TESTO Commento su Luca 22,14-23,56 (forma breve: Luca 23,1-49)
Domenica delle Palme (Anno C) (28/03/2010)
Vangelo: Lc 22,14-23,56 (forma breve: Lc 23,1-49)
14Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, 15e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». 17E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, 18perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». 19Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». 20E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi».
21«Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. 22Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a quell’uomo dal quale egli viene tradito!». 23Allora essi cominciarono a domandarsi l’un l’altro chi di loro avrebbe fatto questo.
24E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. 25Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. 26Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. 27Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve.
28Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove 29e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, 30perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele.
31Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; 32ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». 33E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». 34Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi».
35Poi disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». 36Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. 37Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento». 38Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli disse: «Basta!».
39Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. 40Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». 41Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde in ginocchio e pregava dicendo: 42«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». 43Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. 44Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. 45Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. 46E disse loro: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».
47Mentre ancora egli parlava, ecco giungere una folla; colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, li precedeva e si avvicinò a Gesù per baciarlo. 48Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?». 49Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». 50E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. 51Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate! Basta così!». E, toccandogli l’orecchio, lo guarì.
52Poi Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Come se fossi un ladro siete venuti con spade e bastoni. 53Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre».
54Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. 55Avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche Pietro sedette in mezzo a loro. 56Una giovane serva lo vide seduto vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: «Anche questi era con lui». 57Ma egli negò dicendo: «O donna, non lo conosco!». 58Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei uno di loro!». Ma Pietro rispose: «O uomo, non lo sono!». 59Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questi era con lui; infatti è Galileo». 60Ma Pietro disse: «O uomo, non so quello che dici». E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. 61Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». 62E, uscito fuori, pianse amaramente.
63E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo picchiavano, 64gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?». 65E molte altre cose dicevano contro di lui, insultandolo.
66Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i capi dei sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al loro sinedrio 67e gli dissero: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi». Rispose loro: «Anche se ve lo dico, non mi crederete; 68se vi interrogo, non mi risponderete. 69Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo siederà alla destra della potenza di Dio». 70Allora tutti dissero: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?». Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono». 71E quelli dissero: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca».
1Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato 2e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re». 3Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». 4Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna». 5Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui».
6Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo 7e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.
8Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. 9Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. 10Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. 11Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. 12In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia.
13Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, 14disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; 15e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. 16Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». 17[..]
18Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». 19Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio.
20Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. 21Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». 22Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». 23Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. 24Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. 25Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere.
26Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù.
27Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. 28Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. 29Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. 30Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. 31Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?». 32Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori.
33Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. 34Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte.
35Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». 36Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto 37e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». 38Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
39Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». 40L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? 41Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». 42E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». 43Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
44Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, 45perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. 46Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.
47Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». 48Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. 49Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo.
50Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto. 51Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatea, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. 52Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. 54Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato. 55Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, 56poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto.
Questo brano ci presenta l'ultima cena e l'istituzione dell'Eucaristia. È il banchetto in cui ci nutriamo di Cristo, facciamo memoria della sua passione, ci abbeveriamo del suo Spirito e riceviamo il pegno della gloria futura. Questo racconto è il nucleo genetico di tutto il vangelo: "Fate questo in memoria di me" (v. 19).
I fratelli, riuniti a mensa, celebrano la memoria del Signore morto e risorto, asceso al cielo e presente in mezzo a loro; mangiano la sua Pasqua nell'attesa del suo ritorno. Nell'Eucaristia si coglie il significato di tutto quanto Gesù ha detto e fatto, e si vede il compimento della Legge, dei Profeti e dei Salmi. In essa Dio ci dà il dono dei doni: ci dona se stesso. Qui il suo amore per noi raggiunge il suo fine: si unisce a noi e si fa nostra vita. È il punto di arrivo di tutta la creazione che si congiunge al suo Creatore. Qui vediamo e gustiamo l'umiltà di Dio che, per essere desiderato da colui che egli ama, si fa suo bisogno fondamentale: pane. E siccome uno diventa ciò che mangia, mangiamo il Figlio e diventiamo figli. Veramente l'eucaristia ci divinizza.
