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TESTO Commento su Isaia 45, 20-24a; Efesini. 2, 5c-13; Matteo 20, 1-16

don Raffaello Ciccone   Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza

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Vangelo: Is 45, 20-24a; Ef 2, 5c-13; Mt 20, 1-16 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Lettura del profeta Isaia 45, 20-24a
Tutto il capitolo 45 esprime la fede di Israele nel Signore che dirige la storia, supera i confini d'Israele stesso e raggiunge l'umanità ( ci sono accenni alla creazione del mondo). Al centro del cammino, in cui Dio porta la salvezza, c'è un re, Ciro, che pure non conosce il Dio d'Israele, e che tuttavia ha la funzione di essere strumento del Signore stesso per la pace e la sicurezza del popolo. Nel Medio Oriente sono avvenuti sconvolgimenti e sono sorte realtà nuove. Dio nasconde la sua operosità nella storia del mondo, ma, al credente, deve restare la consapevolezza che è il Dio d'Israele l'autore della novità. Anche nel nascondimento, Dio conduce la sua opera e l'attuazione del suo disegno. Ai sopravvissuti delle lotte e delle tragedie ("i superstiti delle nazioni") viene rivolto l'invito che non è solo per "il resto d'Israele" ma per tutti popoli che, precedentemente, hanno creduto negli idoli: il Signore si rivolge loro chiedendo una testimonianza ed una requisitoria contro gli idoli che non possono salvare. Chiede loro di riflettere sulla storia e di scoprire che: "Solo nel Signore si trovano giustizia e potenza".
Il termine "giusto-giustizia" si trova 3 volte: la prima richiama la fedeltà all'impegno preso, le altre due corrispondono alla Salvezza.
Questo testo ha una grande apertura universalistica che spesso si ritrova nei testi di Isaia (soprattutto dopo il capitolo 40: i testi del Secondo e del Terzo Isaia).
Così anche noi siamo tutti invitati a ripensare con intelligenza agli avvenimenti dei nostri tempi: come credenti, siamo invitati a fare mature analisi sulla storia, sulla crisi, sul cammino del nostro mondo sempre più globalizzato.
"Quali sono i segni di Dio e verso quali orientamenti siamo invitati ad incamminarci? Come valutiamo e prendiamo posizione contro le guerre, la fame nel mondo, gli egoismi dei paesi ricchi, le chiusura nel benessere, la scoperta che nessuno di noi è autosufficiente? E ognuno di noi ha bisogno della solidarietà, dell'alleanza, delle competenze, delle materie prime, dei progetti, della forza dell'altro per costruire insieme la pace! Ma allora quali sono gli idoli e quale la giustizia?"
Lettera di san Paolo apostolo agli Efesini. 2, 5c-13
Paolo ha abitato molto tempo ad Efeso e quindi ricorda questo territorio e questa comunità con molta fiducia.
Scrive per i cristiani di Efeso e dei villaggi vicini mentre si trova in carcere a Roma, negli anni 61-63, in attesa di giudizio per essersi appellato a Cesare.
Paolo, dopo i saluti, inizia la lettera, richiamando l'azione del Padre, del Figlio e dello Spirito per la salvezza degli uomini, indicando l'esemplare comunione Trinitaria già prima della creazione e garantendo che essa è dono alla comunità dei credenti nel tempo della salvezza di Gesù.
Il Signore, già prima della creazione, aveva scelto gli uomini affinché vivessero nella carità come santi e immacolati, facendo sì che - abitando in questo mondo - diventassero tutti figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo.
La supremazia di Gesù, fondamentale per la fede dei credenti, offre "uno Spirito di sapienza e di rivelazione" (v 17). Così ci può essere consapevolezza che il Signore ha fatto un popolo nuovo poiché egli è " morto per le colpe ed i peccati " (v 1.5.) e il Padre " ci ha fatti rivivere con Cristo " (v 5). Quello che ci ha salvato, perciò, non sono state le opere, o i meriti, guadagnati di conseguenza, ma ci hanno conquistato l'amore e la grazia, quindi la gratuità di Dio che hanno fatto il miracolo di questa salvezza che continua nel cuore dei credenti. Nella grazia (ripetuta 3 volte) noi riceviamo la vita nuova (la risurrezione) e la dignità. E sempre per questa gratuità possiamo sedere nei cieli per giudicare tempi, opere e persone (immagine di potere). "Per la grazia (dono di Dio) nella fede (nostra partecipazione) siete stati salvati" e non per le opere., "perché nessuno possa vantarsene " (v 9). Sul dono, sull'amore di Gesù, sulla pienezza e la gratuità S. Paolo continua la sua ricerca e il suo insegnamento. Egli vuole che passi dentro di noi questa consapevolezza che diventa anche novità e struttura fondamentale del vivere, della pace, del cammino della giustizia. Solo tale consapevolezza della piena gratuità rimette in discussione i criteri di individualismo, di chiusura e quindi di difesa e di paura.
