TESTO Quello sguardo che vince ogni contabilità
X Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (09/06/2002)
Vangelo: Mt 9,9-13
In quel tempo, 9mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Un uomo, solo, seduto al banco delle imposte. Uno sguardo che incrocia il suo, una parola sola: Seguimi. E Matteo è naufragato in quegli occhi; il contabile abbandona, per uno sguardo, per una parola, la logica rassicurante del dare e dell'avere, se ne va dietro a quell'uomo senza calcolare più nulla, senza neppure domandarsi dove sia diretto.
Vorrei tanto conoscere le emozioni di Matteo, l'energia misteriosa di quelle parole, che cosa lo sedusse; ma Matteo non parla di sé, il centro della scena deve essere di Cristo: Segui Me. E queste parole senza perché, questa mancanza di ragioni, sono la vera ragione del discepolo. È la persona di Cristo la causa, il senso, l'orizzonte ultimo. È Lui il nome della forza che fa partire. E se Matteo potesse rispondere, direbbe che si è convertito a Cristo, perché ha visto Cristo convertirsi a lui, fermarsi e girarsi dalla sua parte; e io ho più di Matteo, di Cristo io ho la croce. Direbbe che no, non è stato un sacrificio; mi parlerebbe del piacere dell'essere discepolo, del piacere del credere. Ma l'avevo già intuito, leggendo di quella casa piena di festa, di volti, di amici, molti si premura di dirmi, e peccatori, chiamati ben prima di essere convertiti. Convertiti perché chiamati. Non voglio sacrifici! La religione non è sacrificio: guarisce la vita, la fa risplendere; non è la mortificazione che dà lode a Dio, ma la vita piena, forte, vibrante. Gesù mangia con me e mi assicura che il principio della salvezza non è nei miei digiuni per lui, bensì nel suo mangiare con me. Ci guarisce fermandosi con noi: la sua vicinanza è la medicina, il condividere vita, pane, festa, strada, sogni, comunione. Solo la comunione dà la felicità, così nel matrimonio, così nella fede. Voglio l'amore! Grido di Dio e dell'uomo.
Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. Qual è il merito dei peccatori? Nessuno. Sono coloro che non ce la fanno, che non sono all'altezza, ma scoprono un Dio più grande del loro cuore. Dio non si merita, si accoglie. Gesù ancora cerca il peccatore che è in me. Assolvere una lista di peccati, per quanto lunga e impressionante, non gli basta. Vuole impadronirsi della mia debolezza profonda. E lì incarnarsi. Beata debolezza! E io, felice d'essere debole, dimoro quietamente nella misericordia, verso un Regno pieno non di santi, ma di peccatori perdonati, di gente come noi. Quando sono debole è allora che sono forte. Nessun lassismo però. Vuoi restare nel peccato perché abbondi la grazia? Assurdo (Rom 6,1). Ma oggi mi godo la festa del peccatore che ha scoperto un Dio più grande del suo cuore. Solo questo mi converte ancora.