Facendo memoria di questo grande dono, viviamo sempre in rendimento di grazie al Padre e attingiamo la forza per vivere da fratelli, in umiltà e servizio reciproco. Questo è il pane che ci dà la forza per il lungo viaggio che ci porterà al monte di Dio dove lo contempleremo faccia a faccia. L'eucaristia ci introduce nell'eterno "sì" di compiacenza e d'amore tra Padre e Figlio. E questa è la vita eterna.
In tutte le religioni c'è il sacrificio dell'uomo per Dio. Nel cristianesimo invece sta al centro il sacrificio di Dio per l'uomo. E di questo facciamo memoria e ringraziamento nell'eucaristia.
È l'ora in cui si mangia la Pasqua, al tramonto del sole. Ma questa Pasqua è il compimento di tutto il disegno di Dio: egli si consegna all'uomo come sua vita, e la creatura vive del suo creatore. L'ora del dono di Dio coincide con l'ora del male del mondo (v. 53). Al colmo del male dell'uomo corrisponde il massimo dell'amore di Dio.
Gli apostoli sono quelli che stanno con lui. Non perché sono bravi, ma perché Gesù desidera stare con loro, suoi fratelli perduti. Stare con il Figlio è la nostra vita, la pienezza del dono pasquale che viviamo nell'Eucaristia. Gran parte del vangelo di Luca presenta Gesù a tavola con i peccatori.
Il suo grande desiderio è il traboccare del suo grande amore. "La sua brama è verso di me" (Ct 7,11). Nell'Eucaristia si sazia il desiderio di Cristo perché il suo amore è accolto e si fa cibo del nostro desiderio di lui: "Chi mangia me, vivrà per me" (Gv 6,57). Nel corpo di Gesù, donato per noi, si consuma l'amore di Dio per l'uomo. Dio riposa nell'uomo e l'uomo in Dio, in comunione di vita e d'amore.
Gesù ha desiderato ardentemente mangiare la sua Pasqua con i Dodici, dei quali uno lo tradisce, uno lo rinnega e dieci fuggono abbandonandolo solo nel momento del bisogno. Il suo amore dovrà portare il male di coloro che ama.
È l'ultima sua cena pasquale ebraica. Il segno cessa e cede il posto alla realtà: la cena del Signore. All'agnello offerto dall'uomo a Dio succede l'Agnello offerto da Dio all'uomo, il Figlio stesso che dà la sua vita per la salvezza del mondo.
La Pasqua si compie nel regno di Dio. L'eucaristia è solo un anticipo della gloria futura, quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). La distanza tra Eucaristia e Regno è il motivo della missione al mondo, perché tutti i fratelli vivano del pane dei figli.
Gesù risorto desidera sempre spezzare il pane con i suoi discepoli. Lo fa ogni volta che i suoi lo invitano a restare con loro, come i discepoli di Emmaus (24,29).
Il calice della benedizione offerto da Gesù, che passa tra i commensali dopo la consumazione dell'agnello, è il terzo nella cena pasquale. Mentre i discepoli bevono l'ultimo calice della pasqua antica, Gesù dà loro appuntamento nel Regno dove insieme berranno il calice della gioia eterna.
Il prendere il pane da parte di Gesù non è una rapina, come quella di Adamo, ma rendimento di grazie (eucaristia) al Padre, fonte della sua vita. Questa sua vita ricevuta in dono dal Padre egli la dona ai fratelli perché ne vivano. Il vero e definitivo agnello pasquale, che Dio dona all'uomo, è suo Figlio. Tutta la vita di Gesù è rivelazione di Dio. Il suo corpo dato per noi ne è il vertice: Dio si manifesta come puro dono di sé, amore assoluto.
