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TESTO Il male non ce la può fare!

don Alberto Brignoli   Amici di Pongo

I Domenica di Quaresima (Anno C) (17/02/2013)

Vangelo: Lc 4,1-13 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 4,1-13

1Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, 2per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. 3Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». 4Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo».

5Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra 6e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. 7Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». 8Gesù gli rispose: «Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto».

9Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; 10sta scritto infatti:

Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo

affinché essi ti custodiscano;

11e anche:

Essi ti porteranno sulle loro mani

perché il tuo piede non inciampi in una pietra».

12Gesù gli rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».

13Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

Ritenere che la tentazione o più in generale la presenza del male nella nostra vita, dentro e intorno a noi, rappresenti una diminuzione della nostra dignità di uomini e di credenti è qualcosa che fa parte di un retaggio culturale che ci portiamo dietro da parecchi anni, da secoli di storia, credo, e di certo ha condizionato e continua a condizionare il nostro modo di vivere la fede.

Pensare che il mondo nel quale siamo inseriti sia fondamentalmente cattivo; vivere i rapporti con le persone con una sorta di innata diffidenza nei loro confronti; assumere atteggiamenti eccessivamente scrupolosi di fronte a situazioni che - pur manifestandosi con ambiguità - di per sé non hanno e non fanno nulla di male: personalmente ritengo (posso anche sbagliarmi, per carità) che tutti questi comportamenti non facciano parte della dimensione vera e profonda dell'uomo di fede inserito nel mondo come testimone dell'amore di Dio, pur non identificandosi con la mentalità del mondo. Meno ancora, li vedo come strutturali all'essenza della fede cristiana.

La spiegazione storica è presto data, e ha ovviamente delle implicazioni teologiche non indifferenti: nel periodo storico in cui il Cristianesimo - che fino allora era considerato dalla Chiesa nascente un "cammino" - inizia a diventare una religione, meglio ancora una religione "di stato", la teologia che prevale è quella di Agostino d'Ippona, per la quale da sempre io nutro una passione viscerale, ma analizzando la quale nessuno può negarne la dimensione fortemente "amartiocentrica" (perdonatemi i "tecnicismi"...), ovvero quella visione della natura umana e del suo rapporto con il Divino che pone al centro la "amartia", cioè il peccato. Per cui, la relazione tra l'umano e il Divino, nello specifico cristiano l'Incarnazione, ha al suo centro la dimensione essenzialmente peccaminosa dell'uomo (la vicenda personale di Agostino gioca un ruolo fondamentale nella sua teologia, come ovvio), di fronte alla quale essa assuma essenzialmente la connotazione di intervento di Grazia di Dio per salvare l'uomo dal peccato, più che - come correttamente la teologia successiva ci ha permesso di riscoprire - rivelazione della figliolanza divina dell'umanità di cui Gesù Cristo è la primizia e il compimento.

Quindi, in questa visione, Gesù si è incarnato fondamentalmente per salvarci dal peccato e non per manifestarci che tutti quanti in lui siamo fratelli e figli di Dio. Ed è innegabile che questa visione ce la portiamo dietro da secoli, accompagnata poi da tutta una serie di declinazioni pratiche di tipo ascetico volte a lottare contro il male con fatica, con sacrificio, con sudore, prima che il Male finale (la morte) abbia il sopravvento su di noi. Il giansenismo del XVII secolo, mai terminato, ci ha dato ulteriormente una mano a considerarci un'umanità inesorabilmente votata a lottare contro il male.

Sarà che la I domenica di Quaresima c'entra qualcosa con tutto questo? Altroché...anche perché ci dà una mano a rileggere tutto sotto una giusta lente, ovvero quella della Grazia e della vita nello Spirito. Al centro della nostra vita di cristiani non ci può essere il male o la lotta contro di esso, ma il nostro rapporto di figliolanza con Dio. Per questo, la tentazione, il nostro traballare di fronte alle lusinghe deleterie ma sempre molto allettanti del male, le nostre continue cadute e ricadute, non possono essere viste come una disfatta, come un dramma, come la fine di sforzi ascetici fatti per incamminarci in maniera decisa verso la santità; perché la tentazione di lasciarci andare alle logiche del potere, del successo, dell'autonomia da Dio, della ricchezza, sono il nostro pane quotidiano, sono la zizzania che cresce ogni giorno insieme al grano buono, sono noi stessi ed insieme la nostra negazione.

