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TESTO Commento su Luca 9,18-24

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XII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (20/06/2010)

Vangelo: Lc 9,18-24 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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18Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». 19Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto». 20Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». 21Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno.

22«Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».

23Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. 24Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà.

PRIMO COMMENTO ALLE LETTURE

In questi giorni di inizio giugno mi sono trovata a meditare in maniera consistente, per una serie di motivi personali e riguardanti persone da me conosciute, su che cosa rappresentano il dolore e la sofferenza nell'esperienza umana.

Tema molto impegnativo, che certo non ho la pretesa di trattare in maniera compiuta, e che è stata trattata da illustri teologi e filosofi con cui certo non posso neanche pensare di competere.

Ma vorrei condividere con voi, mediante alcune delle riflessioni che ho sviluppato come pensiero mio proprio negli ultimi mesi ed ancora di più nell'ultimo periodo, e poi vedere come si possono riconsiderare ed approfondire alla luce della liturgia che la Chiesa ci propone in questa dodicesima domenica del Tempo Ordinario ed in particolare modo col brano del Vangelo proclamato oggi che è Luca 9, 18-24.

Il mio pensiero non è partito da eventi "epici" ma, come è spesso nella vita di ogni essere umano, da ciò che mi è stato vicino e su cui mi sono trovata a ripensare con calma in seguito.

Intanto una prima fonte di riflessione è scaturita dall'avere rivisto, ad un festeggiamento per i trent'anni di maturità, i miei compagni di scuola.

Come succede in questi casi, passata la sorpresa iniziale di ritrovarsi fisicamente, in parte uguali (perché i tratti somatici sono quelli), in parte diversi perché gli anni sono passati (e quindi i capelli sono o bianchi o tinti, il corpo spesso ispessito, le rughe che prima non c'erano ora segnano il volto..), mi sono trovata a interagire con alcuni di loro.

Con certi compagni più del saluto e del sorriso non siamo andati, ma con altri, con cui magari c'era da ragazzi una maggiore amicizia ma con cui non ci siamo più visti (anche perché io vivo da tanti anni in un'altra città) ci siamo raccontati trent'anni di vita, composti di gioie (di solito la nascita e la crescita dei figli, ma anche le soddisfazioni magari di un lavoro gratificante, di un ideale di gioventù perseguito e realizzato) e intessute anche di dolori (i lutti derivante dalla morte di persone care, le malattie, i fallimenti personali, i tradimenti dei proprio sogni ed alle proprie idealità da ragazzi ormai molte volte accantonati per una vita realisticamente "adulta"...).

Nei giorni successivi a questo incontro ho pensato come il dolore è presente nella vita di tutti, come sentirlo narrare a volte fa spavento, come al racconto della malattia grave, della morte prematura (non c'erano con noi quattro compagni a festeggiare perché già deceduti) si rimane lì, si ascolta con sgomento, si prova compassione (nel senso etimologico della parola "cum patire" -"soffrire con") ma poi, in fondo, si ascolta e non sa che dire, perché non solo è difficile trovare le parole per consolare, ma forse, nel dolore (e anche nelle gioie) degli altri è difficile, o quasi impossibile, entrare .

E' come una superficie scivolosa che tocchi e non penetri, sei con l'altro, ascolti, vorresti aiutare ma in realtà con tutta la buona volontà c'è sempre un limite che è proprio dei rapporti umani.

Il tema del dolore è stato motivo di riflessione per me anche in maniera inversa: partendo dalla mia recente esperienza personale.

Da settembre dell'anno scorso ho avuto una serie di difficoltà e dolori.

Ho notato due cose, per me, fondamentali e su cui ancora sto meditando.

La prima "la classificazione"(se può esistere una classificazione) dei propri dolori è terribilmente soggettiva.

Tolti gli "eventi clamorosi" (lutti, malattie) che sono oggettivamente gravi, ognuno di noi ha una scala personale di valutazione di ciò che gli accade per cui un evento che può provocare una sofferenza all'uno, può essere motivo di un sorriso condiscendente per un altro a cui lo racconta e che risponde nel sentire il racconto "ma che vuoi che sia?", minimizzando (forse, anche, giustamente), quanto uno prova a condividere.

A volte non sono dolorosi solo i dolori, ma anche le difficoltà.

Il sentirsi rifiutati da una persona, il sentirsi rigettati da un'istituzione, la fiducia concessa e tradita, le idealità finite possono fare male, anche se non sono lutti nel senso tradizionale della parola, sono eventi di vita ma possono ferire... Sono difficoltà appunto di cui la percezione è terribilmente appartenente alla persona che le vive.

