TESTO Il nostro compagno
III Domenica di Pasqua (Anno A) (08/05/2011)
Vangelo: Lc 24,13-35
13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». 25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». 35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Il vangelo di oggi è un meraviglioso affresco di cos'era l'eucarestia per i primi cristiani. Nelle loro celebrazioni eucaristiche davvero loro incontravano il Risorto. Non lo incontravano come prima, quando Gesù lo avevano visto fisicamente, quando lo avevano sentito parlare o visto guarire. Lo incontravano in un altro modo, ma non meno reale. E davvero lo sentivano presente e davvero Lui era la loro Forza.
Il vangelo inizia mostrando questi due discepoli che tristi e delusi se ne vanno via da Gerusalemme (24,13-18). Arriva Gesù, fa finta di non sapere e capire niente e che cosa fa? Li fa parlare.
Guardate: arriva e chiede: "Che sono questi discorsi che fate?" (24,17). E loro: "Solo tu non sai? Ma da dove vieni tu?" (24,18). "Non so? Che cosa?", dice Gesù (24,19). E come apre il "rubinetto", questi due sono un effluvio di parole e di discorsi (24,19-24). C'è chi parla per non dire niente; c'è chi parla per esprimere ciò che vive.
I due discepoli, attraverso le parole, attraverso ciò che dicono, esprimono tutta la loro tristezza e la loro delusione ("Noi speravamo... ma" 24,21-22).
E Gesù che fa? Semplicemente li ascolta. E' un loro compagno, non solo di viaggio fuori (cammino), ma anche di viaggio dentro (ascolto). Com-pagno viene dal latino cum-panis: il compagno è nient'altro che colui con il quale si condivide: il pane, la propria vita, il proprio cuore, i propri stati d'animo.
L'eucarestia è questo: condivisione del pane di vita. Eucarestia è comunicarci ciò che viviamo, è dirci le nostre gioie, le nostre paure, i nostri timori e i nostri pianti, le nostre attese e i nostri sogni.
Dio, prima di dirci qualcosa, ci ascolta. Per tutto il tempo che ci serve.
La gioia. Vengo in chiesa per esprimere, per celebrare la mia gioia (eucarestia=rendere grazie). Sono felice di esistere, del mio matrimonio, della mia famiglia, del fatto che mi sento amato, che percepisco il mio valore, che mi sento vivo. Allora canto, festeggio e celebro la bellezza della mia vita.
Ho raggiunto un traguardo: sono diventato papà, ho fatto una scelta, ho superato una difficoltà, ho compiuto un passo: vengo qui per far festa, per ringraziare Lui e per ringraziare me. E festeggio insieme con Lui.
Dio è nostro compagno: se siamo felici, lui fa festa con noi.
La mamma "becca" il figlio di sei anni a rubare di nascosto dei biscotti di cioccolata dalla credenza: "Cosa fai? Gesù è contento di quello che fai?". Allora il bambino non sa più cosa dire: "Me l'ha detto Gesù di prenderli!". "Ah sì!? E cosa ti avrebbe detto Gesù?". "Sulla credenza ci sono i biscotti di cioccolato, prendine uno anche per me!".
La tristezza. Le persone hanno bisogno di esprimere la loro tristezza. Esprimere la tristezza è accettare una perdita (fisica, mentale, affettiva, ecc.). Da una parte oggi c'è una mentalità "ottimista": bisogna sempre pensare positivo. Sì bene, ma se questo vuol dire non far contatto o non sentire la propria tristezza, allora non è ottimismo, è negazione. Dall'altra parte la nostro società ci dice: "Non piangere, non essere triste; fatti sempre vedere in forma e felice". Così le persone si tengono dentro le loro tristezze (e questo poi porta a vari stati depressivi).
Roy W. Fairchild, che ha scritto molto sul rapporto tra fede e psicologia, ricorda un fatto della sua vita: lui aveva 9 anni e suo padre morì. Era il figlio più grande e doveva essere responsabile. E lo fu: si prese cura dei fratelli e della mamma. Ma quel pianto (come si può non piangere quando si perde il papà!) gli rimase dentro per decenni. Pianse solamente quando perse il suo cane; tutte le lacrime passate, allora gli uscirono.
Vengo in chiesa per dar voce alle mie piccole e grandi tristezze. Qui posso piangere, qui posso vedere la mia tristezza. Davanti a Dio non mi devo nascondere e non la devo nascondere. Esprimere la tristezza permette alle persone di aprire uno spazio per qualcosa di nuovo.