Paolo non vuole certo far mancare l'aspetto di responsabilità legato all'impegno, la dimensione etica che è affidata alla nostra coscienza e libertà. Perciò " siamo opera sua (di Dio), creati in Cristo Gesù " e impegnati ad operare nel mondo gesti e comportamenti buoni, che diventano criteri nuovi di vita. Non sono certo una nostra invenzione; ma il corredo di generosità e di bontà lo organizza il Signore che ci fa attenti: questi sono essi stessi doni, coerenze, prospettive che sorgono in conseguenza: noi siamo stati "creati per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo " v 10).
Nel cammino verso il Signore è importante il "ricordare", e quindi ripensare a come eravamo, al nostro timore ed indifferenza, alla nostra paura ed egoismo a cui accettavamo, senza speranza, di essere sottomessi. Eravamo lontani, e quindi senza riferimenti, "senza speranza e senza Dio nel mondo" (v 12). Ora "invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo" (13).
Lettura del Vangelo secondo Matteo 20, 1-16
La parabola dei lavoratori della vigna ha interessanti risvolti a livello teologico, ma tocca anche cultura, economia, senso del lavoro, contesto sociale.
Nel vangelo di Matteo la parabola è pronunciata nelle ultime settimane di vita del Maestro, mentre sta camminando verso Gerusalemme. Essa è preceduta da diversi insegnamenti che riguardano la partecipazione al Regno dei cieli: ci sono persone che non si sposano per amore del regno (Mt 19,12), il giovane ricco è invitato a vendere i beni per un tesoro in cielo (19,21), Pietro interviene chiedendo conto della contropartita, visto che i 12 hanno accettato di seguirlo: "Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (19,21). Gesù promette il potere di giudizio sulle 12 tribù d'Israele, la vita eterna e il centuplo di quanto hanno lasciato (19,27-29). Esiste, infine, un raccordo con la parabola attraverso un detto: "Molti dei primi saranno gli ultimi, e molti degli ultimi saranno i primi" (19,30). Con questo aggancio la parabola sviluppa ancora il tema della ricompensa di fronte alla sequela. I discepoli di Gesù sanno di essere come i lavoratori dell'ultima ora, rispetto alla storia degli ebrei e dei profeti, e sentono di condividere la condizione dei poveri e degli esclusi. Eppure ricevono la ricompensa piena. E però proprio gli ultimi debbono stare attenti a non mettersi orgogliosamente al di sopra degli altri, come chiede la madre dei fratelli Giacomo e Giovanni: "Fa' che questi due figli siedano uno alla destra ed uno alla sinistra del tuo regno" (20,21).
A dire il vero, la predicazione di Gesù, e questa parabola, in particolare, risentono della diffidenza e addirittura dello scandalo che Gesù provoca perché Egli prospetta anche "ai pubblicani ed alle prostitute", come ai giusti, il Regno di Dio (21,31); anzi "essi vi precederanno".
Per stare al racconto, si parla della vigna e, probabilmente, siamo al tempo della vendemmia. Il lavoro è faticoso poiché le giornate sono più lunghe (lavoro dall'alba al tramonto: in tutto 12 ore) ma non si richiedono molte competenze ( molto meno del lavoro di innesto delle viti che si opera in primavera). Così, all'alba, come si usa in questi periodi, i salariati si trovano in un luogo convenuto e vengono scelti dopo aver contrattato la paga giornaliera che deve essere consegnata al tramonto del sole: il salario è proprio necessario, giorno per giorno, per le necessità familiari e la legge lo impone. Inizialmente il padrone prende tutti quelli che trova: ne ha bisogno. Poi, via via lungo la giornata, a distanza di tre ore, vengono ingaggiati tutti quelli che il padrone incontra e non si contratta più. "Vi darò quello che è giusto", dice il padrone e tutti accettano. Ma l'imprevisto è per l'uscita dell'ultima ora. A questo punto il problema non è più, probabilmente: "Ho bisogno di lavoratori", ma "Non è accettabile che un adulto resti tutto il giorno inoperoso". Alla domanda:"Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?". gli rispondono: "Perché nessuno ci ha presi a giornata". "C'è la volontà di lavoro, ma nessuno ci fa lavorare". Il padrone manifesta il suo stupore, ma insieme, la sua decisione: "Non è dignitoso che una persona non

