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TESTO Commento su Isaia 51, 7-12a; Romani 15, 15-21; Marco 13, 1-27

don Raffaello Ciccone   Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza

II domenica T. Avvento (Anno B) (20/11/2011)

Vangelo: Is 51, 7-12a; Rm 15, 15-21; Mc 13, 1-27 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 3,1-12

1In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea 2dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!».

3Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaia quando disse:

Voce di uno che grida nel deserto:

Preparate la via del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri!

4E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico.

5Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui 6e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.

7Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? 8Fate dunque un frutto degno della conversione, 9e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. 10Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 11Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 12Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Lettura del profeta Isaia. 51, 7-12a
Il profeta vuole rincuorare il suo popolo, esasperato dalle sconfitte e dalle derisioni dei vincitori. Sa di avere come custode il Signore del creato e sa di dover conservare, egli stesso, la sua legge.
Possiamo leggere questo testo come nei momenti di maggiore sofferenza e di lutto.
Che cosa è rimasto della vita passata? di coloro che ci hanno lasciato, dei loro progetti, fatiche, scoraggiamenti, delusioni, indotti dallo scherno di chi viveva loro accanto, dei condizionamenti e dei ricatti che hanno bloccato scelte di maggiore valore?
In questi momenti ci accorgiamo però, che le cose importanti, che la giustizia maturata, che il coraggio della pazienza mantenuta hanno fatto migliore il loro mondo e il nostro cammino: "La mia giustizia durerà per sempre".
Il testo, allora, incoraggia al senso della preghiera dei viventi.
Isaia ci sta sostenendo perché chiediamo al Signore di essere "rivestiti di forza", di entusiasmo, come nei tempi passati, di liberazione e di grazia come e quanto abbiamo sperimentato nella nostra storia passata.
La preghiera si alimenta dei grandi racconti dell'Esodo e della Creazione per richiamare il senso del riscatto, il passaggio attraverso il mare, prosciugato dall'acqua e liberato dal maligno. Come è avvenuto, così avverrà e i dispersi del popolo d'Israele ritorneranno affrancati dal Signore, con il coraggio della pace, della festa, dell'accoglienza reciproca dell'abitare in una realtà sicura, garantita, costruita sulla roccia quale è