Dio è nostro compagno: se siamo tristi, cammina con noi e sta con la nostra tristezza.
Sono deluso? Sono arrabbiato? Mi sento fallito? Ho dei sogni? Qui sono al posto giusto per aprirmi e per esprimere tutto ciò che ho dentro.
Gesù non toglie la tristezza ai discepoli e neppure li consola. Come prima cosa li ascolta e basta.
Quando i nostri amici hanno dei problemi, a volte ci succede di volergli trovare una soluzione. Lo facciamo perché vogliamo bene a loro, ma non sta a noi risolvere i loro problemi. Essere amici vuol dire semplicemente stare, accompagnare, essere presenti nella difficoltà.
Con i nostri figli, soprattutto quando soffrono perché a scuola non va, perché un amico li ha lasciati o traditi, perché con la fidanzatina le cose non funzionano e loro sono tristi, noi vorremmo togliergli il dolore. E' capibile, ma non è buono. Il dolore è necessario perché possano imparare ciò che devono imparare. Il nostro compito è quello di stare, di accompagnarli: "Io ci sono; io ti ascolto; qui sei a casa; qui puoi piangere; qui puoi dire tutto ciò che hai dentro; qui puoi essere quello che sei; qui non c'è niente che devi nascondere o mostrare". E casomai, se sono d'accordo, abbracciamoli. Così impareranno a stare nelle loro difficoltà (e a trovare loro le loro soluzioni) sentendo il nostro amore.
L'amore è ascolto; condivisione della vita e del cuore.
Dio è nostro compagno: se siamo delusi, Lui sta con noi; se siamo arrabbiati Lui sta con noi; Lui sempre sta con noi, condivide, ci accompagna e rimane.
L'eucarestia è questo: condivisione della vera vita, delle gioie, dei dolori, delle fatiche e delle sofferenze. L'enciclica conciliare Gaudium et Spes (l'enciclica su cosa doveva e deve essere la chiesa in questo mondo di oggi) inizia così: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore". L'eucarestia è condivisione della vita e la condivisione della vita è eucarestia.
Gesù si affianca ai discepoli e li ascolta. Non fa altro. Loro però non lo riconoscono perché sono troppo presi dai loro problemi, dal loro dolore, dalla loro delusione e dalla loro sofferenza. E quando tu sei troppo dentro ad una cosa, non vedi altro che questo.
Fai gli esami del sangue e i valori sono sballati: allora fai tutti i pensieri possibili immaginari. Non esiste altro, sei sempre lì. Il pensiero rimugina e pensa a tutto il possibile. Niente ti dà consolazione. Ma se riesci a parlarne con qualcuno, se riesci a sfogarti, le cose, pur rimanendo uguali, diventano diverse.
Solamente dopo aver "buttato fuori" tutta la loro sofferenza potranno "vedere" le cose diversamente. Solo allora potranno vedere Gesù.
Anche qui come in tutti i vangeli di risurrezione c'è un fenomeno che ritorna sempre. Tutti quelli che incontrano il Risorto non lo riconoscono mai.
Pietro e Giovanni vanno al sepolcro (Gv 20,3-10) ma si dice che "non avevano ancora compreso la Scrittura e che se ne tornarono a casa, che vuol dire che nonostante il sepolcro vuoto nulla cambiò dentro di loro" (20,9-10).
La Maddalena (Gv 20,11-18) va al sepolcro, vede Gesù ma "non sa che è Gesù" (Gv 20,14). Ci parla ma non lo riconosce. E sì che lui le aveva dato la vita! E si che lui l'aveva liberata da sette demoni (Lc 8,2). Eppure!
Gli apostoli (e sono almeno sette) sulla riva del lago (Gv 21,1-14), quando arriva Gesù non lo riconoscono proprio (Gv 21,4). Ci parlano ma non "vedono" che è lui. E sì che c'erano stati insieme tre anni!
I discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) oggi ci fanno un bel pezzo di strada insieme. Il testo dice: "I loro occhi erano incapaci di riconoscerlo" (Lc 24,16).
Dio non si conosce; Dio si riconosce.
L'esperienza di "chi l'ha visto" non è esteriore ma interiore. Se fosse stata esteriore lo avrebbero riconosciuto subito. Sei per strada, vedi un tuo cugino, lo riconosci subito. Non ci sono dubbi: ha la stessa faccia, quella che conosci bene, non hai dubbi. Non ci sono dubbi.
Ma la loro esperienza non è stata esteriore, fuori, bensì interiore, dentro. Hanno vissuto qualcosa e in ciò che hanno vissuto hanno riconosciuto il passaggio, le orme, l'evento di Dio.
