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TESTO Gratitudine e riconoscenza

padre Gian Franco Scarpitta   S. Vito Equense

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/10/2010)

Vangelo: Lc 17,11-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

"Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando "Immondo! Immondo!" Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento"(Lv 13, 45-46). Questa era la situazione a cui era condannato chiunque si trovasse colpito dal terribile morbo della lebbra, che costituiva già in se stesso una situazione grave e insostenibile di infermità fisica, ma che comportava anche disastrose conseguenze in seno alla società e al mondo contemporaneo: il lebbroso era un escluso e un emarginato, un reietto e un abbandonato da parte della società, poiché avere un contatto epidermico con lui equivaleva a contaminarsi e a rendersi impuri a propria volta. Per questo il malato di lebbra era tenuto, finché la sua infermità persisteva, a restare isolato dalla comunità e a palesare a tutti il proprio stato vestendo di cenci (perché si vedessero le pustole) e a gridare tutt'intorno "Immondo, Immondo". La sua presenza era un serio pericolo per la società, che evitava assolutamente la sua presenza.

E' chiaro allora che essere guariti straordinariamente dalla lebbra equivaleva ad ottenere un privilegio incommensurabile senza precedenti, un beneficio per il quale si riacquistava la vita recuperando se stessi e la propria personale valorizzazione e motivazione, oltre che il consenso degli altri tutt'intorno. Equivaleva a risuscitare. Ne è consapevole Naaman il Siro, che, colpito da questo morbo maligno, su invito di Eliseo provvede a purificarsi immergendosi nel Giordano sette volte e riscoprendosi guarito nell'animo e nella dignità oltre che nel fisico. Naaman avverte di essere stato davvero privilegiato da Dio, che ha operato attraverso il suggerimento prezioso di Eliseo e per questo non può omettere di esternare la propria riconoscenza e la propria gratitudine: si reca dall'uomo di Dio per rendergli omaggio. Non solamente al profeta in quanto latore della salvezza, ma soprattutto al Signore che questi rappresenta e che lui riconoscere essere il principale fautore di ogni grazia. Tuttavia non vi è ancora una piena riconoscenza, nell'atteggiamento di Naaman: nei versi iniziali del capitolo, infatti, questi decide di recarsi dal profeta Eliseo per ottenere il miracolo della guarigione dalla lebbra a tutti i costi e senza condizione alcuna. Anziché l'invito a lavarsi sette volte per purificarsi, si sarebbe infatti aspettato da parte del profeta un semplice atto terapeutico: " Certo... invocherà il nome del signore suo Dio toccando con la mano la parte malata e la lebbra sparirà". (v 11). Così non avviene, e Naaman addirittura si arrabbia con Eliseo per quanto gli sta chiedendo, avendo questi la convinzione di trovarsi di fronte ad medico guaritore piuttosto che ad un uomo di Dio.

Anche i dieci lebbrosi che prendono d'assalto Gesù non appena entra in quel villaggio sconosciuto, sono ben consci del dono straordinario che hanno ricevuto e del vantaggio che questo dono recherà loro per sempre, ma anche questa volta il senso di gratitudine è davvero scarso, poiché solo uno di questi uomini, che si vedono sanati e recuperati alla vita, si sente in dovere di rendere riconoscenza a Dio, esaltando il Figlio Gesù Cristo e quello che più fa' meraviglia è che questo sconosciuto lebbroso risanato è un Samaritano, di quelli di cui sa parla nel famoso brano del malcapitato che incappa nei briganti viaggiando da Gerusalemme a Gerico. Cioè una persona ritenuta immonda, perché ostile, infedele e lontana dalla sana religione. Solo uno straniero quindi riconosce in Gesù il Messia che viene a mostrare la sollecitudine del Padre con concreti atti di misericordia e a recare a tutti la novità del Regno; gli altri sono solamente intenti a recarsi al più presto dal sacerdote per ottenere l'attestazione definitiva di guarigione (Lv 14) ed essere riammessi nella comunione degli altri uomini; a rendere grazie a chi ha loro concesso l'ineguagliabile dono della guarigione non pensano nemmeno.

Gesù nel contattare i lebbrosi e nell'intrattenersi con loro instaura normali relazioni che neppure rasentano i comuni pregiudizi e i risentimenti dei suoi contemporanei e si mostra ben lungi dalla discriminazione e dalla refrattarietà usata da tutti gli altri suoi contemporanei: stupisce infatti come egli tratti i lebbrosi con assoluta disinvoltura considerandoli suoi pari, come si mostri misericordioso nei loro confronti con concreti atti di amore e come a differenza di quanto accade nel comune sentire, egli rilevi in questi sfortunati soggetti anche un merito o un motivo di stima e di apprezzamento: "La tua fede ti ha salvato".

E anche questo dovrebbe indurre i sui interlocutori - tutti - a mostrare almeno un atto di riconoscenza o di considerazione nei confronti suoi e del Padre e invece, come avviene non raramente nelle nostre interazioni umane, l'ingratitudine e la sfacciataggine hanno la prevalenza e il ringraziamento non trova spazio dove si è abituati ad ottenere tutto e subito, come tutto ci fosse dovuto subito.

E' appunto proprio della sfrontatezza pretendere di essere esauditi nelle nostre richieste, esigere che ci vengano concessi favori o piangere perché altri si muovano a compassione, e poi, ottenuto quanto chiesto non avvertite neppure il minimo senso di riconoscenza e di considerazione verso chi ci ha favoriti, e non di rado il prodigarsi volentieri per gli altri senza ottenere almeno un riconoscimento o peggio ancora ricevendo torti e umiliazioni apporta sfiducia e scoraggiamento. Nel corso del mio ministero pastorale, in una circostanza nella quale notai che finalmente si era formata attorno a me una viva comunità di giovani e di ragazzi ai quali concedevo anche troppo frequentemente intrattenimenti ricreativi in oratorio come la visione di film o partite di calcio, avvenne che, dopo innumerevoli sforzi e sacrifici per comporre la comunità oratoriana, uno dei giovani partecipanti per un banalissimo motivo mi apostrofò dicendomi che avrei dovuto essere trasferito; un'altra volta, sempre dopo che ebbi realizzato un oratorio per ragazzi raccogliendo numerosi partecipanti da ogni luogo, la mamma di un fanciullo mi disse spudoratamente che io non ero all'altezza del compito; e altre esperienze si potrebbero raccontare nelle quali l'eccessiva bonarietà e condiscendenza è ricambiata da deplorevoli atti di umiliazione e di perversità.

Ringraziare dovrebbe essere prerogativa dell'umano e soprattutto di chi si professa cristiano e per ciò stesso consapevole di essere stato solamente beneficiato di elargizioni che ad altri non sono concesse o che potrebbero anche esserci tolte; rendere grazie è caratteristica irrinunciabile perché le nostre relazioni con gli altri migliorino e siano sempre più congeniali e favorevoli per noi stessi e per il prossimo e per quanto questo non possa balzare subito agli occhi, il senso di gratitudine può contribuire anche all'instaurazione della serenità e della pace nei nostri rapporti con gli altri.

Il ringraziamento nei confronti del Signore, otterrà invece sempre le ricompense inaspettate.

 

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