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TESTO Traccia di comprensione per Bar 2,9-15a; Rm 7,1-6a; Gv 8,1-11

don Raffaello Ciccone   Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza

Penultima domenica dopo Epifania (anno A) (27/02/2011)

Vangelo: Bar 2,9-15a|Rm 7,1-6a|Gv 8,1-11 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 8,1-11

1Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

Lettura del profeta Baruc 2, 9-15a

Il libro è attribuito a Baruc, noto come fedele segretario del profeta Geremia. Anzi, egli divenne un personaggio tipico, "lo scriba fedele della Parola di Dio" Il libro contiene materiali diversi, sia per genere letterario che per epoca di composizione. Si può pensare ad un'antologia e il brano di oggi fa parte di una Liturgia penitenziale (1,15b-3,8).

Il peccato è visto come rifiuto di ascoltare la voce del Signore, disprezzo dei suoi comandamenti, abbandono della sapienza da parte del popolo d'Israele. Il popolo risulta diviso in due gruppi: una parte abita a Gerusalemme e nella terra d'Israele e un'altra parte vive lontano, a Babilonia, pur guardando Gerusalemme come centro spirituale. Di fronte a comportamenti umani di peccato, come fari, brillano la giustizia, la fedeltà, la bontà e la misericordia di Dio.

E' difficile stabilire con precisione la data di composizione del libro, in particolare dei primi cinque capitoli. Alcune somiglianze con il libro di Daniele fanno pensare al II sec. a.C. Il libro, almeno in alcune sue parti (se non tutte), fu scritto originariamente in ebraico o aramaico; ma il testo che possediamo ci è pervenuto nella versione greca dei LXX. Il libro di Baruc non fa parte del canone ebraico: è un testo deuterocanonico.

Comunque si voglia leggere il contesto, ci si ritrova sempre in una situazione di dispersione, simile a quella dell'esilio.

Il profeta ammette che Dio è giusto in tutte le sue opere e che la colpa e il male non vengono da parte di Dio (v 9). Israele infatti sapeva ciò che sarebbe avvenuto se avesse peccato. Ma ha voluto ugualmente la maledizione (1,20). In tal modo ha scelto la propria rovina.

"Tu, Signore, hai fatto uscire il tuo popolo dall'Egitto... e noi abbiamo peccato... siamo stati empi. Si allontani da noi la tua ira. Salvaci per il tuo nome". Il perdono viene invocato con due formule precise: "Allontana da noi lo sdegno" (2, 13); "liberaci" (2,14). Qui si invocano di nuovo una salvezza e una liberazione; qui, finalmente, ci si accorge a chi rivolgersi e a chi no, consapevoli di chi può e chi non può; qui la liberazione è il vero desiderio.

Il popolo è cosciente di dover vivere nella penitenza e nella sottomissione al potere politico che gli stranieri hanno imposto poiché è l'unico modo per scontare i propri peccati e mantenere la possibilità di vivere. Israele si affida al Signore e alla preghiera che sorge da una terra di dispersione. Solo in tal modo riesce finalmente a creare una comunità, nonostante la lontananza e la "diaspora".

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 7, 1-6a

L'umanità, inserita mediante la fede e il battesimo, non solo è libera dal peccato (cap 6), ma è anche libera dalla legge (cap 7). La legge regola i rapporti solo tra i vivi. La morte li sospende come dimostra la legge matrimoniale (vv 2-3).

Con la morte di Gesù è stata vinta la legge anche in ciascuno di noi perché con il battesimo, la morte mistica di ciascuno, decade ogni diritto di proprietà, e siamo liberati dal dominio della legge. Il credente, che col battesimo muore al peccato, muore anche alla legge. Infatti essa non dà nessun aiuto per superare il male, in pratica risulta solo il megafono di un male esistente nel mondo e di cui non possiamo liberarci. Affidarci solo alla legge e al rispetto della legge non provoca la vita né la liberazione. Queste possono sprigionarsi solo in colui che si è posto al seguito di Gesù risuscitato,

nella fede. Solo allora, finalmente, produce una fecondità nuova per la vita e non per la morte "(vv 4b-5). Così, noi entriamo nel "regime nuovo dello Spirito" che non si regola più sulla norma scritta, imposta a ciascuno dall'esterno, capace solo di richiedere fatica e sforzi infruttuosi di adesione. Lo Spirito anima il credente dell'interno e lo muove verso una fecondità spontanea e gioiosa.