Vi ricordate Mosè (Es 3,1-6)? In un'esperienza esteriore (il roveto che brucia e non si consuma) fa un'esperienza interiore (vede Dio; meglio, lo riconosce), e sente la sua voce. Ma non lo vede fisicamente, tant'è vero che il testo dice che "deve velarsi il viso" (Es 3,6), per dire che non può vedere Dio.
E un'altra volta Mosè (Es 33,18-23) lo può vedere (ed è stato il massimo per un uomo) solo di spalle "perché nessun uomo può vedere Dio e restare vivo" (Es 33,20).
Ed Elia (1 Re 9-18)? Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco ma in una brezza leggera. Quello era il segno che Lui c'era, ma Elia non lo vide.
Dio (il Risorto) è così: lo puoi solo riconoscere. Cioè: vivi un'esperienza e dentro a quell'esperienza riconosci che Lui c'è, che Lui ti parla, che è proprio Lui che ti ha condotto fin lì.
Qualunque cosa ti succeda Dio è lì, in ciò che succede.
Milton Erickson, padre dell'ipnosi moderna, ha 17 anni (siamo nel 1920) quando viene improvvisamente colpito dalla poliomelite. Paralizzato, non può più parlare né comunicare. Quando arriva il medico dice a sua madre: "Non arriverà a domani mattina" (lui sente tutto questo). Tutti lo davano per spacciato. "In quel momento sentii, dice Lui, che adesso ero chiamato": prese tutte le sue forze e dopo ore riuscì a sbattere le palpebre (era l'unica cosa che riusciva a fare). Non si lasciò andare e riuscì a guarire (camminò per tutta la vita con un bastone). Sembrava la sfortuna della sua vita e invece Dio era lì. Quel fatto gli insegnò il potere della forza di volontà (a 20 anni fece un viaggio da solo in canoa di 2000 km), il gioco delle relazioni (osservando gli altri capì come si poteva affermare con le parole una cosa e negarla con il corpo) e la memoria muscolare (osservando sua sorella che imparava a camminare, anche lui reimparò).
Da quel giorno Milton capì che il potere è credere che si può. E quando gli chiesero: "Ma come fa lei ad essere così efficace con le persone? Che tecnica usa?", lui rispose: "Io credo in loro". Faceva semplicemente con gli altri ciò che aveva fatto con sé.
Tutto il suo approccio terapeutico e la sua ipnosi (molto versatile) erano orientati sulla persona. C'è un episodio della sua vita che lo spiega molto bene. Suo padre era agricoltore; Milton quando aveva 8 anni lo seguiva nei lavori; un giorno il padre voleva fare entrare il vitello nella stalla ma il vitello indietreggiava. E più tirava e più indietreggiava. Milton rideva seduto su di una pietra. "Se è così divertente, fai entrare tu il vitello nella stalla", disse il padre. Milton scese dalla pietra; avendo visto che il vitello indietreggiava... allora si mise dietro e tirò la coda al vitello e il vitello entrò subito.
Fai un incidente in auto? Puoi dire: "Che sfortuna!". Sì forse lo è. Ma Dio è lì anche in quello. Se lo puoi riconoscere, ha qualcosa da dirti. Forse, ad esempio, che stai facendo una strada di vita non buona per te.
Sei in difficoltà nel rapporto con il tuo partner? Puoi dire: "Andava così bene, perché adesso le cose non girano più!". Ma Dio, se lo vedi, è lì. Forse ti chiama a fare del tuo rapporto qualcosa di più profondo, di diverso; forse il rapporto deve evolvere.
Sei sempre irrequieto? Te la puoi prendere con il mondo e con gli altri (allora si è come quei bambini che danno la colpa sempre agli altri), ma Dio è lì con te. Se sei sempre irrequieto vuol dire, ti dice Dio, che la tua vita così com'è non rispecchia la tua anima. Non vivi, cioè, secondo i tuoi bisogni veri, profondi e spirituali.
Un uomo è caduto in montagna ed è svenuto. Qualcuno, non si sa come, l'ha preso e portato in ospedale. Non ha mai comunicato le sue generalità. Lo ha portato, lo ha lasciato lì e poi se ne è andato via. In ogni caso gli ha salvato la vita. Qualunque fosse il suo nome e cognome, noi sappiamo in fin dei conti Chi era...
Qualunque cosa ti succeda dì a te stesso: "Dio è qui". Anche se non lo vedo, Lui c'è. Devo solo aprire gli occhi per vederLo e per vedere cosa mi sta dicendo.