Gerusalemme (Sion).
La preghiera vuole portare ad immaginare un itinerario, non una sedentarietà. "Il ritornare e il venire", che possono significare il recupero di speranze di realtà nuove, sono premesse di tempi inediti, gioiosi, pur con tutti i rischi aperti sulla generosità e sui beni.
Il brano pone una garanzia per chi si gioca nella propria storia e quindi anche nel nostro tempo: "Io, il Signore, sono il vostro consolatore".
Lettera di san Paolo apostolo ai Romani. 15, 15-21
Siamo al termine di una lunga lettera che Paolo scrive alla Comunità cristiana di Roma. Egli, quasi, si scusa d'aver scritto a questi cristiani come se avesse preteso di fare loro da maestro, mentre essi sono già una comunità costituita, evangelizzata, pastoralmente curata da altri apostoli. Sa, anzi, "che siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l'un l'altro" (15,14). Così Paolo ribadisce "il suo punto di onore e di vocazione" che si è posto nel suo ministero: "non annunciare il Vangelo se non dove ancora non è conosciuto il nome di Cristo per non costruire su un fondamento altrui" (15,20). E tuttavia Paolo non si pente di aver scritto alla comunità romana perché, in questo modo, può manifestare la sua gioia e testimoniare il valore ed il significato del ministero della Parola. Questo compito, in fondo, è il compito di tutti e la gloria di ciascuno: "esercitare tra i pagani l'ufficio sacro del Vangelo di Dio perché divengano un'offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo" (15,16).
La sua giustificazione e, nello stesso tempo, "il suo vanto", è l'aver svolto un ministero che Paolo identifica come un'azione di culto che un sacerdote compie, celebrando un'opera liturgica. In altri termini, Paolo è gioioso di parlare della grazia che, attraverso Gesù, Dio gli ha offerto e che, in fondo, è proposta e lavoro che Dio sa offrire a chi accetta di annunciare al mondo il suo Cristo. In uno spazio grandissimo, "da Gerusalemme fino alla Macedonia ho portato a termine la predicazione del Vangelo di Cristo" (15 19), conducendo i pagani all'obbedienza, ovviamente di Gesù, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la forza dello Spirito" (15 18-19).
Paolo dice la sua gioia, stupito di essere stato scelto da Gesù e stupito dei doni ricevuti perché i più lontani potessero conoscere la grandezza di Dio. Si direbbe che è orgoglioso di suo, se non avesse già detto prima che "questo, in realtà, è il mio vanto in Gesù di fronte a Dio "(15 17).
Paolo contempla questo lavoro di semina, nell'obbedienza a Gesù a cui Gesù stesso ha posto mano, rendendolo fecondo. E' proprio per comunicare con entusiasmo questa gioia anche agli altri cristiani, fratelli nella fede, che Paolo annuncia e scrive. In tal modo tutti si sentono rincuorati e ammirati di ciò che Dio sa fare. Paolo parla di sé e del suo ministero, ma vuole aiutare a cogliere questa grande potenzialità e questa vocazione a cui sono chiamati tutti, ciascuno nel suo ambito.
Questo canto di gioia dovrebbe fare da modello, anche, alle nostre presenze nella realtà quotidiana. Un campo di novità e di evangelizzazione si apre nel lavoro, in famiglia, negli impegni sociali, nella solidarietà.
Scoprire, far emergere, parlarne: sono segni di operosità che non vanno vissuti come un'esibizione, ma come una rivelazione gioiosa e umile. Nelle nostre relazioni, parlando con coloro che vivono e lavorano con noi, bisogna trovare il modo di far lievitare i contenuti fino a cogliere i valori, i significati che si sono incontrati, motivazioni anche se faticose che si riesce a scovare, risultati di lavori compiuti insieme, maturati nelle collaborazioni che vanno valorizzate.
Abbiamo, altrimenti, il rischio di passare continuamente un tempo che sembra vuoto, senza fatti, senza progressi, senza valori, senza tentativi di novità, senza Dio. Così il tempo e la vita diventano solo contenitori di lamentela e delusioni.
Lettura del Vangelo secondo Marco. 13, 1-27
Nel suo Vangelo Matteo racconta l'inizio della predicazione di Giovanni il Battista in un contesto che insieme manifesta crisi religiosa e grande attesa, anonima, impalpabile eppure presente. Si sente il bisogno, finalmente, di un profeta e di un richiamo alla conversione. Perciò la venuta di Giovanni Battista è salutata con sollievo e con preoccupazione. Egli lo sente e lo dice: "È vicino il tempo del giudizio come il tempo della condanna dei malvagi, della legge finalmente osservata, del cuore che si purifica, cambiando e chiedendo perdono".
Giovanni ha alle spalle l'insofferenza per il male, la tradizione di una corrente profetica, quella degli "apocalittici", che prende spunto dal lavoratore che vaglia il grano, che brucia gli alberi che non producono frutto. Giovanni presenta un Dio violento e impaziente che fa pulizia in questo mondo. E tuttavia Giovanni annuncia almeno due cose. Colui che viene trasformerà il mondo perché porterà il fuoco (che purifica) e lo Spirito (che dà vita). E il nuovo battesimo capovolgerà e strutturerà il tempo mentre il battesimo del Battista è solo espressione e simbolo di una purificazione interiore che il credente ha incominciato a compiere.
Giovanni è colui che prepara la venuta di un altro e lo fa come può, sapendo di essere solo un messaggero che fa gesti di richiamo e che invita all'attesa. Egli è un povero, veste come un povero, anzi come Elia, un profeta povero (peli di cammello e cintura di pelle), mangia quello che dà il deserto (locuste e miele selvatico). Ma il deserto è il luogo dell'Alleanza, il luogo del matrimonio del popolo con Dio. Giovanni Battista qui si dice servo, indegno della casa. E così rimanda al nuovo profeta. Questi sarà la pienezza dell'incontro e dell'Alleanza, lo sposo regale di Israele. Giovanni si è abbassato fino a sentirsi un nulla che scompare. Eppure è, e sa di esserlo, l'amico dello Sposo (Giov.3,29) che gioisce perché lo sposo viene. Gli basta, nella gioia, di aver presentato Gesù, convinto che deve totalmente lasciare posto a chi verrà dopo di lui.
Ciò che significa il gesto dell'acqua non è un rito o una semplice immersione (gli ebrei usavano ed usano ancora oggi, spesso, queste abluzioni). Non è ciò che i farisei e i sadducei immaginano: superficiale segno di adesione e solo condivisione di curiosità. Giovanni urla loro che debbono porsi alla ricerca seria di una purificazione interiore come tutti, impegnati a "fare frutti di conversione" e grida che debbono togliersi dalla bocca quel sorriso saccente di sicurezza, convinti, come sono, che sia sufficiente "avere Abramo come padre".
Per Giovanni il lasciarsi battezzare è segno e riconoscimento dei propri peccati, coscienza della propria indegnità di essere figli dell'Alleanza. Battezzarsi è, quindi, volontà di immergersi nei tempi nuovi che il Signore manderà, tempi sconosciuti, incogniti ma garantiti da un profeta che, per ora, è Giovanni Battista, ma poi sarà un altro, molto più grande.
Giovanni traduce questo cammino coraggioso e furibondo con i suoi schemi mentali di persona innamorata di Dio e scandalizzato dal male. La sua parola vuole vendicare l'onore di Dio e, insieme, ricostruire un Israele fedele.
Eppure Giovanni Battista stesso, ardente, coerente, in buona fede, si troverà disorientato quando dal carcere sentirà parlare dell'azione di Gesù: "colui che viene, il Messia". Allora «manderà a chiedere attraverso i suoi discepoli: "Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?" (Mt.11,3). E Gesù dirà che il Regno non viene come un giudizio ma come un dono, un'accoglienza, una speranza per i malati e i poveri. "E beato colui che non trova in me motivo di scandalo" (Mt11,6).
Giovanni ha rischiato tutto, eppure scopre che deve continuare a cercare il senso della sua fede. Gesù lo aiuta in questa sua ricerca mentre, ammirato, dice alla folla che lo circonda ed ai discepoli: "In verità vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista" (Mt11,11).
Perché siamo così sicuri di aver capito tutto della fede di fronte agli altri?
Perché non insistiamo perché gli altri ci aiutino a scoprire, sempre più, la loro e la nostra volontà di miglioramento?
Perché, di fronte ai grandi problemi dell'esistenza, dei rapporti con le persone, nel gestire le cose, non sappiamo distinguerci dai comportamenti comuni e dalla mentalità corrente, come se la fede non abbia diversi parametri su cui misurarci?
Perché non ci poniamo neppure il problema, paghi di aver santificato la Domenica con la Messa?

 

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