Non sono gravi ma possono provocare un senso di solitudine che rasenta la disperazione.

Anche la seconda cosa che ho notato e su cui mi sono soffermata va nella stessa direzione.

Il dolore è sempre e comunque un'esperienza personale, che si può vivere con altri, ma che rimane comunque un'esperienza in realtà individuale.

Quando si prova, se ne può parlare... ma non si riesce a condividere veramente neanche con le persone più vicine che possono al massimo ascoltare, sdrammatizzare (serve anche quello!) ma non provare quello che provi tu, in quanto ognuno di noi è unico e nella sua unicità terribilmente solo e nessuno può provare quello che prova dentro di se.

Dopo questa lunga premessa di pensiero molto personale, voglio ripensare con voi le parole che ci propone il Vangelo di questa domenica.

Il brano della sequela lo troviamo sia nel Vangelo di Marco (8, 27-30) sia nel Vangelo di Matteo (16-13-20) sia in quello di Luca nei versetti proclamati oggi.

Nella versione di Luca il brano si compone sostanzialmente di due parti .

La prima parte è quella in cui Gesù chiede conto ai discepoli di come viene percepita la sua identità sia tra la folla, che da loro stessi.

La seconda parte in cui offre la sequela e ne detta le condizioni.

Vediamo brevemente di considerare questi due temi e poi di capire come possono essere riconnessi alle mie considerazioni iniziali sulla sofferenza umana.

La domanda rivolta alla folla è chiaramente una domanda introduttiva. Gesù ci dice il Vangelo" dopo avere pregato", quindi in piena comunione col Padre, e come nel Vangelo lucano fa prima di ogni azione veramente importante, interroga i suoi discepoli, chiedendo loro: «Le folle, chi dicono che io sia?».

E' chiaro che la domanda è chiaramente retorica (ha forse Gesù bisogno di sapere il pensiero delle folle mediante i discepoli?), ma serve per introdurre il discorso successivo e portare Pietro alla professione di fede. I discepoli riferiscono delle varie identità che vengono attribuite a Gesù; è da notare che "le folle" capiscono che Gesù potrebbe essere una persona mandata da Dio ovvero sia "Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto". Qualcuno di importante, ma non il Messia.

In realtà non si sa chi è, che ruolo e che funzione Gesù abbia. Israele non riconosce in Lui il Messia atteso.

La domanda si fa diretta: Gesù interroga i discepoli nel loro complesso ma la risposta richiesta è individuale (Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio».)

Quindi il Vangelo di oggi ci interroga e ci rimette in discussione, con la domanda «Ma voi, chi dite che io sia?» che troppo chiaramente si trasforma in "Chi sono io per te?". Ognuno è chiamato a dare una risposta in prima persona "Chi è Gesù per me?"

Dalla Sua presenza in questa terra sono passati secoli e secoli, i tempi sono cambiati, noi non apparteniamo alla Chiesa dei primi tempi, ma ad una Chiesa che ha vissuto, con l'aiuto dello Spirito Santo, anche una storia terrena, che ha riflettuto e meditato nei secoli su tale domanda. Ma la bellezza è che la domanda di fondo è sempre la stessa, che attraversa ogni tempo, ogni storia, per giungere a noi individualmente e proiettarci in una conseguente vita comunitaria, frutto dell'amore di Dio per noi, di noi per Dio, di Dio per i nostri fratelli, di noi stessi per i fratelli in Cristo.

Gesù chiede sempre ad ognuno di noi di riconoscere la sua identità. E la cosa bellissima è che ce lo chiede ogni momento della nostra vita.

E la cosa stupenda è che ci lascia la libertà in ogni momento di riconoscerlo, o meno, come il Messia.

Come in ogni amore c'è il momento dello scegliersi ed il momento in cui ci si risceglie.
Il suo è un atto di amore infinito nei nostri confronti .

Gesù, rivelazione del Padre, ci propone di starci accanto nel nostro procedere a condizione che lo riconosciamo come il Redentore, a condizione che accettiamo il Suo amore e a nostra volta lo amiamo.
Se noi accettiamo di essere salvati, Lui ci salva.

Nelle righe successive del Vangelo odierno c'è l'essenza del cristianesimo.

Dio si fa uomo, soffre, viene rifiutato, deriso, ucciso, muore con la morte degli ultimi, la più infamante.

Fa esperienza della sofferenza, si accolla l'esperienza umana, la fa sua, ne prende parte.