Lettura del Vangelo secondo Giovanni 8, 1-11

Questo testo ha creato molti interrogativi sia per il linguaggio, che assomiglia di più allo stile di Luca sia per la sua assenza negli antichissimi manoscritti biblici del NT a noi giunti. Esso compare e si diffonde solo a partire dal quarto o quinto secolo. Si ha quasi l'impressione che un racconto di questo genere avesse creato disagio e fastidio nelle prime Chiese, tanto da supporre che una lettura normale potesse provocare nei cristiani assuefazione al male e superficialità. E' come se negli antichi manoscritti si fosse strappato una pagina per evitare che le persone più fragili potessero scandalizzarsene. Si parla, infatti, di una straordinaria disponibilità di Gesù alla misericordia.

E tuttavia non è un testo permissivo. Gesù ricupera la persona, le dà l'opportunità di ripensare ciò che ha fatto, la incoraggia a riesaminare in termini completamente nuovi la propria esistenza. E questo, senza passare attraverso il castigo, o il giudizio degli uomini, pur avvalorato dalla legge di Mosé.

Gesù, che frequenta il tempio dalla mattina molto presto e che raccoglie attorno a sé molte persone che si fermano estasiate ad ascoltarlo, si vede portare davanti, strattonata e spinta in tutti i modi, una donna accusata di flagrante adulterio da due gruppi di persone: scribi i farisei.

Non sembra che si voglia fare il processo, seduta stante, quanto piuttosto si chiede il parere di Gesù su una grave infrazione della legge che formalmente prevede la lapidazione. Probabilmente gli accusatori non sarebbero arrivati subito a tanto, ma, certo, questo "gruppo del buon costume" organizzato in Gerusalemme, avrebbe creato drammi e timori in questa donna e nei presenti, ristabilendo ordine nel lassismo imperante, e, nel contempo, avrebbero sfruttato un'occasione unica, lampante ed esaltante insieme, per mettere in cattiva luce Gesù. Essi vogliono coglierlo in

contraddizione: o con la legge di Mosé o con la misericordia che spesso Gesù, richiama, facendo riferimento al Padre.

Di fronte allo schiamazzo, alle urla decise e convinte delle proprie ragioni, ripetute in modo sempre più violento dagli accusatori, di fronte alla situazione onestamente pruriginosa e paradossale, ma anche chiarissima, tutti si aspettano una conclusione rigida e definitiva che sfociasse nella morte.

Per procedere nella lapidazione, in caso di sentenza pronunciata dal giudice, è necessario che qualcuno, per primo, cominciasse a scagliare una prima pietra. E' il diritto-dovere che spetta al testimone sulla cui testimonianza si sono basati processo e condanna. Così Gesù, che fa appello a chi ritiene di avere diritto di iniziare l'esecuzione della sentenza di morte, richiama un'altra verità, ancora più importante, che è quella della coscienza di ciascuno e che nessuno conosce, tranne Dio.

Poiché una testimonianza bugiarda, in coscienza, avrebbe reso omicida il testimone, Gesù formula una diversa verifica sul diritto di procedere all'esecuzione: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra".

Ma, nel frattempo, Gesù assume un atteggiamento assai diverso, non provocatorio e libero da giudizio. Scrivere per terra è ricuperare tempo; lasciar sfogare senza fissare la persona che accusa; accettare che nel cuore di ciascuno maturi il proprio giudizio. Si sente, qui, la fermezza ed anche la fiducia che il rapporto religioso corretto, ricostruito con Dio, sa fare il miracolo di una consapevolezza.

Se la donna non è condannata da nessuno, neppure Gesù condanna la donna. Egli, che conosce a fondo il cuore delle persone, non è venuto per condannare, ma per dare la vita al mondo (Gv 12,27).

E però il richiamo alla legge morale, come rapporto prezioso e insostituibile con Dio, fa aprire a Gesù gli orizzonti verso il futuro coerente. "Non peccare più", dice Gesù.

Così viene lasciato alla coscienza un progetto futuro nuovo. Si ricuperino la libertà e l'attenzione a Dio che per primo ci vuole bene e ci perdona, per aprire noi e gli altri alla speranza.

Gli accusatori si fermano a tempo e se ne vanno via. O si resta fiduciosi e umili con Cristo, o ci si allontana. Davanti a Cristo non si può essere veri e giustizieri, tranquilli e sicuri della propria maschera.

La nostra eresia è quella di pensare Cristo giudice, o addirittura di pretenderlo. E invece dobbiamo essere noi a saperci verificare. Quanto accettiamo la misericordia di Dio?

Quanto restiamo induriti al seguito di Cristo e giudici degli altri, senza avere il coraggio, almeno, di andarcene consapevoli?

Restare con il Signore nonostante il rifiuto di una nostra verifica non ci fa intravedere la speranza e la salvezza. E così, ci ricorda il Signore, "I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio" (Mt 21,31).

 

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