TESTO Traccia di comprensione per At 10,1-5.24.34-36.44-48a; Fil 2,12-16; Gv 14,21-24
don Raffaello Ciccone Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza
V domenica T. Pasqua (Anno A) (22/05/2011)
Vangelo: At 10,1-5.24.34-36.44-48a|Fil 2,12-16|Gv 14,21-24
«21Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
22Gli disse Giuda, non l’Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?». 23Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato».
Lettura degli Atti degli Apostoli. 10, 1-5. 24. 34-36. 44-48a
Gli Atti degli Apostoli ci ricordano la conversione di Cornelio, un centurione che coltiva profondo rispetto per la religione d'Israele, a somiglianza dell'altro centurione di Cafarnao ricordato da Luca (Lc 7,1-10). Pregare, elargire elemosine e amare il popolo d'Israele non costituiscono, tuttavia, azioni sufficienti per far parte del popolo di Dio. D'altra parte Cornelio non ha accettato la circoncisione per cui rimane un uomo impuro, inavvicinabile dai pii israeliti, preoccupati di far parte dell'unico popolo privilegiato di Dio. Pietro è scrupoloso di seguire la legge, accolta e insegnata dai rabbini e, a buon conto, anche Gesù non ha accolto, tra i suoi, i pagani, ribadendo così le scelte ebraiche tradizionali. E tuttavia gli avvenimenti che si susseguono, i segni e i richiami, le attese e le convergenze portano Pietro, nonostante le sue indecisioni, a seguire itinerari nuovi. Il centurione pagano Cornelio e la sua famiglia si sono convertiti alla fede in Cristo: è un
segno imprevedibile delle scelte e delle prospettive che Dio apre sul mondo. Perciò Pietro, mentre sintetizza la fede in Gesù come contenuto essenziale del credere, sente che sta imparando, egli stesso, dai segni di novità e di conversione quanto il Signore compie: imprevedibilmente il Signore apre a tutti gli uomini (universalità) l'ingresso al Regno, in modo totalmente gratuito.
"Chiunque lo teme e pratica la giustizia è accetto a Lui" (v.35). Così l'elemento primo di rapporto con Dio non è più l'appartenenza ad un popolo, ma sono le disposizioni interiori, identificate con il "rispetto riverenziale"(chi teme) e la condotta rispettosa della volontà divina ("praticare la giustizia").
"Gesù è il Signore di tutti": questa è la fede ed è necessaria la forza dello Spirito per accoglierla (1Cor. 12,3). Essa proclama che quell'uomo Gesù, che molti hanno conosciuto in Palestina e che è passato beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, è stato elevato, dopo la morte, al di sopra dei cieli per la risurrezione; perciò ha la Signoria del mondo ed è Dio.
Ma poiché è un Dio imprevedibile, i suoi debbono continuamente scoprire scelte e atteggiamenti nuovi ogni giorno. "In verità sto rendendomi conto..." dice Pietro.
Pietro scopre che l'annuncio di salvezza è destinato a tutti, senza discriminazione, affermando che Dio è imparziale nel giudizio e non razzista.
L'apertura religiosa di chi riconosce Dio e la rettitudine morale sono una preparazione in cui si realizza una pre-evangelizzazione. Pietro non fa un invito alla conversione, ma sviluppa un appello alla fede in Gesù, Signore e Giudice (vv37-43). E prima ancora di ricevere il battesimo, la discesa dello Spirito Santo su Cornelio e i familiari indica, in maniera evidente, che il progetto di Dio per i pagani non passa più solo attraverso l'ebraismo, ma inserisce anche immediatamente nella Chiesa mediante la fede in Gesù e il battesimo. Negli Atti il dono dello Spirito però è strettamente legato alla fede, non necessariamente al battesimo.
Perciò centrale, per la pastorale, è la fede in Gesù, l'uguaglianza delle persone, la presenza di Dio e della sua volontà che si manifesta via via nella storia mentre a noi spetta il compito di cercare, di approfondire con umiltà proposte e significati, di osare nella linea dell'amore del Padre.
Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi. 2, 12-16
Il capitolo 2° della "Lettera ai Filippesi" sviluppa una ricca esortazione di Paolo alla comunità che ha dovuto lasciare, allontanandosi per i suoi compiti missionari.
- Così i primi quattro versetti del capitolo sviluppano alcune linee fondamentali per favorire l'unità: "Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri." Il testo riportato diventa premessa molto interessante che invita ad avere "gli stessi sentimenti di Gesù.
