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TESTO Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio

Ileana Mortari - rito ambrosiano   Home Page

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Vangelo: Gv 3,1-13 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Il testo fa parte della pericope (vv.1-21) in cui avviene un lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo. Questi si reca dal Nazareno di notte. Nel vangelo di Giovanni, che ricorre spesso a riferimenti simbolici, "notte", più che un tempo, indica un clima spirituale: l'insicurezza del capo fariseo, che va da Gesù quando non c'è nessuno che possa vedere e sentire, dal momento che egli non vuole prendere posizione in pubblico e tanto meno compromettersi nei confronti del Messia. Si può notare anche l'inclusione tra la "notte" del v.2a e la "luce" del v.21, che indica il percorso del racconto e insieme la maturazione di un'esperienza di fede, quella del notabile giudeo e di ogni lettore.

Nicodemo esordisce con "sappiamo - al plurale - che Gesù è un maestro venuto da Dio, perché da Lui accreditato con , come Mosè e i profeti"; il verbo "sappiamo" indica certezza assoluta e indiscutibile, certezza che viene al notabile dal fatto di appartenere al ceto degli esperti, i farisei, (di qui il plurale) e dall'aver visto i "segni" del Rabbi.

Apparentemente il capo dei Giudei non pone alcuna domanda, ma Gesù, che "conosceva quello che c'è nell'uomo" (Gv.2,25), ne coglie una sottintesa. Infatti c'era un interrogativo che agitava la mente di ogni pio israelita: che devo fare per aver parte al mondo che verrà, o, in altri termini, per vedere il regno di Dio, cioè appartenere alla comunità escatologica dei salvati? Tale tipo di domanda è fatta esplicitamente al Cristo da un membro del sinedrio in Luca 18,18.

Gesù risponde che, per vedere il regno di Dio, occorre nascere dall'alto e di nuovo, cioè lasciare radicalmente quella posizione vecchia, umana, antico-testimentaria che era propria di Nicodemo e gli impediva di cogliere la novità di Gesù. Il fariseo non capisce tale risposta, situazione che perdura nell'intero dialogo: Gesù si rivela e l'uomo non comprende. "Si tratta di un modo per dire che, di fronte a Dio, l'uomo è impotente, del tutto incapace di capire. E', questo, un aspetto fondamentale dell'antropologia giovannea: lasciato a se stesso, l'uomo non comprende, non importa se si tratta di un giudeo colto e osservante, come è appunto il caso di Nicodemo." (B. Maggioni, La brocca dimenticata, p.32)

Così il v.6 ("quello che è nato dalla carne è carne, quello che è nato dallo Spirito è spirito")

non va inteso come contrapposizione tra materiale e spirituale, tra corpo e anima (elementi dell'antropologia greca, non semitica), ma tra uomo vecchio e uomo nuovo, l'uomo che ragiona con la sua vecchia logica come Nicodemo e l'uomo che invece accoglie la nuova logica del Cristo; l'uomo soggetto alla debolezza, alla malvagità e all'alienazione da Dio e l'uomo che partecipa all'ordine dello Spirito, che significa vittoria sul peccato, appartenenza a Dio, priorità dell'amore; è la contrapposizione tra l'uomo lasciato a se stesso e l'uomo animato dallo Spirito di Dio.

Questo contrasto è un motivo molto presente nel vangelo di Giovanni, secondo cui la rivelazione di Gesù si attua all'interno della storia dell'uomo, così che tutto è passibile di due letture: una di superficie, che l'evangelista chiama "carnale", e una profonda, che va davvero in profondità, al di là della realtà visibile e sensibile, ed è la "lettura spirituale", nello Spirito. Ecco perché spesso il redattore utilizza termini ambivalenti, dal doppio significato; in questa pericope ne abbiamo tre: "ghennào", che vuol dire "generare fisicamente, nascere", significato colto dall'"uomo vecchio", ma anche "rinascere", "nascere spiritualmente"; "anothen", che Nicodemo intende in senso letterale (= di nuovo, cioè nuova nascita fisica), ma che significa anche "dall'alto" (senso spirituale); "pneuma"= "vento" per l'uomo carnale, "spirito", per l'uomo spirituale.