Fare memoria di lui significa vivere oggi del suo dono, fare del suo amore crocifisso la nostra vita. Questo pane è il mistero della fede: il pane del Regno, il dono del Figlio che ci introduce nella vita del Padre.
La gioia del vino, frutto della terra promessa, è sostituita dal sangue del Figlio. La nuova alleanza subentra all'antica. Ci dissetiamo con ebbrezza alla fonte della vita.
L'antica alleanza è stata sempre rotta dalla nostra infedeltà. Ma la maledizione che si sarebbe dovuta abbattere su di noi (Ger 34,18) è ricaduta su di lui. Qualunque cosa gli facciamo, il suo amore resta fedele in eterno. Finalmente conosciamo chi è Dio per noi: amore assoluto e senza condizioni. E conosciamo anche chi siamo noi per lui: figli amati e perdonati in eterno nel Figlio. Da qui nasce la nuova legge, scritta nel cuore. Questo amore infatti ci dà la libertà di corrispondervi; ci abilita ad amare come lui ci ha amati.
Chi celebra l'Eucaristia si sente domandare come al lebbroso guarito: "E gli altri nove dove sono?" (Lc 17,17). La missione scaturisce dall'amore di Cristo, che ci spinge verso tutti (2Cor 5,14), fino agli estremi confini della terra. L'Eucaristia, vertice e principio della vita cristiana, ci apre sempre agli altri.
I vv. 21-38 contengono le parole di addio di Gesù, il suo testamento. La Chiesa, riunita attorno alla mensa, esamina se stessa. L'Eucaristia è il giudizio di Dio sul mondo, un giudizio di salvezza, che evidenzia il peccato da cui ci libera. Il dono del suo amore è come lo specchio della verità, nel quale vediamo il nostro egoismo. Il Signore si dona a una comunità che lo tradisce, non capisce, fugge e lo rinnega.
Dividiamo il discorso in due parti (vv.21-30 e 31-37). In questa prima parte il tono è dato dal tradimento di Giuda (vv. 21-23), dove si consuma il mistero di iniquità dell'uomo. I vv. 24-27 mostrano che tutti i discepoli hanno la loro quota di partecipazione a questo male, per riscattarci dal quale Cristo si fa servo e muore. Mentre lo spirito del demonio ci fa cercare l'autoaffermazione e il dominio, lo Spirito di Gesù ci fa conoscere il vero modo di realizzarci a immagine di Dio. L'Eucaristia denuncia il male dell'uomo e dona il bene di Dio. Tutta la Chiesa, rappresentata dai Dodici, mangia e beve il pane e il vino del Regno, che l'associano allo stesso destino di passione e di gloria del suo Signore (vv. 28-30).
Dio si consegna a chi lo prende e lo consegna ai suoi nemici; si dona a chi lo ruba e lo butta via. Il tradimento di Giuda non è un gesto mostruoso e unico. Giuda è nostro fratello. Compie quel male che tutti noi compiamo, si comporta secondo il buon senso che porta a cercare il proprio interesse e la propria affermazione. È Gesù che l'ha deluso, perché segue un'altra via. Il vero peccato di Giuda, più che quello di tradire Gesù, fu quello di pensare: "Ho sbagliato, quindi pago!", e di non accettare il suo amore gratuito. La salvezza è accogliere il fatto che lui mi ama gratis e muore per me peccatore. La nostra libertà non è tanto quella di non fare il male, ma quella di non rifiutare il perdono.
Il Signore si dona a una comunità sempre aperta al tradimento. Sulla stessa tavola di salvezza c'è sempre il nostro peccato e il suo perdono.
Il male dell'uomo non distrugge il bene di Dio, ma lo realizza in un disegno più ampio e meraviglioso (At 2,23; 3,18; 4,28...). Qui non si intende dire che Giuda abbia dovuto recitare un copione già fissato, in cui gli tocca la parte più brutta. L'uomo fa il male liberamente, o meglio, perché schiavo dell'ignoranza! Ma Dio l'ha già previsto; e, nel suo amore, ha fissato il suo piano di salvezza: il Figlio dell'uomo se ne andrà portando su di sé il male dei fratelli.