lavori. Ed è vergognoso che non si rispetti il diritto del lavorare". Ci si ritrova, così, con il diritto al lavoro, declinato nel condividere le proprie ricchezze di tempo, di competenza, di maturità perché in tal modo si contribuisce perché il mondo cresca e la propria operosità diventi utile a tutti.
Ci si ritrova in una società che poggia il concetto di giustizia sulla corrispondenza proporzionale tra lavoro e ricompensa: tanto lavoro, tanto salario, poco tempo di lavoro, poco salario. Sono in gioco il tempo, la fortuna di poter trovare lavoro, il rischio che in famiglia si soffra l'indigenza per mancanza di lavoro.
Qui, nella parabola, dopo la contrattazione dei primi, il padrone crea un clima di fiducia, che spera reciproco, poiché, con i nuovi venuti della terza ora, non si formula un salario ma si parla di ciò che è "giusto".
Su un piano teologico il lavorare nella vigna è la parabola della dignità di collaborazione con l'annuncio gioioso del Vangelo e il segno dell'amore di Dio per noi che accoglie ciascuno, ricompensando tutti con lo stesso riconoscimento. Su un piano sociale bisogna dire che c'è uno scarto rilevante tra la mentalità corrente e il comportamento di questo padrone. Si usano due aggettivi: "Buono e giusto". E sulla stessa lettura della giustizia ci si trova con due comportamenti e due scelte, legate alle circostanze. "Giusto" perché è stato rispettato il contratto con i primi e "giusto" perché si fa riferimento anche alla necessità del lavoratore disoccupato. Così, rispettando il contratto iniziale, si deve tenere conto del bisogno, prima ancora del lavoro effettivo (si può parlare di salario familiare?). Il "buono" richiama l'attitudine di attenzione e di amore che valorizza la persona, la competenza e la difficoltà, nello stesso tempo.
In fondo, Gesù fa un richiamo alla solidarietà. E infatti, se la possibilità di lavorare un'ultima ora fosse sopraggiunta ad un parente, a un figlio adulto o a una persona generosa a cui siamo molto legati, ci congratuleremmo sulla sua fortuna, apprezzeremmo la scelta del padrone e incominceremmo a scoprire che c'è un nuovo modo di rapportarci.
In fondo il padrone non è uno spendaccione, né una persona superficiale, ma ricompensa la volontà di lavoro, i bisogni e quanto è necessario per vivere. E se la retribuzione incomincia dagli ultimi, in fondo, il padrone vuole dare una provocazione perché se ne parli e si capisca.
Ma, a questo punto, non bisogna discutere sulla possibilità di persone che potrebbero approfittarsene ecc. Se c'è volontà di lavorare, il giorno dopo, dallo stesso padrone ci si mette in fila tra i primi, ringraziando della fiducia e della disponibilità.
Il comportamento nel lavoro e la revisione dei salari creano un rapporto nuovo di fraternità e non di sudditanza.
Questa parabola, oggi, ha molta importanza anche sotto il profilo sociale. Il Signore non sopporta che esistano delle persone disoccupate. "Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?" Nella "Caritas in veritate" di Benedetto XVI viene ricordato il valore del "lavoro per tutti" La dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza (83) e che si continui a perseguire quale priorità l'obiettivo dell'accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti (32)."
Dovremmo capire che, in tempo di crisi, il problema fondamentale è la scuola a cui segue l'apprendistato e quindi il lavoro. E proprio in questo tempo ci sono molte realtà che hanno bisogno di interventi della comunità e che non ci si possono affidare ai privati, salvo una organizzazione coerente del terzo settore, verificato e controllato. Quanti servizi alla persona e quanti lavori di manutenzione, di ricostruzione, di prevenzione per terremoti, frane e alluvioni e quanta politica ambientale hanno bisogno di interventi pubblici oltre all'attenzione e all'educazione dei cittadini!
Ma questo è possibile se tutti pagassero, proporzionalmente, le tasse. Così come non si spreca il danaro e ci si deve fare un punto di onore sacrosanto utilizzarlo "per il bene comune".

 

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