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TESTO Commento su Isaia 11, 10-16, Prima Timoteo, Luca 9,18-22

don Raffaello Ciccone   Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza

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Vangelo: Is 11, 10-16|1Tm Lc 9,18-22 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Lettura del profeta Isaia 11, 10-16
Il capitolo 11, uno dei più celebri testi di Isaia, comprende due parti:
- nella prima parte si celebra la figura ideale del sovrano, con riferimenti storici per cui il nuovo re sarà un discendente di Davide, figlio di Iesse (re dell'Israele riunificato, vissuto attorno all'anno 1000 a.C);
- nella seconda parte (è il testo che leggiamo oggi) il centro non è più esclusivamente il Re-messia ma la comunità di Gerusalemme che diventa un polo di attrazione e di unità.
Il Re-messia è come "un germoglio cresciuto dal tronco inaridito di Iesse" per il male e la infedeltà della dinastia di Davide stesso. Il germoglio è segno della gratuità e della vita che Dio è capace di dare al suo popolo nel momento della desolazione e dell'aridità.. Nasce così una splendida rappresentazione del Messia futuro, carico dello Spirito del Signore che si posa con i suoi doni preziosi (ne sono elencati sei a cui si aggiungerà un settimo e si chiameranno, nella tradizione cristiana, i "doni dello Spirito Santo"): sono i doni della regalità, della sapienza, della introspezione, della giustizia, della pazienza e del coraggio, i doni per chi vince. Il grande re sarà un uomo giusto e coraggioso. Egli porterà la pace, che viene splendidamente esemplificata con le immagini dell'agnello che pascola con il lupo, della pantera con il capretto, del vitello con il leone, del bambino che gioca sulla tana del serpente e che conduce tutti insieme.
La pienezza del Re-messia si distende nella storia, e il movimento di pace e di liberazione si allarga. La vitalità di un cammino di popoli si indirizza verso la comunità di Gerusalemme che, dopo l'esilio, non potrà più contare su un re che prosegua nella discendenza da Davide, poiché non potrà più contare su una corte e su una propria autonomia.
Il Re-messia e quindi la comunità di Gerusalemme si rinnovano, saranno come una bandiera, "un vessillo per i popoli", capaci di chiamare i popoli all'abbondanza e alla pace, permettendo così che si avverino il sogno ed il miracolo della riunificazione dei dispersi di Giuda dai quattro angoli della terra. Si costituirà, anzi, un popolo di fratelli che supererà odi, rancori e gelosie. Si cercheranno e si riuniranno, dichiarando superate le lacerazioni che sono avvenute tra il regno d'Israele e il regno di Giuda. Il regno di Israele si era stabilizzato a nord, con la capitale Samaria, ma era stato travolto dagli Assiri nel 721 a.C. Il regno di Giuda, più piccolo e abbastanza discosto dalle grandi correnti commerciali, ha resistito fino a 596 a.C. quando i Babilonesi conquistarono una prima volta Gerusalemme.
Viene immaginato un nuovo esodo (v 15) e il Signore permetterà al popolo liberato di attraversare a piedi il grande fiume, vittorioso su alcuni popoli confinanti, fino a raggiungere la vittoria sugli Assiri e sull'Egitto. Tutto questo avrebbe dato al nuovo regno la possibilità di espandersi, poiché Dio interviene a rimuovere tutto ciò che impedisce l'unificazione, sia che si tratti delle nazioni, sia che si sviluppino forze naturali avverse. Il Signore rimette in gioco la sua volontà di libertà per il suo popolo. Egli apre una strada e, con interventi sconcertanti, farà superare tutte le difficoltà, che sono simboleggiate dall'acqua dei fiumi: qui viene ricordato il fiume dell'Egitto e qualche capitolo prima è ricordato il fiume Eufrate (7,20) di Babilonia.
Prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo
Questa è la prima di tre lettere dette "lettere pastorali", attribuite a San Paolo che egli indirizza a Timoteo (due lettere) e a Tito (una lettera). Timoteo è a capo della Chiesa di Efeso, Tito nell'isola di Creta.
