sia una quercia che non si sposta, radicata, devo sforzarmi. Cioè: devo essere tenace con me, devo lottare, devo disciplinarmi. Se vado solo messa quando mi sento o quando capita non si può costruire nulla; devo lottare contro le belle giornate di sole estive e andare ad esempio il sabato sera; devo lottare contro gli amici che arrivano a pranzo, il marito che non vuole saperne, il figlio che brontola e che mi chiama "bigotto", contro la mia svogliatezza di certe mattine. E' una lotta: ma chi ha mai detto che la fede sia facile?

Se tra marito e moglie ci parliamo una volta all'anno e poi basta allora non si costruisce nulla di radicato. Dobbiamo sforzarci, essere tenaci, lottare per ciò che crediamo fondamentale, vitale per il nostro rapporto. Ciò per cui non si lotta non vale. Devo essere tenace con il mio rapporto di coppia: dobbiamo imporci una volta la settimana una sera per noi, costi quel che costi (figli dai nonni o dalla baby-sitter: ma costa? Ti costerà ben di più il fallimento del tuo matrimonio, sia economicamente che affettivamente!), anche se sono stanco morto, anche se a sera nessuno ha voglia di parlarsi, anche se è difficile prendere ed uscire e non stravaccarsi invece davanti alla tv. Ma se amo il mio matrimonio, se voglio che l'amore viva devo essere tenace.

Se mi faccio aiutare da un padre spirituale, da un terapeuta o da qualunque altro devo sforzarmi, devo essere fermo e duro con me: ci vado anche quando è difficile, anche quando mi fa piangere e medicarmi le ferite dell'anima mi fa male, anche quando andrei da qualunque altra parte piuttosto che andare lì di fronte alla mia verità e alla mia nudità. Se mi voglio bene devo lottare per me, devo perseverare, perché non posso crescere, guarire, "tutto e subito, in un attimo", con un incontro, con la risposta di un guru che mi dovrebbe risolvere tutti i problemi.

Mi capita spesso di "far male" alle persone che vengono parlare con me: a volte le ferisco, le faccio piangere; a volte so che le metto davanti a qualche K2. So che in certi momenti dovranno sudare e sputare sangue, ma una voce dentro di me continua a pregare per loro e a dire: "Tieni duro, resisti, per favore non mollare, vai avanti". Se lo fanno è la salvezza ma a volte è proprio dura, è come scendere nell'inferno e chi ci vuole andare laggiù?

Se voglio smettere di bestemmiare, di fumare, se sono negativo di fronte a tutte le cose ("questo mondo è tutto uno schifo") o pessimista ("a me non va mai bene niente") o disfattista ("non serve a niente") devo lottare con tutte le mie forze contro questo pensiero negativo. Combatto perché voglio essere libero, voglio essere io il padrone della mia vita.

Di fronte alla paura di parlare in pubblico, di non essere all'altezza, di essere derisi, di far ridere gli altri, di non saper cosa dire, di non essere interessanti, di essere brutti, di non risultare graditi, di non saper parlare: quante volte devo provarci e non cedere di fronte al primo insuccesso, a quella voce che dice "E' successo un'altra volta, lo sapevo. Sono così, non ci posso fare niente". No, sforzati, provaci ancora! Lo vuoi o non lo vuoi?

Mi serve molta disciplina, molta forza, molta applicazione per lottare contro i miei pensieri negativi. Ti alzi la mattina. "Cosa mi metto?". Apri l'armadio a otto ante. Con tutti quei vestiti potresti vestire estate e inverno tutto il tuo paese (il tuo paese fa ventimila abitanti). Ma non c'è niente che ti va bene, nessun vestito va bene. Allora il pensiero lavora: "Devo comprarmi degli altri vestiti, forse è per questo che il mio collega ieri mattina non mi ha notato... però dovrei anche dimagrire di qualche chilo così i vestiti mi andrebbero bene... sì è per questo che nessun vestito mi va bene: il mio corpo... -e intanto il pensiero lavora, macina - sono io che non vado bene... non sono mai andato bene a nessuno... per questo non ho il moroso... ma forse nessuno mi vuole... che ci sto a fare a questo mondo... sono inutile... nessuno mi ama... che tragedia vivere!". Così prendi il primo vestito che ti capita e vai a lavorare, nessuno ti nota e questo conferma che tu non vali. Pensieri persecutori così ne facciamo a bizzeffe: devo sforzarmi, devo impegnarmi, riconoscerli, smascherarli, combatterli altrimenti domineranno e distruggeranno la mia vita.

Su certe questioni bisogna essere inflessibili: si fa e non si discute. Non perché si è rigidi o testardi, ma perché su alcune cose non si può transigere, altrimenti cade tutto. Su alcune questioni devo essere fermo, duro come l'acciaio.

