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TESTO Tracca di comprensione Is 66,18b-22; Rm 4,13-17; Gv 4,46-54

don Raffaello Ciccone   Acli Provinciali Milano, Monza e Brianza

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V domenica dopo Epifania (anno A) (06/02/2011)

Vangelo: Gv 4, 46-54 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 4,46-54

46Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. 47Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. 48Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 49Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. 51Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». 52Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». 53Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. 54Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.

Lettura del profeta Isaia 66, 18b-22

Siamo alla conclusione del libro di Isaia che delinea il futuro della storia con un linguaggio proprio, detto apocalittico: è la prospettiva di un progetto a cui Dio mette mano nei tempi nuovi che verranno. Nel racconto mitologico della torre di Babele (Gen 11), agli inizi della civiltà, si scopre un avvenimento drammatico, inimmaginabile e voluto da Dio come la divisione dei popoli, conseguenza dell'arroganza dell'umanità che si voleva innalzare al livello di Dio stesso. E per tale motivo Dio ha confuso la potenza dell'unità di linguaggio, pericolosa perché fondamento di potenza, e ha reso indecifrabile il dialogo, svelando l'incapacità di comprensione diventata presto caos, lacerazione e guerra.

Sembrava un'atroce reazione di Dio che non accettava il peccato di insubordinazione e quindi sembrò castigo, e lo fu; ma fu anche il tentativo di salvare l'umanità dalla china dell'ubriacatura e dal delirio che avrebbe portato tutti alla morte. Se l'uomo si fa Dio, si autodistrugge e tutte le dittature lo dimostrano.

Quando il popolo d'Israele sperimenta la sua stessa dispersione, scopre anche la parola di Dio che interviene alla fine del doloroso cammino. Sarà Dio che si affaccerà alla soglia della dispersione dicendo: " Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria" (v 18). Nella sua umiliazione l'umanità potrà finalmente costruire una sua unità e ritornare a capirsi.

Viene così formulato l'annuncio del pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme. Con loro torna anche il popolo di Dio, disperso dalle guerre e dalle deportazioni. Esso sarà offerto al Signore come un dono purificato, portato sul monte di Gerusalemme "in vasi puri".

I superstiti delle nazioni (v.19) sono i convertiti che saranno inviati a predicare la fede fino ai confini del mondo, ed è curioso scoprire che qui si parli di pagani convertiti che diventano i primi missionari. Addirittura il Signore chiama al sacerdozio non solo gli ebrei dispersi senza passare dalla discendenza di Levi, la tribù sacerdotale per eccellenza, ma addirittura chiama stranieri convertiti perché anch'essi possano offrire un culto al Signore.

Tutto il testo è un annuncio delle nazioni (da notare il numero sette) che si convertiranno.

Il Vangelo riprenderà la prospettiva di tutte le genti, chiamate per vocazione alla mensa nel regno di Dio così come lo ha indicato Gesù: "Verranno da oriente e da occidente... e siederanno a mensa nel regno di Dio" (Luca 13,29).

Così la comunità cristiana, per quanto dispersa e disorientata possa essere, se nella quotidianità deve sentirsi responsabile delle proprie azioni e operare per la conversione, sa che il Signore non abbandona; anzi essa porta questa consapevolezza come dote per l'incontro con Cristo, e quindi come speranza per l'umanità poiché ha, come compito, di deporre nel cuore di ogni credente in Gesù, e di ogni persona nel mondo, la fiducia di una presenza e di un richiamo continuo all'unità e alla pace. Celebrare la vita significa consapevolezza di essere, insieme,

amato e inviato da Dio tra i popoli della terra nel tempo e nello spazio.

Lettera di san Paolo apostolo ai Romani 4, 13-17

Paolo sta sviluppando una sua convinzione assai chiara, confermata dalla Scrittura: la fede è la sola condizione richiesta da Dio per giustificare l'uomo. E Abramo ne è il vero esempio che garantisce il dono di Dio. Abramo e Sara, anziani, ricevono da Dio più promesse: la promessa del figlio, la promessa della terra, la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia della spiaggia del mare, la promessa di una benedizione per tutti i popoli della terra, sua discendenza. Nella fede di Abramo sono figli il popolo d'Israele, quindi i cristiani, a sua volta, inviati a tutte le gente e infine tutti i popoli della terra:

Sara, incredula si sente ricordare da Dio attraverso Abramo: "Non c'è nulla di impossibile per il Signore" (Gn 18,14). Così Abramo, che si fida di Dio, realizzerà la vita anche dove c'è il deserto e diventerà, da pastore errante, proprietario di una terra e capo di popoli, anche se poi, lui stesso, prima di morire, resterà proprietario solo di un pezzo di terra che aveva comperato per seppellirvi Sara .Le promesse di Dio valicano millenni. Abramo lo scoperse e continuò a fidarsi del Signore.