- E i successivi cinque versetti (vv6-11) esemplificano il significato dei sentimenti di Gesù che si possono sintetizzare nell'umiltà: Gesù si è impoverito per amare e salvare il mondo. È un testo splendido, probabilmente un inno della Comunità cristiana, in cui viene sintetizzata, teologicamente, tutta la vicenda di Gesù "prima, durante la sua vita, dopo la risurrezione".
- Il testo di oggi riprende i suggerimenti iniziali di Paolo mentre garantisce la sua fiducia per questa comunità: essa deve continuare nella propria obbedienza anche ora che Paolo è lontano, deve vivere con sollecitudine e attenzione la propria vita, deve maturare la propria dipendenza da Dio e il senso della salvezza. La vita va vissuta con "rispetto e timore": non c'è nulla di servile, ma sentimenti di consapevolezza di fronte alla grandezza di Dio, nel cammino verso di Lui. È importante che ci si renda conto che l'azione di Dio sia un sostegno all'azione umana e non una contrapposizione: la libertà di Dio e la libertà dell'uomo si completano a vicenda.
Un suggerimento che viene da antichi ricordi sul comportamento del popolo nel deserto ricorda che vanno evitate "le mormorazioni e le esitazioni". Bisogna saper ricondurre ad una comunità che sia generosa, irreprensibile, pura, costituita da "figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa".
Ritorna sempre la prospettiva di una evangelizzazione che passa attraverso la testimonianza, più che attraverso una operosità sociale all'interno del contesto in cui si vive. Infatti la prospettiva che Paolo pone nel suo ambiente, abituato a culture e criteri pagani di vita, è fondamentalmente il costituire una esemplarità di piccole comunità all'interno di realtà urbane. E tale esempio procurerà luminosità, stile e scelte di vita.
Paolo, che utilizza solo qui l'espressione: "Vangelo come parola di vita", è entusiasta della sua missione anche se sente la fatica del lavoro che compie da una parte e il timore, dai risultati che sperimenta, di fare un sforzo sprecato. E tuttavia egli è fedele, ma supplica gli amici, in questo caso i Filippesi, di far tesoro degli insegnamenti che egli ha loro offerto, perché davanti al Signore, un giorno, come evangelizzatore, possa sentirsi fiero di loro.
Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 14, 21-24
Stiamo leggendo, nel Vangelo di Giovanni, parte del "discorso di addio" di Gesù all'interno del racconto dell'ultima cena, pronunciato per preparare i suoi discepoli prima dei fatti drammatici della passione.
Già al v.18 Gesù assicura che, nonostante i fatti che si svolgeranno prossimamente nella sua vita e che lo allontaneranno anche da loro, egli verrà ai discepoli: "Non vi lascerò orfani, ritornerò a voi".
Il mondo non potrà vederlo, ma essi godranno di una profonda comunione con Lui e
sperimenteranno la salvezza che Egli ha portato dal Padre a loro. Perciò, con questa
consapevolezza che "Io sono nel Padre, voi in me ed io in voi", Gesù garantisce il suo amore profondo e pieno per la loro fedeltà che si manifesterà attraverso l'obbedienza ai comandi di Gesù e quindi all'amore che essi porteranno.
A questo punto Giuda, non l'Iscariota, pone il problema a Gesù della sua visibilità. Gli apostoli, infatti, hanno sperimentato già da tempo molta discrezione da parte sua e quindi molta ritrosia circa il volersi manifestare al mondo (v 22). Eppure in Israele tutti aspettano un Messia con prodigi spettacolari, capaci di stupire il mondo. E questa è un'attesa che continuerà ad essere presente anche sotto la croce.
E invece Gesù non vuole che i miracoli siano divulgati (Mt 12,15), rispettando una strana profezia del profeta Isaia: "Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce." (Mt12,19).
Anche i suoi parenti che vivono a Nazareth, un giorno, gli hanno detto: «Parti di qui e va' nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. Gesù allora disse loro: «Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto». (Gv 7, 2-8).
Gesù vuole manifestarsi ai discepoli insieme al Padre, venendo ad abitare in loro. Gesù vuole fare le opere del Padre e le opere del Padre non sono fondamentalmente i miracoli, né i gesti stupefacenti. Gesù parla di sé e alle sue opere in riferimento allo stile, al perdono, alla liberazione, alla parola nuova, all'accoglienza aperta a tutti ecc. Si tratta certamente di scoprire quali sono le opere di Dio e di riprenderle nella nostra vita come veri progetti che il Signore suggerisce. Gesù richiama alla sua parola perché i discepoli possano vedere in Lui colui che rivela il Padre, colui che lo fa presente nel cuore di ciascuno e colui che invia lo Spirito.
Da qui una grande domanda di verifica pastorale: quali sono le opere di Dio per noi e tra noi?