Quei due discepoli non lo hanno visto e mai avrebbero immaginato. Eppure!
E dopo averli ascoltati, cosa fa Gesù? Dà un significato diverso a ciò che succede. Dà un senso più profondo, spirituale, ai fatti della vita. Tutto può essere affrontato se ha un senso.
Guardate il vangelo. I due discepoli parlano tra di loro e di quello che è successo. Finché non c'è Gesù Risorto rimangono in superficie (livello materiale). Si raccontano che Gesù è stato crocefisso, di come lo hanno crocefisso, di come era stato un profeta potente, efficace, ma di come loro sono rimasti delusi, ecc. (24,19-24). Quando Gesù Risorto arriva, continuano a rimanere a quel livello.
Ma Gesù li porta su di un altro livello, più profondo (livello spirituale): "Sciocchi e tardi di cuore... Non bisognava che il Cristo sopportasse tutte queste cose... e cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (24,25-27).
Cosa fa Gesù? Da un senso più profondo, più alto, o semplicemente un senso a ciò che sembra non averlo.
Per i due discepoli la vicenda è: "Gesù è morto, porca miseria! E adesso? Ma che sfortuna! Ma non devono succedere queste cose! Ma perché? Ma perché a noi! ecc.". Per loro ciò che è successo è senza senso e ciò che è senza senso non è accettabile.
Ma dopo l'incontro con il Risorto le cose sono diverse: "Gesù doveva morire; anzi è "bene" che sia morto; le cose dovevano andare così, ecc.". Scoprono cioè il senso, il significato, di ciò che è successo. E' per questo che poi ritornano indietro, anche se era sera ed era tardi - e per fare sette miglia ci vuole un bel po' di tempo.
Il fatto di aver trovato un senso, un motivo, una ragione a ciò che è successo, cambia il loro stato d'animo. Se prima se ne andavano da Gerusalemme tristi e delusi (24,17) adesso ritornano a Gerusalemme pieni di energia, di fuoco (24,32). E la lunga strada di prima (24,13-15) adesso sembra brevissima ("senz'indugio ritornarono" 24,33).
Dov'è la differenza tra il prima e il dopo? Che ciò che prima non aveva senso adesso ce l'ha. Per cui anche ciò che è duro, difficile, ostico, adesso è accettabile, perché c'è un motivo.
Gerald Coffee. Il jet di ricognizione RA5-C, finché vola sopra il Vietnam del Nord nel febbraio del 1966, con a bordo il capitano Gerald Coffee e un altro soldato, viene abbattuto. L'altro soldato per evitarsi sofferenze, si suicida subito. Gerald riesce a salvarsi paracadutandosi, ma viene imprigionato da vietnamiti comunisti. Lì viene tenuto in prigione per sette anni in condizioni disumane. I prigionieri non potevano neppure parlare fra di loro (e lui per comunicare inventa un linguaggio). In quel momento lui fa di una tragedia la sua missione per evolvere e diventare un uomo migliore. E' sopravissuto e oggi continua in tutto il mondo a diffondere il potere interiore dell'uomo.
Cos'è che ha salvato Gerald Coffee? La possibilità di dare un senso, un significato a ciò che apparentemente non aveva senso e significato.
Da un punto di vista materiale è una tragedia. Eppure Gerald Coffee è riuscito a dare a questa tragedia un significato profondo, evolutivo, un senso più elevato.
Viktor Frankl. Viktor Frankl è stato un neurologo e uno psicoterapeuta, morto nel 1997. Si sposa nel 1941 ma finisce subito dopo prigioniero nei campi di Dachau e Auschwitz. Qui scopre che solamente coloro che riescono a dare un significato, un senso personale a quel dramma riescono a sopravvivere. Lui dirà: "Questa sarà la mia scuola di vita". E lo fu. Creò la logoterapia. Cos'è che salvò Viktor Frankl? Lo salvò la capacità di dare un senso a ciò che gli accadeva.
Henry David Thoureau diceva: "Le cose non cambiano: siamo noi a cambiare". In realtà, sia prima che dopo Gesù rimaneva morto. La storia non cambiava. Ma ciò che era cambiato erano loro, i due discepoli.
"Mio padre" dice un uomo, "era un alcolista e in casa picchiava tutti. La polizia era di casa e tutti lo sapevano in paese. Le maestre mi controllavano sempre per vedere se avevo lividi, e io mi vergognavo da morire". Questo (ciò che è successo) si potrà mai cambiare? No! E, infatti, quest'uomo non raccontava a nessuno la cosa, tanto era la vergogna.