"Ahimè per quell'uomo" non è una minaccia. Gesù ama Giuda. Se l'amore si misura dal bisogno, Giuda in questo momento è amato più di tutti i discepoli. Gesù semplicemente gli fa prendere coscienza del male che egli si sta facendo, e per il quale lui soffre. Dice "ahimè" perché il male dell'amato ricade su chi ama. La croce di Gesù è l'"ahimè" di Dio per il male del mondo. Esso è così grave, da distruggere il senso della creazione: è infatti meglio non essere nati (Mc 14,2 l; Mt 26,24). Gesù è morto per il peccato di Giuda, e la sua morte è il prezzo di ogni peccato. Quando diciamo che siamo salvati significa che veramente eravamo perduti. Giuda, come ogni uomo, più che autore è attore del male. Vittima del male per ignoranza, ne diventa pure suo veicolo (Lc 23,34; At 3,17).
Ognuno cerca nell'altro il colpevole. La salvezza non viene dal denunciare il peccato altrui (Gen 3), ma dal riconoscere il proprio. Giusto non è colui che si giustifica, ma chi riconoscendosi ingiusto accetta di essere giustificato per grazia. La lite che segue mostra come tutti i discepoli hanno il medesimo male dei capi di questo mondo e di Giuda stesso: la ricerca del proprio io al di sopra di tutto e di tutti.
Questa contesa sulla preminenza dei discepoli si svolge nel quadro dell'ultima cena, alla presenza di Gesù che se ne va alla morte per tutti.
L'ordine delle precedenze nella comunità dei discepoli di Gesù ha tutt'altro significato che tra i pagani infedeli. Tra questi, chi ha il potere di sottomettere gli altri, li sottomette allo scopo di essere l'unico a detenere l'autorità e così dominare incontrastato. E' un'ironia che "dominatori" di questo genere si facciano per giunta chiamare "benefattori".
L'imperatore romano fin dal tempo di Augusto portava il titolo di "salvatore e benefattore del mondo". La brama di dominare si presenta così sotto la maschera dell'amicizia e della beneficenza. Mentre in realtà, la regalità del mondo è dominio che toglie la libertà e rende schiavi.
Anche nella comunità cristiana esiste, per volontà di Cristo, una "gerarchia". Ma chi ha l'autorità nella comunità, deve sapere che non è il padrone di essa, ma il servo. Ogni potere, in Cristo, è un servizio.
La bramosia di vincere, il desiderio di prevalere sull'altro è all'origine di ogni guerra e lotta tra gli uomini.
La lunga catechesi che dura dall'inizio del vangelo non sembra aver cambiato ancora molto il cuore dei discepoli! Davanti a Gesù che si umilia fino alla morte di croce, si evidenzia il peccato del mondo: il protagonismo. Tutte le divisioni tra gli uomini e nella Chiesa, anche se camuffate in infiniti modi, nascono da quest'unica fonte: l'autoaffermazione. E' l'egoismo, frutto mortale del veleno del serpente. E Gesù si dona proprio a questi discepoli. Il pane della sua umiltà e del suo nascondimento è antidoto al lievito dei farisei.
Tutte le lotte tra gli uomini sono sempre per questo "sembrare più grande". L'idolatria è la ricerca di questa apparenza, propria di chi ignora la sua verità e quella di Dio. Il protagonismo è la malattia infantile dell'uomo che non si sente amato e non sa amare. E' la regola di azione per il mondo e il principio di ogni male.
Lo Spirito di Cristo, rivelato e donato nell'Eucaristia, è amore che si attua nella povertà, nel servizio e nell'umiltà. E' il contrario di quello del mondo.
San Paolo scrive: "Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo" (Fil 2,3-5).
"Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (v. 27). E' la più bella definizione che Gesù dà di se stesso, la vera rivelazione della sua divinità. Dio è amore. E l'amore è servizio.
La presenza di Gesù tra noi sarà sempre quella del servo. Il punto fondamentale della fede è accettare che lui ci serva e ci lavi i piedi. Il cristiano è colui che riconosce come sorgente della sua vita il servizio gratuito del Signore: solo così può avere parte con lui e amare come lui ha amato.
Chi condivide con Cristo la fatica, condividerà anche la gloria. In uno degli inni più antichi che i cristiani cantavano a Cristo, troviamo queste parole: "Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso" (2Tim 2,11-13).
L'Eucaristia, unendoci a lui, ci apre al futuro definitivo: "Io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e sederete in trono a giudicare le dodici tribù d'Israele" (v. 30). Sederemo con lui da re, con il suo stesso potere di giudicare, cioè di salvare il mondo. Lui infatti è il giudice che non è venuto per giudicare, ma per salvare tutti nel suo sangue.
È l'ultima parte delle parole di addio di Gesù, del suo testamento. Egli prevede la situazione dei suoi nell'ora della prova. Conosce la difficoltà di Pietro (vv. 31-34) e di tutti (vv.35-38) quando lui, come sta scritto, condividerà la sorte dei malfattori.
"Percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse" (Mc 14,27). Luca pone in risalto la posizione di Pietro: satana lo vaglia come si vaglia il grano. Ma Gesù ha già pregato perché nella sua caduta, invece di disperdersi, speri in lui. È bene che Pietro fallisca. La frana dei suoi buoni desideri lascerà emergere dalla rovina la roccia salda che non crolla: la fedeltà del suo Signore. Nei suoi buoni propositi è nascosto un male sottile dal quale deve essere liberato e salvato. Si tratta dell'orgoglio e dell'autosufficienza. È il peccato più grave, addirittura l'essenza di ogni peccato.
Pietro passerà dalla propria giustizia e dal proprio amore per il Signore alla giustificazione e all'amore del Signore per lui. Non sarà lui a morire per Cristo, ma Cristo a morire per lui.
La salvezza non è il mio amore per Dio, ma l'amore di Dio per me. In questa circostanza Pietro compie il difficile passaggio dalla Legge al Vangelo, dall'Antico al Nuovo Testamento, per giungere alla conoscenza di Gesù come suo Signore, che l'ha amato e ha dato se stesso per lui (Fil 3,8; Gal 2,20). È il nocciolo della fede cristiana.
Il discepolo non è più bravo degli altri. È peccatore come tutti. Ma è contento perché sa che il Signore lo ama: ha riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per lui (1Gv 4,16). Questo è il vero principio della vita nuova.
"Il giusto vivrà di fede" (Rm 1,17; Ab 2,4) significa che il giusto vive della fedeltà del Signore verso di lui: nulla può separarlo dall'amore che Dio ha per lui in Cristo Gesù (Rm 8,39). Questa fede è incrollabile perché poggia non sulla fedeltà dell'uomo a Dio, ma sulla fedeltà di Dio all'uomo. Neanche il peccato e la morte sottraggono l'uomo a Dio, perché lui si è fatto peccato e morte per noi, per essere nostra giustificazione e vita.
Pietro, dopo aver sperimentato e capito tutte queste cose, avrà la funzione di confermare i suoi fratelli in questa fede nella fedeltà di Dio, che è il fondamento della Chiesa.
Il v. 31 è la vera chiamata di Pietro. In Luca è la prima volta che Gesù lo chiama per nome e per ben due volte. È una vocazione solenne, come quella di Abramo, di Mosè, di Samuele, di Marta e di Saulo.