Dalle parole della prima lettura di oggi "guarderanno a colui che hanno trafitto" tratte dal capitolo 12 del profeta Zaccaria (precisamente Zc 12, 10-11; 13.1 ), ripresa nel vangelo di Giovanni, che indicano la morte del Messia, alla profezia del servo obbediente (a questo proposito si può rileggere anche in Isaia i canti del servo e precisamente 42-1, 4;49 1-6;50, 4, 9; 52, 13-53, 12), ai racconti della Passione nei Vangeli, fino alle lettere di San Paolo, tutta la Parola ci parla e ci racconta di un Dio che si è fatto uomo ed ha sofferto per noi e con noi.

Lo Spirito Santo ci dona la fede per credere in questa Parola e aderire con la ragione e col cuore alla testimonianza della Chiesa.

Gesù dunque entra nella nostra sofferenza, la sgretola facendola sua, la distrugge.

Nel brano del Vangelo che consideriamo Gesù parla testualmente, dopo tanta sofferenza, di "risorgere il terzo giorno": chiaro che gli ascoltatori di allora non capiscono!

Ma a noi che abbiamo vissuto dopo la Passione e la Resurrezione è dato di capire che Gesù risorgendo ci dona la speranza: non esiste niente, neanche la morte, che il Signore non possa farci superare.

Non esiste niente che se noi camminiamo con Lui non possa essere raddrizzato (Vi ricordate le parole della sequenza di Pentecoste in cui invochiamo lo Spirito Santo implorando "Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato."?)

Il Signore può veramente modificare il nostro vivere, starci accanto nella sofferenza, nel dolore ed anche nella gioia e nella felicità, in tutto il nostro vivere giorno dopo giorno, nelle occasioni che la vita ci presenta.

Consideriamo ora il secondo snodo che ci presenta oggi il Vangelo: le condizioni della sequela.

Queste parole le abbiamo udite ed ascoltate tante volte nella nostra vita e che ogni volta ci sconvolgono per la loro lapidarietà ed essenzialità.
Testualmente:

Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

Che bello questo messaggio della sequela rivolto a tutti ma che poi di nuovo richiede adesione individuale.

La nostra religione è universale (cattolica) ma poi rivolta al singolo. Cristo è vicino ad ognuno di noi.

Gesù non è portatore di un Dio che promette una vita semplice, benefici a mai finire, scorciatoie facili, una realtà diversa costruita a tavolino, illusioni a buon mercato, ricette magiche: è un Signore che porta la croce e che su quella croce muore stendendo le braccia.

E' portatore di un messaggio in cui Gesù è il Dio con noi, colui che precede al nostro fianco, colui che ha fatto, pur essendo di natura divina, la stessa esperienza nostra, dice San Paolo uguale in tutto tranne che nel peccato. (Fil 2,6-11)

Egli ci invita a camminare con Lui, dietro di Lui e verso di Lui.
A noi la scelta.

Il Vangelo di oggi, ci dice che la condizione "sine qua non" è una convinzione totale nel seguirlo, un prescindere dai legami umani e le schiavitù che ci legano .
Cosa ci viene offerto in cambio?
Dice Pietro nel Vangelo di Giovanni

"Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna!" (Gv.6, 68)

Ci viene offerto qualche cosa che solo Cristo ci può dare: la speranza del Regno.

Riprendendo la meditazione personale sulla sofferenza e sul dolore, di cui parlavo all'inizio di questa mia breve riflessione, posso fare alcune considerazioni alla luce del Vangelo odierno e della fede che mi anima.

Credo di avere capito che Dio è, per chi ha la fede, Colui che rimane sempre accanto, che riesce quando le cose apparentemente non hanno senso, a ridare un senso alle cose.

Credo che nel suo morire in croce ci indichi che il nostro soffrire, che a volte ci sembra così sterile, e che ci fa così male, non è cosi inutile come può sembrarci.

Credo che Cristo sia veramente la nostra speranza e quindi che con Lui questo limite cosi pesante dell'incomunicabilità della nostra esperienza umana, in Lui e mediante Lui possa essere superato.

Con questo chiaramente il dolore e la sofferenza non sono piacevoli, ma affrontarle con il dono della fede rende il cammino più lieve.

Chiediamo allora al Signore che ci dia, per quanto riguarda le necessità di coloro che incontriamo sulla nostra strada, occhi per vedere le sofferenze dei nostri fratelli, capacità di ascolto, volontà di condividere il dolore altrui e di compenetrarcene in quanto fratelli in Cristo.