Perché questo modo di procedere, proprio del 4° evangelista? Egli evidenzia da una parte l'impotenza dell'uomo lasciato a se stesso, dall'altra la gratuità del dono che gli viene offerto; e poi sottolinea il fatto che Dio rispetta fino in fondo la libertà dell'uomo, non vuole schiacciarlo con la sua evidenza, ma sollecitarlo ad una scelta libera e consapevole.

Ora, per entrare nel regno di Dio, cioè per avere la salvezza/vita eterna, occorre nascere da "acqua e spirito" (v.5); è evidente il riferimento al sacramento del Battesimo, la cui efficacia perdura lungo tutta la vita del cristiano. Insieme alla fede, il Battesimo è condizione necessaria per la salvezza.

In mancanza di questo dono, la conoscenza dell'uomo resta limitata, "carnale"; Nicodemo

crede di sapere chi è Gesù (v.2: "Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro...."), ma non è così, perché la sua visione è limitata ai confini dell'Antico Testamento ed egli è ben lontano dall'afferrare il significato interiore, il mistero della persona di Gesù. Il Maestro non è venuto da Dio nel senso che sia un uomo "accreditato" da Lui mediante segni e miracoli, ma nel senso unico di essere disceso dalla presenza di Dio per sollevare gli uomini a Lui. Credere in Gesù è dono e opera dello Spirito Santo: solo in forza di tale dono si arriva a vedere nella carne del Nazareno, nella sua persona storica, la Parola di Dio, il Logos, il Figlio inviato nel mondo; e a riconoscere il suo ruolo unico di mediatore di vita e salvezza per tutti gli esseri umani.

La straordinaria autorità di Gesù è messa in luce anche dalla triplice ripetizione di "Amen, amen", cioè "In verità, in verità", che introduce ognuna delle tre risposte di Gesù.

L'ebraico "Amen" = è così, dichiara che la parola dell'altro vale per chi l'ascolta, che la riconosce vera. Ma l'uso che il Cristo fa nei vangeli de "in verità vi dico" è assolutamente nuovo, originale, non ha alcun riscontro nella letteratura del tempo; l'espressione serve a dare particolare solennità alle parole di Gesù, che dunque la usa non per ratificare e riconoscere vere parole di altri, ma per caratterizzare le proprie parole come verità assoluta e vincolante la coscienza dell'uomo.

Allo stesso modo, non è possibile conoscere le cose celesti, se non le rivela Colui che, solo, "è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo" (v.13); solo Gesù ha visto Dio (cfr. Giov.1,18; 5,37; 6,46; 14,7-9); solo Lui dunque ci può rivelare e comunicare il piano del Padre e soprattutto il Suo amore.

E' da notare che al v.11 c'è un singolare passaggio dal singolare al plurale: "noi - dice il Messia - parliamo di ciò che sappiamo....ma voi non accogliete la nostra testimonianza". Questo perché, come accade abitualmente in Giovanni, i personaggi non valgono solo per se stessi, ma sono rappresentativi di tutto un gruppo; nella fattispecie, dietro a Gesù è presente la comunità cristiana e dietro a Nicodemo (che dal v.10 "scompare" dalla scena) ci sono i giudei incapaci di comprendere la novità di Gesù, c'è la sinagoga con la sua opposizione a Cristo, e più in generale c'è il mondo non credente. Nicodemo stesso è simbolo di chi è in ricerca e non si sa se mai approderà a una meta.

E' evidente quindi la portata universale di tutto il discorso svolto in Giov.3, 1-21, che in pratica si può riassumere così: la condizione per entrare nel regno di Dio (= avere la vita eterna) è credere nel Figlio Unigenito che è venuto come luce nel mondo. Secondo l'insegnamento giovanneo, "Vedere il regno di Dio" (v.3) significa in concreto fare ora l'esperienza della persona-Gesù, aderendo con fede alla sua rivelazione, e non attendere l'era escatologica alla fine dei tempi (come si legge nei vangeli sinottici).

 

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