Satana, come entrò in Giuda, così cerca di entrare in tutti i discepoli. La sua azione, della quale fa richiesta a Dio (Gb 1,6), non sarà che un'azione di vaglio. Gli è permesso di agire, ma Dio se ne serve per il bene. Separerà il frumento dalla pula. Purificherà la fede dei discepoli, conducendoli a quella infedeltà che offrirà loro la possibilità di una fede più pura: accettare di vivere solo della fedeltà del Signore.
In forza della sua preghiera Gesù non garantisce a Pietro l'impeccabilità, ma l'indefettibilità nella fede. Questa consiste nel fondare la propria vita nella sua misericordia. Pietro sbaglierà, ma si convertirà. La sua esperienza di infedeltà gli farà conoscere meglio se stesso e il suo Signore. Così sarà in grado di rendere incrollabile la fede dei suoi fratelli che attraverseranno le sue medesime difficoltà. La sua funzione, dirà lui stesso, non è quella di spadroneggiare sul gregge a lui affidato, ma di essere modello di umiltà e di confidenza nel Signore (1Pt 5,1ss).
Pietro è un uomo dai grandi desideri. Ma confida nella carne. E la sua carne è debole. Non si può porre la fiducia in essa, ma in colui che "ha il potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare (Ef 3,20). Egli, nella nostra debolezza, manifesta la sua forza (2Cor 12,9).
Ora Gesù chiama Simone col suo nome nuovo, che significa "roccia", attributo di Dio nella sua sicurezza e fedeltà. Lo chiama così proprio mentre gli predice la sua sicura infedeltà.
Colui che deve confermare nella fede i fratelli, prima rinnegherà tre volte di conoscere Gesù. Ed è vero che egli non lo conosceva, perché non lo conosceva per quello che era veramente. Solo dopo lo conoscerà come "Gesù", che significa "Dio salva". La sua esperienza è normativa e indispensabile per giungere alla fede nel Salvatore.
Gesù ricorda ai discepoli le due volte che li inviò a predicare in povertà (9,1ss; 10,1ss). Tutto andò bene. L'esperienza passata deve essere motivo di fiducia in questo momento decisivo della passione.
Gesù è sempre stato contro il possesso e la violenza. Quindi le parole riguardanti la borsa e la spada sono da intendere come delle immagini che cercano di illustrare la grandezza della necessità che incombe. Perciò sono un appello alla fede dei discepoli, anche in vista di un futuro difficile. Gesù non esorta alla lotta armata, ma ad avere come unica protezione la fede nella parola di Dio. Essa è infatti la spada dello Spirito (Ef 6,17; Eb 4,12) che esce dalla bocca del Cristo (Ap 1,6). È l'arma d'attacco: la verità che vince la menzogna, la fiducia che dissolve la paura.
"Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori". È la sintesi delle Scritture che si compiono in Gesù. Con la citazione di Is 53,12, Gesù dice il perché della sua morte. Egli è il Servo sofferente di Iahvè, il giusto che porta su di sé l'iniquità del popolo e giustifica le moltitudini. Queste parole sono molto importanti per Luca. Sono la spiegazione anticipata della croce, che il Risorto continuerà dopo Pasqua. Questa breve citazione è il nocciolo di tutta la Scrittura che in Gesù trova compimento: si è fatto peccato e maledizione per salvare noi dalla maledizione del peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21). Queste parole chiariscono il significato salvifico della sua morte: ne sono l'interpretazione teologica autentica, fatta da lui stesso.
Ciò che riguardava Gesù è l'essere nelle cose del Padre suo (2,49). Ora si compie nella sua consegna totale a lui (23,46). La sua missione è ormai prossima alla conclusione.
I discepoli non hanno capito di che spada c'è bisogno. Invece della spada della Parola, hanno in mano due spade inutili e dannose. Gesù tronca il discorso. Con la sua agonia, nell'orto degli Olivi, mostrerà a tutti qual è la spada necessaria: l'abbandono fiducioso alla volontà del Padre.
