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TESTO Traccia di comprensione per At 6,1-7; Rm 10,11-15; Gv 10,11-18

don Raffaello Ciccone   Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza

IV domenica T. Pasqua (Anno A) (15/05/2011)

Vangelo: At 6,1-7|Rm 10,11-15|Gv10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 10,11-18

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Lettura degli Atti degli Apostoli. 6, 1-7

Negli Atti degli Apostoli il cap. 6 segna l'inizio della rapida espansione del Vangelo in Israele fino ad Antiochia, mentre nei primi 5 capitoli sono state descritte la formazione e l'attività della Comunità cristiana a Gerusalemme. L'istituzione dei "sette" rappresenta un punto fondamentale che favorirà l'iniziò della missione della Chiesa.

C'è un conflitto tra gli "ellenisti" (giudeo-cristiani provenienti dall'impero e dimoranti a Gerusalemme: parlano greco e leggono la bibbia in greco) e gli "ebrei"(giudeo-cristiani, originari della Palestina, che leggono la bibbia in ebraico). Gli Apostoli, infatti, sono chiamati ad una verifica per la denuncia di alcuni disagi, causati da disattenzione verso i bisogni delle minoranze, costituite, in prevalenza, da giudeo-cristiani ellenisti. Così gli Apostoli riconoscono la situazione di difficoltà e decidono di sviluppare, diversificando, ruoli e compiti. L'elezione dei "sette", tutti di origine greca (lo si vede dal nome), identifica la scelta coraggiosa di riconoscere alla minoranza dei cristiani ellenisti la responsabilizzare della gestione delle mense, oltre al lavoro pastorale nella comunità degli ellenisti stessi. In altri termini chi si lamenta diventa il responsabile nuovo della gestione.

Tra i "sette" almeno due, Stefano e Filippo, svolgono anche un prezioso lavoro di predicazione aperto ai pagani e una riflessione biblica nuova: interpretare il Vecchio Testamento alla luce dei fatti e delle parole di Gesù.

Il numero 7 può derivare dai sette popoli pagani abitanti in Canaan (Atti 13,12), oppure dai consigli e gruppi amministrativi greci e romani, oppure ancora, più semplicemente, può derivare dall'azione di coordinamento che viene fatto in sette giorni, ciascuno in un giorno, poiché sono tutte persone volontarie e quindi debbono provvedere anche al proprio lavoro nel resto della settimana.

Fin dall'inizio emergono i tre ministeri essenziali della Chiesa: il servizio della Parola, il servizio liturgico della preghiera e il servizio dell'assistenza ai poveri. Qui non viene usato il termine "diacono" anche se si usa la parola "diaconia"(servizio) e si parla della "imposizione delle mani". Ma l'ufficio corrispondente al diaconato si definirà più tardi. E' interessante notare che la Chiesa articola le sue funzioni, non solo ancorandosi al suo inizio ma anche cercando di dare risposte varie a secondo dei problemi che man mano si affacciano nel proprio cammino storico. Essa si struttura, infatti, anche per le necessità concrete che emergono, al fine di vivere in comunione. E' anche una comunità senza pregiudizi, coraggiosa e fiduciosa, che affronta i disagi, rileggendoli in positivo come richiamo ad una responsabilità comune e ad una efficiente collaborazione.

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani. 10, 11-15

In questo capitolo (10,1-21) Paolo parla del fallimento di Israele che non ha saputo accogliere la presenza di Gesù:

vv 1-3: Israele ha ignorato la giustizia di Dio ed ha preteso di salvarsi secondo le proprie forze;

vv 4-13: Gesù è la via nuova che porta la giustizia e dona la salvezza a coloro che gli credono;

vv 14 21: Israele è disobbediente, incredulo e responsabile del rifiuto della giustizia di Dio.