Abramo non ha compiuto nulla per meritarsi la benedizione di Dio, ma il suo merito è stata la fede incondizionata. Così Paolo ricorda che non è il legame di sangue con la stirpe di Abramo che dà diritto alle benedizioni di Dio, ma è la fede simile a quella del patriarca.

A conclusione, in questo brano, Paolo ricorda alla comunità dei cristiani di Roma che la potenza di Dio non solo è capace di ribaltare la morte offrendo la vita (Paolo è annunciatore della risurrezione di Gesù), ma addirittura è capace di riportare all'esistenza ciò che non esiste.

Lettura del Vangelo secondo Giovanni 4, 46-54

Gesù ritorna in Galilea dalla Giudea, passando dalla Samaria dove ha incontrato la Samaritana.

Ora è giunto a Cana, luogo dove si era manifestata la Gloria, e al banchetto degli sposi si era profilata la gioia di una nuova Alleanza nel segno della presenza sorprendente del Messia. E Cana è il luogo della vita che rifiorisce sulla Parola del Signore che è stata creduta.

Un uomo di potere cerca Gesù, avendo percorso circa 20 Km da Cafarnao a Cana: lo ha spiato prima e pedinato poi, sicuro della presenza di Gesù, nel villaggio dove lo avevano individuato.

C'è una richiesta precisa e drammatica: "Devi venire e compiere un prodigio perché il «bambino» viva". E' un uomo di potere. Non parla del "figlio" ma del "bambino". Ha raggiunto Gesù, consapevole della propria impotenza, ma lucido di quello che deve poter fare questo uomo di Dio. Pensa: "Deve dimostrare la sua forza, deve venire con me e guarire il bambino, deve manifestare il suo potere e la sua forza. Se viene da Dio, deve provocare prodigi e deve stupire".

Gesù si rifiuta di accettare questa logica e rimette in discussione la richiesta. "Signore, scendi per il mio bambino". La richiesta però esprime fragilità ed debolezza. Con tutti i limiti di una ideologia religiosa distorta è un uomo sofferente e impotente che cerca aiuto.

Gesù accetta di ascoltarlo e lo rimanda con la garanzia di averlo capito e di averlo aiutato, ma tutto è legato solo alla propria parola. "Va. Tuo figlio vive". Viene ristabilita la parentela, viene rifiutata la manifestazione di potere come l'altro immaginava, viene offerta una strada di fiducia.

E l'altro accetta. Ritorna a casa, senz'altro aver ricevuto se non una assicurazione. A questo punto la strada ha richiesto tempo: almeno il cammino di un giorno. Ma i servi gli si sono fatti incontro, e finalmente rassicurano il padre sulla vita del figlio. La comunicazione non è sulla salute. Non dicono: "È guarito" ma giocano sull'alternativa di impotenza di fronte alla morte.

"Tuo figlio vive". Tutti noi siamo stati nell'angoscia, tra morte e vita.

Nella verifica ci si accorge che è Gesù, veramente e solo Gesù, accettato e ubbidito sulla sua Parola, che ha salvato il figlio.

Così la presenza di Gesù è aperta ad una misericordia nuova ma anche discreta, diversa dalle attese, fatta di fiducia e di parole, fatta di attenzione e di rischio. Il funzionario del re si è mostrato disponibile a rivedere le proprie attese e le proprie ideologie.

Una famiglia intera crede. Non si dice in che cosa o come. In questo caso "credere" significa accettare, mettersi a disposizione, accogliere l'accaduto come fatto di Dio in Gesù. E' il credere dell'Evangelista Giovanni che, di fronte al sepolcro vuoto di Gesù e le bende piegate in un angolo, "Vide e credette" (Gv 20,8). E' il mondo di Dio che è penetrato, che opererà via via nel tempo, facendo accogliere, di volta in volta, parole e proposte nuove, anche se sconcertanti. Sono le nuove logiche di Dio.

 

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