Timoteo si era aggregato all'èquipe apostolica di Paolo nel suo secondo viaggio missionario (At 16,1-3) ed era rimasto tra i suoi discepoli più fedeli. La lettera perciò potrebbe essere stata scritta, da Paolo, alla fine del suo primo periodo di prigionia a Roma (At 28,16) oppure è stata scritta da qualche discepolo di Paolo, dopo la morte di questi, sviluppando riflessioni ricevute in eredità dalla scuola di Paolo e adattandole alla situazione dell'organizzazione delle chiese che si stanno sviluppando.
L'esperienza personale di Paolo, prima nemico e persecutore della Chiesa e poi fedele convinto, dimostra l'assoluta gratuità della chiamata di Dio. E' una verità racchiusa nella frase: "Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori". La conversione, per Paolo, è stata veramente una esperienza di salvezza poiché rischiava di perdere totalmente il senso della sua vita. Così il ringraziamento a Dio è per la fede in Gesù e per il ministero che lo ha portato a svolgere un "servizio a Cristo" nella comunità cristiana.
Egli, dice, agiva da miscredente perché: "non sapevo quello che facevo". Non è una scusa, per Paolo, dotto maestro di Israele e finissimo esegeta della Scrittura, ma testimonianza che la sua fede può essere solo un dono di Dio che gli ha capovolto pensieri e cultura.
Per noi credenti si potrebbe dire la stessa cosa: le linee della sapienza cristiana e la fiducia nel Signore Gesù ci riscattano dal turbamento, dall'angoscia, dalla dispersione poiché, semplici o complessi, ci vengono suggeriti valori e speranze. Anche ai credenti restano le fatiche e le oscurità ma sappiamo di avere un Padre e un Fratello, compagno di viaggio, eccezionali.
Lettura del Vangelo secondo Luca 9,18-22
Luca, con questo testo, vuole aiutare la sua comunità a ripensare seriamente a Gesù, nella concretezza e nelle scelte.
La fede, infatti, non è una formula o un pacchetto di verità da ricordare, ma è la scelta di Gesù così come si presenta. Egli è profondamente diverso dalle aspettative, alternativo, sconcertante e, tuttavia, sempre in comunione con il Padre e mai nella prospettiva capricciosa di voler fare, dimostrare, conquistare per esibire. Gesù non gioca con i nostri sentimenti e le nostre fragilità.
Egli sa che sta ponendo anche ai suoi un'alternativa che li avrebbe sconcertati. Ma Gesù vuole svelare loro il segreto della sua vita. Infatti non li vuole ingannare né li vuol manipolare, giocando sull'emotività. Sa di avere davanti persone affezionate, fiduciose e però cariche di quelle stesse speranze che tutta la storia d'Israele aveva alimentato. Dopo qualche breve parentesi di gloria .che si è mostrata visibile nel regno di Davide, re vittorioso e di suo figlio Salomone, re saggio, non si poteva contare su grandi dignità, degne di quella regalità altissima che veniva da Dio nella millenaria storia del popolo di Dio.
Così l'attesa si preannuncia inimmaginabile, carica delle promesse di Dio. E, nello stesso tempo, in questo periodo di vita di Gesù, si sono particolarmente sviluppate delle aspettative sempre più spasmodiche e sempre più politiche. La stessa predicazione di Giovanni Battista, per quanto breve, aveva suscitato moltissime attese. Gesù sente che è giunto il momento per incominciare a svelare il significato della sua missione.
Luca racconta il dialogo, molto scarno sulla identità di Gesù, senza collocarlo, come fanno gli altri evangelisti, a Cesarea di Filippo. Probabilmente l'evangelista vuole che il testo diventi un riferimento preciso per ogni interlocutore credente.
Luca, come spesso fa', introduce i momenti essenziali della vita di Gesù ricordando la sua preghiera: è indicativa che qui sta avvenendo qualcosa di particolarmente significativo. Giocano, insieme, l'esigenza di comunione e di sostegno personale richiesti da Gesù e la sua strategia di educare i discepoli perché trovino, nella preghiera, la forma più alta di sincerità, di disponibilità e di comunione con il Padre. Così avviene per alcune altre grandi scelte di Gesù: al battesimo (3,21), prima di chiamare i 12 apostoli (6,12), nella Trasfigurazione (9,29), prima di insegnare a pregare (11,1), nell'orto degli ulivi (22,39-46), dall'alto della croce (23,34-46).