Sforzarsi vuol dire faticare e rimanere in quella situazione, non fermarsi di fronte alla prima sconfitta. "Ma è difficile!". "E chi ha detto che la vita sia facile?". Se ci fosse stato insegnato che essere uomini veri costa, che l'amore e il matrimonio sono complessi, che tutto ciò che è felicità, anima, fiducia, richiede cura e lotta, prenderemo meno cantonate dalla vita. "La vita è difficile. Ma chi ha mai detto che sia facile?".

Poi c'è quella terribile frase: "Non ti conosco".

Andare dal proprio padre, dalla propria madre e sentirsi dire: "Non ti conosco, non so chi sei": terribile! Eppure questa frase ha un senso profondo: non è Dio che ci condanna, che ci rifiuta.

Dio ha creato me Marco. Ma se io mi maschero, se io vivo con la maschera del forte, dell'orgoglioso, del potente; se io indosso la maschera del riuscito, di colui che sa tutto; se io mi vesto di colui che può, che sa o qualunque altra maschera indosserò quando mi presenterò da Lui, Lui mi dirà: "Io non ti conosco. Io non ho mai creato questo; da dove vieni, chi sei tu che indossi questa maschera? Non ti posso far entrare perché non vedo la tua faccia e non ti conosco: fatti riconoscere".

Quando andrò da Lui, Lui mi dirà: "Chi sei?". " Sono il presidente del consiglio; sono lo scopritore dell'America; sono l'inventore della relatività; sono stato un uomo famoso, ricco, importante, conosciuto da tutti, una brava mamma, un bravo papà, un bravo prete". E Lui ci risponderà: "Non ti conosco".

Ci farà tanto male questa risposta, ci brucerà vedere che tutto ciò che abbiamo costruito, conquistato, che tutti i nostri meriti non serviranno a niente (perché sotto sotto un po' ci crediamo che i nostri meriti ci aiuteranno!) e che tutto questo non ci salverà e la porta non si aprirà.

"Chi sei?". Solo se risponderò con il mio nome: "Marco", la porta si aprirà. Dio non ha creato dei bravi padri, degli scienziati, dei bravi funzionari. Dio ha creato delle persone. Dio riconoscerà solo ciò che ha creato. E se noi non ci vorremmo far vedere così come Lui ci ha creati Lui non ci riconoscerà.

E tutte le nostre scuse non serviranno: "Ma Signore noi eravamo battezzati; noi andavamo tutte le domeniche in chiesa; Signore, noi non abbiamo fatto nulla di male; Signore non ti abbiamo mai rifiutato; siamo stati cristiani fin da piccoli, lo era mia madre, mio padre, mio nonno".

"Non vi conosco: allontanatevi da me operatori di iniquità". Cioè: non è l'adesione esterna che garantisce l'ingresso al regno. Non è perché tu preghi sempre, non è perché tu fai come tutti, non è perché tu ti attieni a quello che tutti fanno che sei nel giusto.

Sulla terra le conoscenze fanno tutto; sulla terra la posizione fa tutto e apre tutte le porte. Basta portare qualche referenza giusta, basta far il nome del tizio tal dei tali e le porte si aprono. Un mio compagno di classe delle elementari ha frequentato la scuola di agraria. Adesso fa il banchiere. Incontrandolo gli chiedo: "Ma com'è stato possibile?". "Basta conoscere le persone giuste!", mi ha risposto.

Ma in cielo tutte le nostre medaglie decorative non ci serviranno perché Dio, che ci ha creati nudi, ci accoglierà nudi. Nudi non tanto fisicamente, nudi perché svestiti di tutto ciò che noi potremmo vantare a nostro merito. E ci lascerà fuori finché testardamente vorremmo entrare vestiti dei nostri meriti: "Con tutto quello che ho fatto, che sono stato, un po' me lo merito! Proprio io!" e invece, resteremo fuori. E così molti di quelli religiosi, molta brava gente, molti primi resteranno fuori, ultimi. E altri, invece, chi non avresti mai detto, saranno dentro.

Il vangelo di oggi non ci vuole far paura: è una constatazione di ciò che ci accadrà vivendo così. La mia esistenza è contrassegnata dalla legge di causa-effetto: ciò che semino raccolgo perché la vita è come un boomerang e tutto ciò che lanci ti ritorna indietro.

Se tu bevi un veleno ti fa male, è ovvio. Se ti butti da mille metri senza il paracadute muori, è ovvio. Se vai ai 200 orari in città fai un incidente, è ovvio. Cioè: quello che fai causa qualcosa in te e fuori di te. Quello che fai ha degli effetti su di te e sugli altri; quello che fai ha delle conseguenze, sappilo e prenditi le responsabilità delle tue azioni. Se tu non entri per la porta stretta, dice il vangelo, verrà un momento in cui la porta verrà chiusa, ma è ovvio.

