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TESTO Dio esiste. Ma non sei tu: rilassati

don Marco Pozza   Sulla strada di Emmaus

XI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (17/06/2012)

Vangelo: Mc 4,26-34 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 4,26-34

26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Come metafora velocissima. Perché nessuno possa dire d'averlo trattenuto anche per un solo istante: il Regno di Lassù dev'essere insopportabile e intrattenibile al pari della bellezza che emana al suo passaggio. E Lui - narratore della storia più ambiziosa e paradossale dell'umanità - delle storie si serve per tratteggiare e sgrezzare, convincere e accendere, spingere e abbassare, oltrepassare e lasciar immaginare: la sua è rimasta nei secoli la religione della Parola. Cosicché usa i gigli del campo e il granello di senapa, il gregge dormiente e il pastore infreddolito, la buona massaia e la cercatrice di perle, il serpente e il tozzo di pane, il granchio e i fanciulli che suonano il flauto per assicurare all'umano che già quaggiù c'è un anticipo di Lassù (liturgia dell'XI^ domenica del tmpo ordinario). Li aveva trovati con il naso volto verso l'alto e qualcuno, a nome suo, li aveva prontamente redarguiti e inchiodati alla loro eterna missione di testimoni: "Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?" Basta guardare il cielo perché da quell'istante - nell'attimo stesso dell'Ascensione al cielo - l'Eterno potrebbe nascondersi dietro un cespuglio, nel tronco cavo di un albero, in uno stagno di Galilea. Egli torna al Padre, ma quel Padre non abita oltre il volo degli uccelli. Egli è nelle brughiere spazzate dal vento, nei fienili sconosciuti divenuti locande improvvisate, sui crinali delle montagne, sotto il letto o sui tetti della città. Per mille e più giorni scelse di parlare in parabole: smemorato del linguaggio dei rabbini (che pure dimostrò in tempi diversi di conoscere a menadito) s'aggrappò al linguaggio leggero e ingenuo dei bambini per assicurarci che da quel giorno la storia non è un mazzo di inutili sussulti. Che quelli che stiamo percorrendo non sono sentieri interrotti. Che la nostra vita non è sospesa sul vuoto. Che quel Dio che senti tremendamente lontano si è fatto inquilino di quell'appartamento privatissimo che si chiama "persona umana". Un Dio cantastorie che con le parole inquieta e interroga, stupisce e dipana, attorciglia e impensierisce. Le sue sono storie luminose e oscure, racconti che svelano e velano, bozzetti di vita quotidiana che accendono il desiderio dell'Eterno: rimarranno oscure solamente per coloro che terranno la distrazione nello sguardo e il cuore appesantito.

Era proprio quello che volevo fare con i miei racconti: mettere in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la punteggiatura più efficace e più corretta, in modo che il lettore venisse trascinato dentro e coinvolto nella storia, e non potesse distogliere lo sguardo dal testo a meno che non gli andasse a fuoco la casa. (Questa citazione di Raymond Carver è tratta dal testo di A. Spadaro, Svolta di respiro. Spiritualità della vita contemporanea, Vita e Pensiero, Milano 2010, 120)

Già gli antichi - dei quali Orazio fu cantore eccelso - rammentavano che quando il dito indica la luna soltanto l'imbecille guarda il dito: de te fabula narratur ("è di te che si parla in questo racconto") campeggiava in calce ai loro racconti e alle loro favole. E' di te che si parla in questa parabola. Per chi guarda da fuori, la Grazia non è facile da capire: eppure il Regno di Dio è già dentro la storia, è un germe che misteriosamente si fa strada nei meandri oscuri dell'umano, un mistero che lotta in quello spazio intricato dove i fili del bene s'intrecciano inesorabilmente con i fili del male. Cresce, nonostante l'uomo: "dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa". Nel grembo della storia giace la semente della bellezza: non sono gli uomini a farlo venire cosicché Dio libera la sua creatura da un affanno pesantissimo: non sta a lei garantire il successo del Regno di Dio, a lei spetta solamente l'annuncio e, quando sarà ora, la raccolta. A decidere il tempo della mietitura sarà il frutto: "quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura". E' il frutto che si regala all'uomo.

Come metafora di un sogno è il Regno di Dio: nascosto e offuscato, silenzioso e inerme, fanciullesco e divino lentamente cresce, germoglia e s'accende. Perché Dio esiste: e questo ci basta per far impazzire il cuore. Esiste ma non sei tu: e questo ci basta per rilassarci e sentirci meno Dio. Perché nessuno riuscirà mai a spiegare come mai in un mondo in cui l'uomo sogna di diventare Dio, ci sia stato un Dio che un giorno abbia sognato di diventare uomo. Non per nulla questa storia - accesa sul ciglio delle labbra di un Rabbì Nazareno - è tacciata ancor oggi d'essere la storia più ambiziosa della terra.

Una storia raccontata in parabole di sementi e di fiori che sbocciano. Una storia a colori.

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