E tutto questo ha fatto parte anche della vita di Gesù Cristo, della cui lotta con la tentazione di lasciarsi convincere dal male ci parla il Vangelo di oggi, proprio all'inizio della Quaresima. E le sue tentazioni, non si sono certo esaurite in quaranta giorni di deserto, né in tre anni di vita pubblica o in trenta di vita nascosta a Nazareth: hanno pervaso la sua esistenza in ogni momento, perché il diavolo, l'avversario, satana, non l'ha mai abbandonato un istante. Si è nascosto nel gesto premuroso di un discepolo che l'ha rimproverato quando lo sentiva parlare della propria morte, si è travestito con i panni di un altro discepolo che l'ha tradito con un bacio per un pugno di soldi, si è fatto vivo in continuazione sotto forma di potere, di successo, di autosufficienza, fino ad avere, sia pur parzialmente, il sopravvento su di lui "al momento fissato".

Il male pervade la nostra vita, ci accompagna sempre, ci circonda, ci tenta, ci attacca, e ci vince anche con una certa frequenza: ma non per questo dobbiamo fare della nostra vita di credenti una continua lotta contro il male, perché non sono sue né la prima né l'ultima parola sulla storia. Il deserto l'abbiamo nel cuore in ogni istante della nostra vita, anche e soprattutto quando abbiamo la sicurezza di stare bene così come siamo: ma non dimentichiamoci che Gesù nel deserto ci è andato pieno di Spirito Santo e guidato da lui stesso.

Con una guida così, di cosa possiamo avere paura? Di una piccola tentazione da quattro soldi? Di un momento di debolezza? Di uno sbaglio fatto e comunque facilmente rimediabile? Di un'epoca storica che ci confonde perché ci sentiamo trascinati da forze che non riusciamo a governare? No, non è possibile mettere il male al centro della nostra esistenza di cristiani, perché allora significherebbe davvero che la logica del potere, della ricchezza e dell'onnipotenza ha preso il sopravvento su di noi, e ci sentiamo abbattuti e sconfitti dal male quando non riusciamo a dominare tutto ciò che ci circonda.

Vogliate scusare il mio riferimento ai fatti di cronaca di questi giorni, ma quanto sta avvenendo, non può essere letto solamente in modo semplicistico - per quanto vero - come l'umile ammissione delle proprie debolezze e dell'incapacità, da parte di un essere umano simile in tutto ad ogni figlio d'uomo, a portare avanti un compito gravoso e impegnativo; bensì, deve rappresentare lo stimolo a una decisa e non più blaterata conversione radicale nel nostro modo di essere Chiesa - Popolo di Dio, che ci coinvolga tutti, a partire da noi guide e pastori, a cui nessuno mai ha negato o negherà filiale rispetto e obbedienza, nella misura in cui eserciteremo il nostro ministero nel servizio e non nel potere, nell'autorevolezza e non nell'autorità.

Prendiamo il gesto drammatico ma insieme carico di profezia del nostro Pastore Universale come stimolo per una seria e profonda conversione, non solo personale, ma anche strutturale, ovvero dentro una Chiesa che si è talmente lasciata abbagliare dall'ammagliante piacevolezza del potere, della ricchezza, della manipolazione delle coscienze, della sovranità assoluta, da aver ormai raggiunto e oltrepassato il limite della sfrontatezza e della spregiudicatezza. Esse sono figlie di quel peccato originale che a parole indichiamo sempre come centro della nostra lotta quotidiana, ma da cui in realtà fatichiamo ad allontanarci; quello per cui pensiamo di essere talmente familiari e simili a Dio da identificarci con lui, esercitando il potere su ogni creatura.

Benedetto XVI è stato un umile servo della vigna del Signore, sin dal primo giorno del suo pontificato. E con questo gesto finale, ci ha fatto capire - caso mai ce ne fossimo dimenticati - che c'è un solo Padrone della vigna e degli alberi da frutto in essa piantati, ed è a Lui che dobbiamo consegnare la cassetta dei frutti.

Ora non c'è più tempo da perdere; per evitare l'impietosa scure della storia sulla Chiesa di Dio, occorre un colpo d'ala dello Spirito Santo, del quale nessuno dubita. Ma ci vogliono pure - e qui purtroppo la tentazione di dubitare ci assale fortemente - uomini capaci di afferrare al volo questo colpo d'ala e di lavorare sodo perché ogni uomo torni a sentirsi figlio di Dio, e non schiavo del male.
Santità...grazie!

 

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