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TESTO Commento su Matteo 5,13-16

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V Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (06/02/2011)

Vangelo: Mt 5,13-16 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.

14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.

PRIMO COMMENTO ALLE LETTURE

a cura di Gigi Avanti

Il ricorso all'uso delle metafore e delle immagini per trasmettere i concetti è antico quanto il mondo e risponde all'innato bisogno di conoscenza dell'essere umano alle prese con il mistero della vita.

Sono tante le parole della nostra lingua utilizzate e utilizzabili in senso metaforico, ma quello che appare più curioso è il fatto che parole così diverse tra loro nella loro accezione originaria letterale, risultano poi convergenti su un identico significato.

E' il caso, per esempio, della parola "sale" e della parola "luce" che, anche nell'uso metaforico corrente, sono accomunate dal medesimo riferimento all'intelligenza...

Si dice infatti che "bisogna avere sale in zucca" e che "non bisogna perdere il lume della ragione".

Avere "sale in zucca" può significare quindi di saper esercitare la capacità di accedere ai gusti e ai sapori profondi delle realtà della vita, così come "usare il lume della ragione" può significare di esercitare tale capacità nel senso di un vero discernimento riguardo ai valori fondamentali dell'esistenza, non limitandosi al primo colpo d'occhio ma spingendosi a vedere fino a dove arriva il raggio di luce.

Così come l'uso intelligente del sale esalta il sapore degli alimenti e l'uso intelligente della luce consente di osservare i contorni reali delle cose... allo stesso modo dovrebbe accadere per il comportamento da adottare nel vivere le relazioni interpersonali quale che sia la propria vocazione.

L'essere umano si nutre essenzialmente di "relazioni". Dio stesso viene definito dalla teologia come "Relazione"... Sarà un caso, ma il Creatore che esordisce con la sua azione creatrice inizia con la luce...("sia fatta la luce") a cui seguirà poco dopo la terra (piena, come si sa, di Sali minerali).

Insomma l'uso metaforico delle parole "sale" e "luce"induce a muovere la nostra riflessione nell'ambito dell'intelligenza (gustare il mistero pur non vedendoci chiaro) e, di conseguenza, a vivere le relazioni interpersonali al modo del "sale" e della "luce", in modo tale cioè da far trasparire il "sapore" vero delle realtà della vita che sono per lo più "invisibili".

Tanto più quando si è investiti, misteriosamente, da una missione particolare.

Ed è il caso della consegna incoraggiante di Gesù fatta ai suoi discepoli narrata nel brano di vangelo di oggi. Va da sé che lo sfondo sul quale si situa tale consegna di comportamento è quella del Ragno di Dio.

Il ricorso, da parte di Gesù, all'immagine del "sale della terra" e a quella della "luce del mondo" in riferimento alla "modalità relazionale" che dovrebbe caratterizzare il loro essere "discepoli" sulla terra e nel mondo sembra condurre, tra le altre possibili, a queste conclusioni: così come il sale ha come caratteristica funzionale prevalente quella di esaltare il sapore degli alimenti e la luce quella di consentire la vista chiara di come muoversi verso una meta, allo stesso modo essere "sale della terra" e "luce del mondo" comporta di adottare una modalità relazionale di testimonianza capace di far accedere le "genti" al sapore profondo delle cose dell'anima onde vedano chiaro il vero traguardo del loro destino esistenziale.

E che tale modalità relazionale sia esclusivamente per "la gloria di Dio", pena il rallentamento o addirittura il fallimento della propria missione!

Quando un discepolo, magari troppo zelante ed agitato, si espone eccessivamente nella testimonianza... è come se mettesse troppo sale oppure preferisse il sale alternativo delle proprie vedute (egocentrismo pastorale) o come se attirasse attenzione su di sé e non dirottarla per la gloria di Dio.

Troppo sale disturba il palato e la luce serve per vederci chiaro, non per fissarla rimanendone magari abbagliati...

Giusto equilibrio (da trovare di volta in volta nelle situazioni che mutano...) ed umiltà sembrano i due atteggiamenti relazionali di base indicati da Gesù ai suoi discepoli... in missione.

Un ‘altra volta dirà di essere "semplici come le colombe" e "prudenti come i serpenti"... fino a tagliar corto quando dirà, con sommo umile amore: "Imparate da me che sono mite ed umile di cuore".

E ad imparare non si finisce mai... ecco perché sarà con noi fino alla fine del mondo.

SECONDO COMMENTO ALLE LETTURE

a cura di Andrea Lonardo

1. Gesù continua ad insegnare. Le parole sul sale e sulla luce proseguono l'annunzio delle beatitudini. Vale la pena, innanzitutto, sottolineare come per la fede cristiana non si da alcuna opposizione fra parola e testimonianza. Infatti, nel vangelo di Luca, Gesù ricorda che «la bocca parla dalla pienezza del cuore» (nella nuova traduzione: «la bocca esprime ciò che del cuore sovrabbonda», Lc 6,45).

La parola è testimonianza. Come già annunziava l'AT, «il frutto dimostra come è coltivato l'albero, così la parola rivela i pensieri del cuore. Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini» (Sir 27,6-7).

Il vangelo di Matteo insiste molto sulla bellezza e l'importanza dei discorsi di Gesù. Proprio il ciclo liturgico dell'anno A deve essere un invito rivolto ad ogni credente perché riprenda in mano il Nuovo Testamento per leggere e meditare i cinque grandi discorsi nei quali l'evangelista condensa l'insegnamento del Cristo. Egli è veramente il maestro che insegna la nuova Legge (discorso detto della montagna, Mt 5-7), che spiega la novità della sequela cristiana (discorso detto missionario, Mt 10), che annuncia con le sue parabole la presenza del regno (discorso detto parabolico, Mt 13), che manifesta la nuova identità della chiesa popolo di Dio (discorso detto ecclesiale, Mt 18), che prepara i suoi all'attesa della fine dei tempi ed al suo trono (discorso detto escatologico, Mt 24-25).