E' pur vero, dice Paolo, che Mosé aveva dato alcuni suggerimenti per individuare la presenza di Gesù e la sua Parola. Ma Gesù non è stato accolto. Accogliere Gesù non è facile anzi, non è possibile ad una persona se non è aiutato dallo Spirito: "Nessuno può dire Gesù è il Signore se non nello Spirito Santo" (1Cor 12,3).

Accogliere Gesù richiede un profondo e coraggioso atto di fede per cui con la bocca e con il cuore crediamo e accettiamo che Gesù è il Signore, vissuto tra noi, crocifisso e risorto. La bocca e il cuore sono due vie importanti per esprimere la fede (10,8).

Il cuore è il luogo delle scelte, delle decisioni, delle appartenenze. In questo caso il cuore proclama la signoria di Gesù sulla nostra vita e quindi la sua unicità e il suo valore per poterci unire in pienezza.

La bocca esprime ciò che il cuore accoglie. "Con la bocca si esprime ciò che si ha nel cuore", dice Gesù (Luca 6,45). Dire: "Gesù è il Signore" significa manifestare con consapevolezza, all'interno di una comunità dove si vive e ci si confronta, la scelta fondamentale di Gesù. Con questa scelta, comunque, compiamo una professione di fede che porta il dono di Dio.

È questo l'elemento che unifica, al di là delle differenze somatiche o culturali: "Non c'è distinzione fra giudeo e greco" (v 12). Il mondo della fede abbatte le barriere di differenze razziali, di culture diverse, di condizioni sociali ed economiche, di temperamenti, di caratteri.

Gli ultimi due versetti percorrono l'itinerario per giungere alla fede piena.

Sempre alla ricerca del motivo per cui Israele non ha invocato Gesù, viene ricostruito il cammino della evangelizzazione. Per invocare bisogna credere. Per credere bisogna aver sentito parlare. Per sentire l'annuncio bisogna che qualcuno lo faccia. L'annuncio viene fatto da chi è stato inviato. Paolo può permettersi di dire che ci sono state molte occasioni di annuncio tanto che stupisce e crea meraviglia

l'abbondanza di questa parola: "Per tutta la terra è corsa la loro voce e fino ai confini del mondo le loro parole" (v 18). Per ciò crea gioia e sempre sorpresa ciò che dice Isaia (52,7): "Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!".

Ma allora diventano splendidi i passi di chi ti raggiunge, di chi ti corre incontro, di chi ti cerca. Sono i passi che richiamano quelli di Gesù, missionario itinerante nella terra d'Israele. Sono i passi premurosi di chi sa conoscere la sofferenza e soccorre e quindi sono i passi dei discepoli che inondano di annunci gioiosi il mondo.

Lettura del Vangelo secondo Giovanni. 10, 11-18

Il Vangelo di Giovanni, nel cap. 10 propone l'immagine del pastore (10,1-5): ma "non capiscono che cosa significa questa similitudine che Egli diceva loro" (10,6). Gesù allora dà una spiegazione in due momenti:

- identifica sé con la porta dell'ovile (vv 7-10):"Chi entra attraverso la porta non è ladro né brigante... ma sarà salvato (8-9)";

- identifica se stesso con il buon pastore (vv 11-18: Vangelo di oggi).

Il mondo di Israele è un mondo di agricoltori e tuttavia mantiene florida, perché produce ricchezza, la pastorizia. Il pastore, che passa lungo tempo in luoghi isolati con il gregge, vive con questo un rapporto affettivo: chiama ogni pecora per nome e questa lo riconosce dalla voce,. E poiché nel mondo biblico si ritrovano animali selvaggi od anche ladri di bestiame, alcuni pastori sono pronti a battersi armati di fionda e di bastoni.

Spesso i re sono paragonati ai pastori e contro di loro sono pronunciate durissime lamentele perché non trattano il gregge con giustizia e amore ma governano con malvagità e ingiustizia. Un esempio di malvagità è ripreso dal profeta Ezechiele (cap 34); e invece un esempio di responsabilità e di regalità, attenta al popolo, è sviluppato nella testimonianza e nella memoria di Davide che viene dal mondo
della pastorizia e governa i suoi come re fedele e saggio.

