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TESTO Commento su Luca 10,25-37

Omelie.org - autori vari  

XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (11/07/2010)

Vangelo: Lc 10,25-37 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 25un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».

29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Padre Gianmarco Paris

Il comandamento "vicino"

Le nostre città e paesi si stanno profondamente trasformando: ogni giorno che passa ci vediamo immersi in una società sempre più formata da persone provenienti da paesi e culture diverse, appartenenti a religioni e visioni di vita diverse. È un peccato che i mezzi di comunicazione facciano risuonare soprattutto le difficoltà e le conseguenze negative di questo fenomeno e tacciano quasi completamente sul valore epocale e sulle opportunità di crescita che porta con sé. Questo tipo di comunicazione contribuisce a formare un'opinione pubblica caratterizzata dal sospetto, dalla paura e forse anche dall'odio per chi è diverso da noi, per chi ha la pelle di un altro colore, parla un'altra lingua e prega un Dio diverso da quello della nostra tradizione.

Che avvenga questo è un peccato per la nostra umanità... ed è un peccato anche per la nostra fede. Infatti ascoltando il vangelo di questa domenica salta subito all'occhio che Gesù insegna con uno stile totalmente opposto al modo con cui spesso consideriamo le differenze etniche e religiose: per rispondere ad un teologo che gli chiedeva fino a che punto doveva spingersi nell'amare gli altri, Gesù offre, come modello di amore da imitare, il gesto di soccorso fatto da un uomo che apparteneva ad un gruppo sociale diverso e religiosamente in contrasto con i giudei, era un samaritano. Non poteva esserci un modo più eloquente di dire che nessuno ti è così lontano che tu non debba spenderti per lui quando si trova nel bisogno. Non poteva esserci modo più diretto di dire che se le appartenenze sociali o religiose dividono, l'agire misericordioso che viene dalla fede va oltre ogni divisione ed è la vera e unica fonte della vita.

Ripercorriamo brevemente la pagina del Vangelo. Quando un teologo, toccato dalla sapienza del maestro Gesù, gli chiede cosa deve fare per avere la vita eterna (cioè partecipare della stessa vita di Dio), Gesù lo rimanda a quello che dice la Scrittura e che lui già sa. Il teologo non si fa trovare impreparato: risponde con il comandamento dell'amore a Dio e dell'amore al "compagno". Gesù riconosce che ha risposto bene; gli ricorda soltanto che, come aveva ben detto nella sua domanda iniziale, per avere la vita non basta sapere il comandamento, occorre praticarlo. Il teologo comincia a sentirsi a suo agio con Gesù e per giustificare la sua domanda chiede spiegazioni ancora più concrete: chi devo considerare come compagno, e quindi amare?

Dobbiamo sapere che c'era al tempo di Gesù una discussione aperta sul modo di interpretare il comandamento dell'amore per il "compagno": si deve amare solo chi appartiene allo stesso gruppo e alla stessa religione, come intendevano i più, oppure si devono amare tutte le persone, indipendentemente dalla loro appartenenza sociale o religiosa?

È per rispondere a questa domanda che Gesù racconta una delle parabole più belle e conosciute del Vangelo. Le parabole sono belle perché non hanno bisogno di molte spiegazioni, non vogliono spiegare cose difficili ma spronano ad agire secondo una verità semplice. Un uomo in viaggio fu assaltato da briganti e fu lasciato mezzo morto. Passano per quella strada due uomini delle religione e del culto: lo vedono ma non se ne prendono cura. Infine passa un uomo appartenente a un gruppo sociale e religioso diverso, sembra un uomo laico, forse un commerciante in viaggio di affari. Lo vede, ne sente compassione e lo soccorre con tutti i mezzi che ha a disposizione. Spende per questo malcapitato non solo i suoi soldi, ma anche il suo tempo, mostrando una vera preoccupazione per il suo pieno recupero. Finita la storia, Gesù rivolge al suo interlocutore teologo una domanda per vedere se ha capito bene: chi ti sembra che sia stato "compagno" di questo uomo? Anche stavolta il teologo non si lascia sorprendere: è stato compagno colui che ha avuto compassione dell'uomo ferito. La risposta che il teologo cercava l'ha ricavata lui stesso dalla storia che Gesù ha raccontato. Al maestro non resta altro da fare che chiudere rispondendo alla prima domanda: per avere la vita è necessario comportarsi come quest'uomo che si è avvicinato all'uomo ferito, letteralmente si è fatto prossimo.

La storia non risponde direttamente alla domanda; non determina fino a quale punto un giudeo deve amare il suo "compagno". Con la sua domanda finale (chi è stato prossimo dell'uomo assaltato?) ribalta la prospettiva del teologo (chi è il mio prossimo?). Per Gesù più importante che sapere chi devo amare, è prendere l'iniziativa di farmi vicino a chi si trova in una situazione di necessità. Gesù spinge quell'uomo della Scrittura a vedere le cose come le vede lui, come le vede Dio: per chi entra in questa prospettiva il centro della questione non è chi deve ricevere amore, ma chi lo vuole dare. E ciò non dipende da criteri di divisione sociale o religiosa, ma dall'umanissimo (e divinissimo) sentimento della compassione, che si esprime nel concreto gesto di farsi vicino, di curare, di ridare forza e fiducia a chi è senza forze e senza animo.

Storie come questa attraversano i secoli e parlano anche a noi, anche in estate, anche in vacanza. Ci dicono che per vivere in pienezza dobbiamo obbedire al comandamento di Dio; ci dicono che questa obbedienza non passa prima di tutto per i riti o le osservanze della religione (anzi, a volte ciò può essere di ostacolo...), ma passa per la compassione verso l'uomo ferito nella sua dignità e bellezza. In questo senso possiamo capire le parole di Mosè al popolo (nella prima lettura): il comandamento non è troppo lontano da te, non sta fuori dalla tua portata.

Allora, per "ereditare la vita eterna" dobbiamo imitare il "buon samaritano", farci vicini alla vita di tutti, riscattare l'offesa di chi è considerato come meno uomo e trattato di conseguenza, curare le ferite di chi è calpestato da logiche di potere. Verrebbe da chiedersi: dove è Dio in questa storia? Dove è Dio nella vita di chi agisce come questo samaritano? Dio è in Gesù, che raccontando la parabola si nasconde nel samaritano, che venendo sulla terra ha sentito compassione per gli uomini e ha fatto loro del bene (in questo senso potremmo comprendere il passaggio dell'inno di Colossesi dove Paolo dice che è piaciuto a Dio fare abitare in Gesù ogni pienezza e riconciliare a sé tutte le cose). Dio e Gesù sono negli occhi di compassione e nei gesti di soccorso di chi si fa prossimo e fratello di chi è nel bisogno.

 

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