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TESTO Traversie o opportunità?

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VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (15/02/2004)

Vangelo: Lc 6,17.20-26 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, 17disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone,

20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,

perché vostro è il regno di Dio.

21Beati voi, che ora avete fame,

perché sarete saziati.

Beati voi, che ora piangete,

perché riderete.

22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.

24Ma guai a voi, ricchi,

perché avete già ricevuto la vostra consolazione.

25Guai a voi, che ora siete sazi,

perché avrete fame.

Guai a voi, che ora ridete,

perché sarete nel dolore e piangerete.

26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.

Quando ci complimentiamo con gli altri, spesso noi siamo colti da una sottile invidia. «Beato te, che hai una buona salute», ci capita ad esempio di dire. Oppure: «Beato te, che puoi permetterti tanto». O ancora: «Beato te, che hai figli giudiziosi». O addirittura: «Beato te, che hai la fede». Ebbene: in tutti questi complimenti – che fanno parte del nostro comune repertorio – è molto facile che si insinui l'invidia. Essa certo quasi mai nasce dalla cattiveria: più facilmente invece deriva da un distorto atteggiamento tenuto nei confronti della vita. Mi riferisco all'atteggiamento discutibile di chi affida il proprio futuro al destino, e insieme pretende che questo destino sia favorevole: e siccome a suo giudizio quasi mai è favorevole, egli si sente come defraudato di un diritto. In tal modo, la beatitudine è riconosciuta soprattutto come cosa altrui, e comunque come cosa estranea alle proprie possibilità.

Davanti a questo nostro comune modo di pensare, le parole di Gesù che leggiamo nel Vangelo di domenica (Lc 6,17.20-26) appaiono perlomeno paradossali. «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete». Appunto paradossali appaiono queste parole: infatti, per noi è fin troppo evidente che povertà, fame e pianto non sono beatitudini, ma disgrazie. Noi, dunque, ce la saremmo presa con il destino crudele, o avremmo protestato contro le ingiustizie del nostro mondo: e non ci saremmo certo sognato di chiamare «beati» i poveri che hanno fame e gli afflitti che piangono. Perché in fondo noi siamo convinti che non ci sia niente da fare davanti al destino cattivo, se non augurarsi una sorte migliore.

Ma in quel tempo Gesù non si adeguò a questo comune modo di pensare. Egli certo sapeva bene che povertà, fame e pianto non hanno nulla di bello. Ma sapeva anche che le traversie della vita possono diventare opportunità, se soltanto si è capaci di coltivare un'attesa. E quel giorno – «alzati gli occhi verso i suoi discepoli» – Gesù capì che essi aspettavano la misericordia e la fedeltà di Dio; comprese che credevano nel suo Vangelo e che avevano una grande attesa nel cuore: e per questo li chiamò tutti beati, nonostante molti di loro fossero poveri o almeno afflitti. «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio». Beati erano quei discepoli, perché davanti alla parola di Gesù avevano saputo trasformare le traversie della loro vita in opportunità di salvezza.

Allo stesso modo anche noi possiamo essere beati, se soltanto smettiamo di lamentarci ogni giorno in attesa di chissà quali miracoli e impariamo invece a cercare – anche attraverso le traversie quotidiane – la salvezza per noi preparata.

 

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