Nella trasfigurazione del Tabor, il Padre chiamò Gesù: "Figlio"; nella trasfigurazione del giardino degli Ulivi il Figlio lo chiama: "Padre". Là l'umanità lasciò trasparire la bellezza della divinità; qui la divinità riveste l'orrore della nostra disumanità. Gesù affronta la morte in tutta la sua drammaticità, così come ognuno di noi la sperimenta dopo il peccato: fine della vita, abbandono di ogni bene e di Dio stesso.
Da questa maledizione, in cui vive l'angoscia senza limiti dell'annientamento, Gesù si rimette con fiducia filiale nelle braccia del Padre. Ormai dalla perdizione assoluta si eleva a lui la voce del Figlio. In questa voce ogni uomo, che non può fuggire oltre, invoca il Padre e ritorna a casa. Dio entra in tutte le notti dell'uomo. Noi, con i discepoli, siamo invitati a tenere gli occhi aperti sul dolore di Dio per il mondo: "Restate qui e vegliate" (Mc 14,34). Da qui impariamo a conoscere chi è Dio.
La preghiera, di cui Gesù ci dà l'esempio, è la forza per vivere la morte, anche violenta, come segno di obbedienza al Padre della vita.
Il centro del brano è la lotta per passare dalla "mia" alla "tua" volontà. È la vera guarigione dal male originario dell'uomo, il ritorno di Adamo al suo rapporto filiale con il Padre. Gesù, fattosi per noi peccato (2Cor 5,21), vive in prima persona la paura del peccatore: consegnarsi a Dio. La vera lotta è con lui, che per il peccato consideriamo nemico. Per questo la nostra vittoria è la resa a lui. Il Figlio è colui che compie la volontà del Padre. Per questo "nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà". Non fu però esaudito, nel senso che fu esentato dalla morte; fu invece esaudito con la risurrezione, solo dopo aver accettato con obbedienza filiale la morte. Infatti "pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,7ss).
La paura di essere ucciso non fa cambiare itinerario a Gesù. La sua vita non è dominata dalla paura della morte (12,4), ma dalla fiducia nel Padre, anche nella prova estrema.
Il monte degli Ulivi insieme al tempio costituiscono lo scenario degli ultimi giorni di Gesù. Al Getsemani, luogo del torchio, l'umanità di Gesù, spremuta, lascerà apparire la sua essenza: è il Figlio di Dio, che si abbandona al Padre e ai fratelli.
I discepoli sono chiamati a seguirlo sino alla fine: "Voi siete infatti quelli che sono rimasti con me nelle mie tentazioni" (v. 28). La tentazione di cui parla è quella definitiva: perdere la fede. Gesù indica loro l'unica forza per non soccombere: la preghiera.
Nel momento decisivo, l'uomo è staccato da tutti, solo davanti a Dio, suo unico interlocutore. Di solito gli ebrei pregavano in piedi. Ma davanti alla morte, Gesù si inginocchia al cospetto del mistero di Dio. Così faranno anche i suoi discepoli (At 7,60; 9,40; 20,36; 21,5).
La parola Padre traduce l'aramaico Abbà (Mc 14,36). Alla fine di tutto, resta come unica sorgente di vita per Gesù la fiducia nel Padre, suo principio. Questo abbandono filiale al Padre nel momento della morte è la fede che salva. L'accettazione della morte è l'atto più radicale di fede che possiamo fare a Dio.
Gesù ha sperimentato il terrore e l'angoscia della morte, una morte violenta, ingiusta, insensata, in cui l'innocente è messo con i malfattori (v. 37). In questa sua morte Gesù, il Figlio, porta su di sé il peccato dei fratelli. Gesù soffre la decisione di bere questo calice, che contiene realmente tutto il male possibile. Sente tutta la ripugnanza della carne segnata dal peccato e dominata dalla paura della morte.
Gesù porta in sé la maledizione di ogni peccato: l'opposizione tra la nostra volontà e quella di Dio. Colui che non conobbe peccato ne subisce tutte le conseguenze e vive in sé questa sofferenza, più atroce della morte stessa.