Gesù entra in dialogo con i suoi e bisogna lasciarsi interpellare da Lui. Egli conduce via via a scoprire che cosa si aspetta da loro.
Una prima domanda, probabilmente, lascia sconcertati gli apostoli: "Chi sono io secondo la gente?". In fondo il maestro non si è mai interessato di sapere che cosa la gente dicesse di lui. Tuttavia rispondono con grande onestà. Tutti pensano, più o meno, che egli sia un precursore, cioè colui che ha, come vocazione, quello di indicare il Messia che viene.
La risposta significa almeno per due cose:
- La gente riconosce in Gesù un altissimo spessore morale e, a seconda dei personaggi richiamati, a cui ognuno fa riferimento, collegano Gesù, in un rapporto privilegiato con il Dio d'Israele che si serve di Lui per annunciare la novità che presto apparirà all'orizzonte e che sarà il vero, grande Messia;
- Ma Gesù non può essere Messia, essi pensano, poiché non dimostra di avere una progettualità di liberazione dal potere politico e di contrapposizione alle forze imperanti pagane e straniere. I suoi miracoli, al massimo, garantiscono che Dio accetta Gesù come suo messaggero. Qui ci sono tutta la dialettica e l'ambiguità della classe dirigente ebraica che pone a Gesù la richiesta:: "Dacci un segno", "Ma voi che cosa dite?". Gesù prende atto di ciò che hanno manifestato e li interpella sul significato che essi danno sulla sua persona.
Sorge l'obbligo di confessare la vera identità di Gesù. Pietro lo fa', anche a nome degli altri, e si contrappone alla mentalità corrente, accettando di vedere in Gesù la nuova messianicità.
Essi però continuano a sperare, mantenendo come tutti, le attese di un Messia glorioso, pur accettando che sia Gesù a trovare i tempi e i modi per manifestarsi. Pietro e i discepoli convivono con la propria ambiguità interpretativa e sono incapaci di cogliere l'identità più profonda di Gesù e la sua messianicità; Nel loro cuore continuano a tenere insieme la prospettiva del tempo del cambiamento e del tempo della rivoluzione.
Perciò Gesù obbliga severamente di non divulgare la sua messianicità: essa, infatti, sarebbe stata intesa in modo distorto.
- A questo punto, però, Gesù propone un "mini-vangelo della passione, morte e risurrezione" (v' 22): la croce è un itinerario che va dalla vita alla vita passando attraverso la sofferenza, la crisi, il giudizio, la morte. Il Figlio dell'uomo deve soffrire e tutto ciò che avverrà non saranno un destino o un incidente ma una misteriosa strada attraverso cui si manifesterà la volontà del Padre che vuole salvi tutti noi. E Gesù, docile, accetta e chiede alla sua comunità di essere solidali con lui. A questo sono chiamati tutti.
Certamente ci si sente spiazzati poiché, piaccia o no, anche a noi interessano il vincere, il dimostrare di essere, il conquistare le masse, avere forze di sostegno alle spalle.
Sono i criteri del gioco politico e della conquista del potere che poi si spera sia gestito con responsabilità e moralità. E le leggi dovrebbero aiutare a ridimensionare le tentazioni.
Stiamo scoprendo le tentazioni di tutti, anche della Chiesa.
Ma nella Chiesa Gesù ha sviluppato altre logiche: esse non passano attraverso le dimostrazioni della sua risurrezione ai sommi sacerdoti o a Pilato. Se c'è una vittoria, questa è nella serenità dei primi cristiani che professano la fede, e che nei tribunali mostrano ossequio e libertà, e insieme formulano l'obiezione di coscienza, quasi a scusarsi, senza supponenza, ma continuando ad essere fermi e fiduciosi (At 4,19-20: "Ma Pietro e Giovanni risposero loro: «Giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio. Quanto a noi, non possiamo non parlare delle cose che abbiamo viste e udite»").
La morte e la risurrezione di Gesù ha sconcertato la prima comunità cristiana e, nel suo significato essenziale, continua a sconcertare anche noi.

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