E d'altra parte, chiediamo ciascuno a Gesù, che ci dia la grazia di una sequela fedele e non ci faccia mai mancare i doni della speranza e della percezione della Sua vicinanza al nostro cammino.

A Colui che era, che è e che viene, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen

SECONDO COMMENTO ALLE LETTURE

a cura di Daniele Salera

Nel brano di Luca è riferito il primo annuncio della Passione, preceduto dal dialogo fra Gesù e i discepoli sulla sua identità, e seguito da una breve istruzione, rivolta a tutti, sulle condizioni della sequela. In quello di Zaccaria appare un oracolo di consolazione per Israele che si riferisce alla sconfitta subita dal re Giosia alla fortezza di Meghiddo (609 a.C.) nel tentativo di fermare il passaggio dell'esercito egiziano. Singolare ma fruttuoso quest'abbinamento che la liturgia ci offre nella dodicesima domenica del T.O. anno C. Al re Giosia venivano affidate le speranze di Israele: aveva riconquistato la Samaria e promosso il rinnovamento religioso della nazione purificandola dall'idolatria. Giosia fu definito come "re santo" che però sembra non calcolare l'esiguità delle forze di Israele di fronte alla potenza egiziana e dunque muore trafitto; con lui sembrano morire le attese ei progetti religiosi e civili di un popolo. Ma Zaccaria invoca uno "spirito di grazia e consolazione", che possa rilanciare -senza il contributo e i "carismi" dell'uomo- ciò che era morto nel cuore dei credenti: la speranza.

Possiamo così individuare, nei testi di questa domenica, un invito a verificare la qualità della relazione che in noi sussiste fra fede e speranza: come si caratterizzano le nostre attese? La domanda ci interpella non tanto circa l'oggetto di queste ultime (qui sarebbe richiesto un discernimento non generalizzabile) ma in riferimento alle modalità delle relative attuazioni. Introducendoci alla meditazione su questi testi ci chiediamo infatti "che tipo di Salvatore stiamo aspettando". Una tale purificazione della naturale idea di Dio e dunque di salvezza che da Lui ci proviene si è resa necessaria per Israele come per gli apostoli. Quanto più il popolo legava la realizzazione delle sue pur legittime aspettative all'elemento umano, tanto più la pedagogia divina lo portava ad accorgersi che solo in Dio, "spirito di grazia e consolazione", è riposta la speranza. Quanto più gli apostoli assegnavano a Gesù un compito caratterizzato da un messianismo "vincente" alla maniera dell'uomo, sovrabbondante nella potenza, tanto più il Cristo annunciava loro le modalità della sua opera di salvezza: "deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani [...], venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Passiamo così da una conoscenza di Gesù secondo la carne ad una secondo lo Spirito. In questa purificazione ci divincoliamo, assieme agli apostoli, dalle insidie del tentatore che, partendo dalla nostra istintiva paura di morire vorrebbe "addolcire" la sequela suggerendoci di credere in un Dio che salva se stesso preservandosi dal dolore, dall'oltraggio e dalla morte e prospettando lo stesso disincarnato percorso anche a noi. Ecco spiegato il rimprovero di Gesù alla risposta di Pietro: si tratta di un vero e proprio disvelamento di una verità che "la carne" non avrebbe mai potuto favorire, è necessario lo Spirito.

Questo mi sembra possa essere un tentativo di lettura di ciò che sta accadendo nella Chiesa e nella sua relazione con il mondo contemporaneo. Stiamo sperimentando il dolore circa il comportamento di alcuni sacerdoti che hanno provocato ferite indelebili su tante giovani vittime. Insieme proviamo rabbia e vergogna per l'uso che viene fatto di tali notizie e per le generalizzazioni che facilmente ne provengono. Ci sentiamo attaccati ed infamati, messi con le spalle al muro... e se tutto ciò anziché dai nemici della Chiesa, fosse invece un dinamismo dello Spirito? Se questa fosse invece la strada di Dio attraverso cui Egli vuole che la sua Chiesa "reindossi" l'abito nuziale? S.Ignazio di Loyola così arrivava a descrivere alcune tecniche del tentatore nei suoi Esercizi spirituali:

13a regola del discernimento degli spiriti della prima settimana. Ugualmente, esso è come il falso innamorato che vuol restar segreto e non scoperto: infatti così come l'uomo falso, che parlando con cattiva intenzione corteggi la figlia di un onesto padre o la moglie di un onesto marito, vuole che le sue parole e persuasioni sian segrete; e viceversa molto gli dispiace, se la figlia discopre al padre o la moglie al marito le sue false parole e il suo intento perverso, in quanto facilmente si rende conto che non potrà riuscire nell'impresa cominciata: analogamente, quando il nemico della natura umana esplica le sue astuzie e persuasioni verso l'anima giusta, vuole e desidera che esse siano accolte e mantenute in segreto; ma molto gli pesa se le discopre al suo bravo confessore o ad altra spirituale persona, che ne conosca gli inganni e le malizie; in quanto si rende conto che non potrà riuscire nell'opera di malizia cominciata, perché i suoi manifesti inganni vengono scoperti.