In questo testo, diviso in due parti, viene ripetuto due volte: "lo sono il buon pastore" (v 11/v 14):
· vv 11-13: Gesù è contrapposto ai mercenari;

· vv 14-18: Gesù ha un rapporto profondo ed unico con le sue pecore che arriva al dono della vita (vv 17-18).

Nei villaggi d'Israele gli abitanti, non potendo ciascuno condurre al pascolo le poche pecore che possiede, ricorrono ai salariati. Il mercenario per sé non sfrutta le pecore ma si comporta "come pastore" nel tempo ordinario e facile. Nel momento difficile, però, non si espone, non rischia, non dà la vita, si occupa di sé, non ama le pecore. Una legislazione rigorosa fissa in un contratto gli obblighi dei

salariati che sono tenuti ad affrontare il lupo, o due cani, o un animale piccolo ma può fuggire davanti al leone, all'orso e al ladro. Nel contratto manca, ovviamente, la clausola di dare la vita per le pecore; così il mercenario non si occupa della sorte delle pecore. Quando fugge, si preoccupa solo della propria vita e del proprio stipendio e non gl'interessano le pecore. Così il lupo può portare scompiglio e liberamente imperversa.

Il gregge, a cui Gesù fa riferimento, è il popolo d'Israele, proprio quel popolo che i farisei maledicono perché ignorante (Gv 9,22.34), e che i capi politici sfruttano poiché pensano solo al loro potere (Gv. 1,48).

Gesù viene dopo il ladro, il brigante, l'estraneo e il mercenario: figure negative. Le pecore sono depredate e disperse. Egli, invece, è il buon pastore che ha un rapporto di profonda comunione ("le conosco") a somiglianza della comunione con il Padre.

Questa comunione si allarga: è un'alleanza che tocca l'intera umanità.

Da notare la somiglianza per la frase di Giovanni: "conosco le, mie pecore e le mie pecore conoscono me" e la formula dell'Alleanza: "io sono il loro Dio ed essi sono il mio popolo" (Zac. 13,9; Ger. 31/31).

Il verbo "conoscere", nella Bibbia, non significa tanto un apprendimento, se si parla di persone, ma un'esperienza profonda di intimità e comunione di cui si fa carico Gesù. Nell'ultima cena Gesù ricorda che è disponibile ad offrire totalmente la sua vita come segno di amore per ciascuno di coloro che si accostano a lui.

L' "lo sono" di Gesù richiama la vita piena di Dio che si offre: una profonda libertà interiore e una profonda obbedienza al Padre. Egli offre e riprende se stesso: libertà e glorificazione, morte e resurrezione. Gesù entra nella sfera della comunione di Dio con questa ubbidienza. che è il bene del gregge che il Padre ama. Amando le sue pecore e riunendole con il dono totale, Gesù svolge la volontà

di Dio e propone alla sua Chiesa il compito della cura pastorale nel mondo.

La riflessione e l'operosità pastorale sono un compito fondamentale della vita cristiana e devono far sentire il significato di Gesù pastore: sono l'espressione rassicurante di essere conosciuti e amati da Gesù. Sono perciò un compito da non abbandonare solo alla cura del clero (vescovi, sacerdoti e diaconi) poiché compito pastorale (il Concilio Vaticano II ce lo ribadito in tutti i modi) è impegno di ogni credente adulto: sacerdote e laico che sia, impegno della "Chiesa-popolo di Dio", ciascuno con carismi propri e competenze, ruoli e sensibilità propri.

Amare ogni persona, sorreggerla e proteggere la sua libertà significa sviluppare la pastorale: operare secondo la volontà di Dio e mettersi al suo servizio.

 

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