Il primo discorso, quello della montagna, si conclude proprio affermando che «quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» ( Mt 8,28-29).

La novità della parola di Gesù risuona nelle orecchie dei suoi ascoltatori ed essi percepiscono chiaramente che testimonia di Dio in maniera assolutamente nuova, come mai si era udito. Pur non perdendo nulla della ricchezza della rivelazione veterotestamentaria, la porta ad un compimento assolutamente nuovo ed inatteso. Ed anche i discepoli di Cristo, come Matteo, potranno perciò essere «scribi che estraggono dal loro tesoro cose antiche e cose nuove» (Mt 13,52).

Proprio il tempo in cui viviamo desidera parole chiarificatrici, capaci di illuminare il cammino. Dovunque c'è qualcuno che responsabilmente e con passione si fa carico dell'"insegnamento", sia i giovani che gli adulti ritrovano il coraggio delle domande, della ricerca, del confronto, che invece si spegne dinanzi a parole non significative, ripetitive o confuse.

2. Già le beatitudini, domenica scorsa, avevano annunciato che le parole dell'insegnamento di Gesù erano per la vita beata. L'annuncio della "beatificazione" di Giovanni Paolo II ce le ha fatte percepire in maniera tutta peculiare. Anch'egli viene ora dichiarato "beato". Egli non solo le ha vissute, ma ne ha gustato, pur nella fatica, l'intima beatitudine e, soprattutto, la riceve in pienezza da Dio nella vita eterna.

Il paradosso delle beatitudini è proprio quello di una presenza già reale, anche se incompleta, della felicità che promettono, ma insieme, dell'attesa di un compimento senza il quale non avrebbero senso. È il Cristo che se ne fa garante, egli che rese grazie nel momento di offrire se stesso nell'ultima cena che anticipava la croce mentre, insieme, ne sentiva tutto il peso che solo l'attesa della resurrezione consentiva di portare.

Se esse si rivolgevano a tutta l'umanità, a coloro che sarebbero stati poveri di spirito così come puri di cuore, operatori di pace così come miti, affamati di giustizia così come misericordiosi, nondimeno l'espressione finale ne mostrava l'immediata verità nella vita dei discepoli di Gesù: «beati voi quando... per causa mia» (Mt 5,11).

Quel "voi" è la parola rivolta espressamente ai discepoli di Cristo, chiamati a soffrire per la testimonianza del vangelo. Proprio i cristiani che, incompresi non per loro colpa, bensì per la fedeltà al loro Signore, subiscono il rifiuto e la condanna, partecipano della beatitudine del regno.

Con quel "voi " si apre anche la pericope della liturgia odierna: «voi siete il sale della terra... voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13-14).

3. Gesù ama i suoi. Gesù conferisce loro un mandato che non può essere disatteso. Essi sono "luce" e "sale". E sono luce e sale "della terra" e del "mondo", proprio perché di sapore e di luce ha bisogno l'uomo. Non avrebbe senso essere sale e luce di una vita già pienamente gustosa e totalmente rischiarata.

Dietro i cliché di facciata, anche l'uomo del nostro tempo si accorge di un sapore che manca e di una luce che deve ancora rischiarare. Sapore e luce che non riguardano solo questa o quella situazione particolare, ma più radicalmente l'esistenza stessa.

Un intellettuale del settecento - Rudolf Erich Raspe - si divertì a scrivere le avventure del Barone di Münchhausen, una serie di avvenimenti inverosimili occorsi al suo personaggio. Oltre ad un viaggio sulla luna, ad un volo a cavalcioni di una palla di cannone, l'episodio più famoso è quello relativo al suo uscire salvo da una palude di sabbie mobili nella quale era caduto. Non essendoci alcun punto cui aggrapparsi per uscire dalla palude nella quale stava affondando, non essendoci né un ramo di un albero, né una roccia sporgente, il Barone del racconto uscì dal pericolo tirandosi fuori per i capelli.

Se un uomo, nella fantasia, può sollevarsi da solo a partire dai suoi stessi capelli, ben diversamente stanno le cose nella realtà. L'uomo si accorge ben presto che quel gusto e quella luce che egli cerca non può darseli da se stesso, bensì deve riceverli in dono. Tutta la grandezza del suo essere "soggetto" non sta nell'assolutizzarsi, bensì nel rivolgersi a Dio ed ai fratelli.

Di questo debbono essere testimoni i discepoli di Gesù. Senza quel sale e quella luce, l'insipido e le tenebre saranno la regola della vita. Per questo le "opere" che i discepoli sono chiamati a compiere non hanno valore in quanto pure azioni, bensì molto più come segni di una presenza più grande, quella del Padre.

Come ebbe ad affermare il grande Pavel Florenskij, matematico e teologo russo che morì fucilato dal regime comunista: «I vostri ‘atti buoni' non vuole affatto dire ‘atti buoni' in senso filantropico e moralistico: ymón tà kalà èrga vuol dire ‘atti belli', rivelazioni luminose e armoniose della spirituale - soprattutto un volto luminoso, bello, d'una bellezza per cui si espande all'esterno ‘l'interna luce' dell'uomo, e allora, vinti dall'irresistibilità di questa luce, ‘gli uomini' lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora».

 

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