Dunque è proprio del tentatore il tener nascosto mentre - lo ricordiamo - è proprio dello Spirito che tutto venga portato alla luce. Così questo speriamo possa essere uno dei frutti di questo anno sacerdotale appena concluso: che il Signore doni a tutti noi la consapevolezza di avere fra le mani un dono grande e fragile allo stesso tempo e parimenti ci ricordi che siamo stati salvati e redenti da una grazia a caro prezzo così come Dietrich Bonhoeffer così spelndidamente ci ricorda nel suo Sequela:

Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo per amore del quale l'uomo va a vendere con gioia tutto ciò che aveva, la pietra preziosa, per il cui valore il mercante dà tutti i suoi beni la signoria regale di Cristo, per amore del quale l'uomo strappa da sé l'occhio che lo scandalizza la chiamata di Gesù Cristo, per cui il discepolo abbandona le reti e si pone alla sua sequela. La grazia a buon mercato è grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato.Grazia a caro prezzo è il vangelo, che si deve sempre di nuovo cercare, il dono per cui si deve sempre di nuovo pregare, la porta a cui si deve sempre di nuovo bussare.

È a caro prezzo, perché chiama alla sequela; è grazia, perché chiama alla sequela di Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché costa all'uomo il prezzo della vita, è grazia, perché proprio in tal modo gli dona la vita; è a caro prezzo, perché condanna il peccato, è grazia, perché giustifica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata cara a Dio, perché gli è costata la vita di suo Figlio - «siete stati riscattati a caro prezzo» - e perché non può essere a buon mercato per noi ciò che è costato caro a Dio. E grazia soprattutto perché Dio non ha ritenuto troppo elevato il prezzo di suo Figlio per la nostra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia a caro prezzo è l'incarnazione di Dio. [...] L'intera vita di Pietro è compresa tra queste due chiamate. La prima volta, in seguito all'appello di Gesù, Pietro sul lago di Genezaret aveva abbandonato le sue reti e il suo lavoro, e lo aveva seguito fidando sulla sua parola. L'ultima volta il risorto lo incontra mentre nuovamente esercita il suo antico lavoro, ancora sul lago di Genezaret, e di nuovo gli dice: seguimi! Fra le due chiamate c'era tutta la vita del discepolo alla sequela di Cristo. Al centro di questa vita stava la confessione di fede in Gesù come il Cristo di Dio. Per tre volte, all'inizio, alla fine e a Cesarea di Filippi, a Pietro viene annunciata un'unica, medesima cosa, e cioè che Cristo è il suo Signore e il suo Dio. E la stessa e unica grazia di Cristo che lo chiama: seguimi!, e che gli si rivela nella confessione di fede nel Figlio di Dio. Si è trattato di una triplice sosta della grazia sul cammino di Pietro, l'unica grazia annunciata per tre volte in modi diversi; essa fu così la grazia di Cristo stesso, non certo una grazia che il discepolo abbia accordato a se stesso. E stata sempre l'unica grazia di Cristo, che ha vinto il discepolo inducendolo ad abbandonare tutto per amore della sequela, che ha operato in lui una confessione di fede che al mondo non poteva sembrare che blasfema, che ha chiamato l'infedele Pietro alla comunione estrema del martirio, rimettendo così ogni suo peccato. Per la vita di Pietro, grazia e sequela sono inscindibili. Egli aveva ricevuto la grazia a caro prezzo [...].Solo chi ubbidisce crede. Si deve prestare ubbidienza ad un comando concreto perché si possa credere. Si deve fare un primo passo dell'ubbidienza, perché la fede non si riduca a un pio autoinganno, a grazia a buon mercato. Tutto sta nel primo passo. Esso è qualitativamente diverso da tutti gli altri successivi. Il primo passo dell'ubbidienza deve strappare Pietro alle sue reti, farlo uscire dalla barca, deve staccare il giovane ricco dai suoi beni. Solo in questa nuova esistenza posta in atto dall'ubbidienza è possibile credere [...].

Pietro non può convertirsi, ma può lasciare le reti.

 

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