Ma si può cambiare il senso. A livello materiale la storia dice: sofferenza, dolore, vergogna; pianto e rabbia ogni volta che se ne parla. La storia dice che lui odia suo padre e che lui non vuole figli (e lo possiamo capire). A livello della storia lui è in contrapposizione con tutte le autorità (capo, chiesa, politici, ecc.): è sempre critico e ostile. E' ovvio sono tutti un sostituto di suo padre.
Questo uomo, però, ha dato un senso a tutto ciò. Si è fatto aiutare, ne ha parlato e ora non si vergogna più della sua storia e di ciò che è successo. Ha recuperato la figura di suo padre (che ne aveva avuto uno uguale) e soprattutto ha fatto della sua sofferenza un suo punto di forza. Lui vuole essere un padre migliore e diverso. Lui oggi organizza i campiscuola per i ragazzi, perché loro abbiano oggi ciò che lui non ha potuto avere ieri. E dice: "Se non fosse successo quello che è successo, oggi non farei ciò che faccio".
Un uomo non ha mai conosciuto i suoi genitori: è cresciuto tra famiglie affidatarie e istituti. Il dolore e la rabbia che ha dentro sono enormi. Questo è il livello materiale, la storia. Ma in questa storia lui "ha visto Dio": oggi, ha oltre cinquant'anni, ha deciso di andare in missione ad aiutare i bambini poveri. Ed è già partito, e per la prima volta in vita ho visto nel suo volto le felicità.
Una donna ha perso sua figlia di 9 anni di leucemia. Questa è il livello tremendo materiale. Ma lei "ha visto il Gesù" nel suo cammino. Si è iscritta a psicologia e oggi aiuta efficacemente le persone nelle loro difficoltà. Inoltre accompagna in ospedale i bambini leucemici (e le loro famiglie) alla morte.
La storia non cambia ma se posso cambiarne il senso, allora "cambia" e la posso accettare.
Ti succede una cosa? Vivila e poi chiediti: "Qual è il senso per me di ciò che è accaduto? In che modo la Vita mi parla? In che modo Dio è presente in questa situazione?". "Che cosa questo fatto, anche doloroso, ti permette? Che dote di te vuole far uscire? Che cambiamento di te, del tuo carattere o della tua direzione di vita, vuole che accada? Che cosa ti sollecita? Che cosa vuol farti vedere che finora non hai visto? Che scelta ti invita a fare? Che cosa devi lasciare e che cosa devi prendere? Che cosa hai trascurato finora? Non bisognava che accadesse tutto questo perché solo così tu potevi capire che (ci sono cose che se solo la sofferenza ci insegnerà)... Non è che proprio Dio stesso ti ha portato fino a qua?".
Qualunque cosa ti succeda, non arrabbiarti, ma chiediti: "Qual è il senso per me?". "Che cosa mi apporta di nuovo nella mia vita? Che cosa mi fa capire? Che cosa devo imparare?".
Dio c'è sempre. Può darsi che a volte "non lo vediamo", in ogni caso Lui c'è. Se Dio è sempre presente nel nostro cammino, allora in ogni situazione Lui ci comunica qualcosa.
Se trovo la ragione, il motivo per me di questo fatto, allora lo posso accettare. Ogni situazione è accettabile se ha un senso. E niente è accettabile se è senza senso.
Isaac Newton, il grande fisico, era sotto un albero quando una mela gli cadde in testa. Uno avrebbe potuto dire: "Ahi, che botta! Proprio in testa doveva cadermi?". E invece lui da un fatto insignificante ebbe l'intuizione per cui i pianeti girano attorno al sole (la mela cade sempre verso il centro della terra; i pianeti per una medesima forza girano attorno al sole).
La fede è questa: vedere Dio in ogni cosa per cui tutto ci parla di Lui.
Pensiero della Settimana
"O Signore, fa di me uno strumento della tua salute:
dove c'è malattia, fa' che io porti la cura;
dove c'è ferita, aiuto;
dove c'è tristezza, conforto;
dove c'è disperazione, speranza;
dove c'è morte, accettazione e pace.
Concedimi che io possa:
non tanto cercare di essere giustificato, quanto consolare;
non tanto essere obbedito, quanto capire;
non tanto essere onorato, quanto amare...
perché è nel dare noi stessi che guariamo,
è nell'ascoltare che arrechiamo conforto,
ed è nel morire che nasciamo alla vita eterna".
(Preghiera per i guaritori, Leonard Laskow)