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TESTO Una preghiera legittima a una condizione...

padre Gian Franco Scarpitta   S. Vito Equense

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (17/10/2010)

Vangelo: Lc 18,1-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù 1diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Descrizione molto plastica ed entusiasmante quella descritta nella Prima Lettura, tratta dal libro dell'Esodo, nella quale si tratteggiano i particolari insoliti e avvincenti della lotta fra Israeliti e Amaleciti, nella quale sono coinvolti Mosè, Giosuè, Aronne e Cur. Il particolare che più colpisce è l'esibizione singolare e spettacolare di Mosè nel corso della battaglia: quando questi solleva ambedue le braccia verso l'alto il popolo di Israele ottiene la vittoria, quando invece le lascia cadere per la stanchezza, il vantaggio bellico passa subito al popolo avversario; cosicché Aronne e Cur intervengono trattenendo in posizione alta ciascuno un braccio di Mosè, che alla fine guadagna il successo militare per il suo popolo.

Ma si tratta di un sortilegio o di un atto straordinario di propiziazione? Si tratta di favoritismi divini? Sollevare le braccia e dirigerle verso l'alto equivale a riporre la fiducia in qualcosa che ci trascende o che ci sovrasta, dichiarare un riconoscimento di dipendenza da Qualcuno che sta più in alto di noi e determinare ogni nostra azione sulla base della vicinanza e della protezione che egli nutre nei nostri confronti. Insomma esprime un atto di fede in Dio, concepito come affidamento e donazione disinvolta e spontanea a Lui senza riserve che ha come conseguenza la vittoria e il conseguimento delle nostre aspirazioni. Non è quindi l'esibizione sterile del gesto a doverci entusiasmare nell'atteggiamento di Mosè, ma il suo significato, quello di una fede sincera e coerente che si esprime con un atto di affidamento a Dio. Questa fede significa abbandono alla sua volontà ricerca della sua protezione, affidamento a Lui senza riserve, fiducia incondizionata e si esprime in una molteplicità di modi e attraverso la singolarità specifica di atti concreti come quello di sollevare le braccia.

La fede certo non può essere messa in tasca. Essa si coltiva e si alimenta in un crescendo continuo, soprattutto attraverso la preghiera.

La scorsa settimana si rifletteva sul fatto che l'orazione può e deve costituire una modalità per esternare la nostra riconoscenza al Signore per i benefici di cui ci rende oggetto e che la gratitudine verso Dio (e verso il prossimo) non è una banalità nella nostra relazione con lui.

Adesso stiamo invece riscoprendo il valore della preghiera come atto fiducioso di richiesta. Certamente, nessun atto di orazione può mai essere gradito a Dio né tantomeno ottenere esaudimento quando è motivato da interessi secondari egoistici e meschini; Dio non può certo legittimare le nostre intenzioni se il ricorso alla preghiera è per noi un espediente magico atto ad appagare esclusivamente i nostri desideri personali o ad ottenerci compromessi con Dio, la preghiera cristiana non è un atto pagano di idolatria per cui tutti si può ottenere propiziandoci la divinità, quanto piuttosto espressione di una fede pura, disinteressata e coerente che coincide con l'affidarsi libero e incondizionato alla volontà di Colui che sceglie il meglio per noi.

Questo tuttavia non toglie che un'orazione possa essere rivolta a Dio con le intenzioni della richiesta, né esclude che essa possa ottenerci i desideri da noi ambiti: il pregare non esclude il chiedere, anche se condanna il pretendere. La Scrittura tratteggia episodi frequenti di soggetti la cui orazione viene prontamente seguita da un concreto intervento divino e la parabola evangelica di oggi sottolinea che la preghiera di richiesta viene in ogni caso ascoltata da Dio: considerando la situazione pietosa delle vedove ai tempi di Israele, era ben difficile che una vedova potesse ottenere giustizia da un tribunale umano, a causa della sua condizione di solitudine; tuttavia questo giudice parabolico alla fine si decide a favore di questa povera donna, onde evitare che questa continui ad importunarlo. Ebbene, l'atteggiamento di Dio è ben diverso da quello di un giudice seccato a cui una vedova chiede giustizia; Egli è un giudice di misericordia e di bontà, che interviene sollecitamente nei confronti di chiunque gli rivolga una preghiera di richiesta: forse Egli non esaudirà immediatamente i suoi richiedenti, forse seguirà itinerari lontani dal nostro modo di pensare egoistico e interessato, ma senza dubbio si manterrà sempre propenso all'ascolto e alla considerazione di ogni nostra richiesta, pronto ad intervenire a nostro vantaggio anche concedendoci quello che chiediamo. Ad una sola condizione: che i nostri desideri corrispondano all'imperscrutabile sua volontà e che ci disponiamo a realizzare i suoi disegni su di noi senza reticenze o limitazioni, ma con lo spirito di una fede che ci porti a concludere "Sia fatta comunque la tua e non mia volontà". Una preghiera insomma che sorge da una disposizione interiore all'apertura incondizionata del cuore e alla sottomissione della volontà, che coincide in null'altro che nella fede, prima virtù che ci avvicina al vivere stesso di Dio.

 

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