Tu vivi pure lontano da te stesso, non avere mai tempo per te (non hai mai tempo o ti trovi sempre qualcosa in modo da non aver tempo?), non porti certe domande perché sono pericolose, ma non ti lamentare se un giorno ti sentirai vuoto, insoddisfatto. Perché ciò che fai ha le sue conseguenze.

Tu non andare a messa, non frequentare gruppi di vangelo, di ascolto, di condivisione, proposte di spiritualità ma non ti lamentare poi se in casa tua non c'è armonia, non dire: "La vita fa schifo, non si può essere felici, l'amore non esiste". Perché ciò che fai ha le sue conseguenze e ognuno raccoglie ciò che semina.

Tu non prenderti cura del tuo animo: non darti silenzio, momenti di riflessione, di ascolto, non fermarti mai, ma non ti lamentare se vivi sempre tormentato, sempre inquieto, sempre nervoso. Perché ciò che fai ha le sue conseguenze e ognuno raccoglie ciò che semina.

Tu non abbracciare mai tuo figlio, non accarezzarlo troppo perché altrimenti si viziano, toccalo in maniera veloce, sbrigativa, ma non ti lamentare quando un giorno avrà problemi di psoriasi o di chiusura. Perché ciò che fai ha le sue conseguenze e ognuno raccoglie ciò che semina.

Tu continua a pensare male degli altri "quello è così, quell'altro è colà, quell'altro ancora ha quest'altra cosa": insomma tutti ne hanno una, nessuno ti va bene e abbi da ridire su tutti, ma non ti lamentare se non c'è amore nella tua vita, se nessuno ti vuole, se nessuno - dici tu - ti capisce. Perché ciò che fai ha le sue conseguenze e ognuno raccoglie ciò che semina.
Tu continua a pensare come tua madre e diventerai come lei.

Sta fuori dalla porta e un giorno la porta si chiuderà. Sarà inutile poi prendersela con qualcuno: "Ma perché mi lasci fuori? Perché mi succedono queste cose?". Saranno inutili le nostre scuse o giustificazioni.

Ciò che fai ha le sue conseguenze e ognuno raccoglie ciò che semina.

Allora io non devo accusare nessuno di com'è la mia vita, non devo scaricare sugli altri la responsabilità della mia vita, perché essa è nelle mie mani, nelle scelte che faccio e che hanno delle conseguenze; nei pensieri che faccio; nei gesti che compio e che hanno degli effetti su di me.

Ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. Chi semina carote raccoglierà carote e chi semina patate raccoglierà patate. Chi semina raccoglierà e chi non semina nulla non raccoglierà nulla.

E poi questo vangelo dice: certi passaggi difficili, duri, angusti, stretti bisogna passarli.

Quando tra marito e moglie l'amore si va spegnendo, esaurendo, bisogna entrarci dentro. E' difficile, è doloroso, a nessuno piace constatare che i nostri buoni propositi non sono bastati: chi di noi vuole accorgersi che il nostro matrimonio è in crisi, ma se non si entra finirà tutto. Bisogna entrare nella questione.

Quando mio figlio a scuola è una peste, è iperattivo, è incontenibile, è aggressivo, oppure è sempre buio, cupo, arrabbiato, non ha amici, è chiaro che sta vivendo un disagio. Nessuno accetta questa realtà, perché ci si sente accusati come genitori, ma se non si entra per questa porta sarà peggio, potrebbe arrivare un punto in cui sarà davvero troppo tardi. Ci devo entrare, anche se è difficile.

Quando ho un problema, una paura, una cosa che nessuno sa perché mi vergogno di dirla, quando c'è qualcosa di "pesante" in me, è ovvio che a nessuno piacerebbe prendere in mano tutto questo, nessuno vorrebbe prendere in mano i serpenti, ma ci devo entrare, devo passare per di lì, altrimenti un giorno potrebbe essere troppo tardi e la porta potrebbe essere chiusa per sempre, cioè potrebbe essere diventata una situazione non più risolvibile, invalicabile.

Bisogna passare per certi passaggi; sono angusti, difficili, dolorosi, ma ci devo entrare. Certi incroci, certe questioni devono essere affrontate costi quel che costi, perché altrimenti non si progredisce e ci si ferma.

Ognuno raccoglierà ciò che avrà seminato.

Pensiero della Settimana

Ciò che facciamo agli altri in realtà è ciò che facciamo a noi.

Quello che fai è quello che avrai; quello che fai è quello che sarai.

 

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