Nell'ora della paura il Padre non ci lascia soli. Manda il suo angelo che infonde forza (Dn 3,49-50; 10, 18-19; 1Re 19,1-8; At 12,7-8). La nostra debolezza è il vaso che contiene la sua forza. Per questo Paolo dice: "Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo", e "quando sono debole è allora che sono forte". Infatti la potenza del Signore si manifesta pienamente nella mia debolezza (2Cor 12,9-10).
Agonia significa lotta. Nello scontro con la morte ogni uomo si sente perdente e perduto. Gesù invece prega più intensamente, affidandosi al Padre. La preghiera ci mette in comunione con il Padre della vita. Per questo è la forza che vince la morte. Ma questa stessa preghiera è lotta. Lotta tremenda con Dio, percepito come l'unico e misterioso nemico (Gen 32,23ss).
Dopo il peccato, Adamo si guadagna la vita con il sudore della fronte (Gen 3,19). Il nuovo Adamo, Cristo, ci guadagna la vita eterna con il suo sudore di sangue.
La preghiera ci dona la forza di vivere la morte come abbandono a Dio, sorgente della vita. La preghiera vince la morte perché ci mette con il Figlio nelle braccia del Padre che ci genera. In questo modo la morte non è la voragine che ci inghiotte, ma l'incontro con il Padre che ci accoglie nella vita eterna.
Il brano è strutturato dalla contrapposizione tra Gesù e tutti gli altri. Da una parte c'è lui. È solo, circondato dai nemici, tradito da Giuda, non compreso dai suoi, catturato come un brigante. Dall'altra c'è un gioco di denari, di spade, di bastoni e di falsi baci: le carte, con le quali il nemico da sempre gioca la partita della storia umana. Dio, che è amore e dono, viene incontro all'uomo egoista e bramoso di possedere. Il bene si consegna al male che lo prende. Così la luce entra nelle tenebre e la vita nella morte.
In Luca, dopo Pietro, Giuda è l'unico dei Dodici chiamato per nome da Gesù. È segno di amicizia. Anche se lo tradisce, gli resta amico. Anzi, è l'unico chiamato "amico", e proprio in questa situazione (Mt 26,50). Luca non dice che Giuda baciò il Signore. Riferisce invece queste parole di Gesù. Suonano stupore e maraviglia. Un gesto che esprime ogni bene è stravolto nel suo contrario. L'atto con cui Giuda consuma il suo tradimento è lo stesso con cui Gesù esprime il suo affetto. Bene e male si incontrano, percorrendo in senso inverso la stessa strada.
I discepoli non hanno ancora capito le parole di Gesù sulla spada (vv. 35-38). Sono ancora nella logica del nemico. Gesù reagisce alla violenza con l'amore, unica forza capace di vincerla, invece di moltiplicarla. Egli fa quanto ha comandato a noi: "Amate i vostri nemici..." (6,27-38). Non è come gli zeloti che rispondono al male con gli stessi strumenti. Vince il male con il bene (Rm 12,21). Infatti il Figlio è misericordioso come il Padre, benevolo verso i disgraziati e i cattivi (6,35-36). La salvezza che egli porta consiste nel fare misericordia a tutti, anche a chi gli fa del male.
Usando la spada, i discepoli sono ancora alleati dei nemici. Quante difese sbagliate di Gesù, che non rientrano nel suo Spirito! Se la fede viene dall'ascolto (Rm 10,27), la spada di Pietro è figura di tutti i nostri strumenti pastorali che impediscono l'ascolto e la fede, perché mozzano gli orecchi, invece di aprirli all'ascolto della Parola.
"Adesso smettete" sono le ultime parole di Gesù ai suoi discepoli prima della risurrezione. Egli non approva l'azione violenta. La spada non vince, ma moltiplica il male. La potenza e la violenza non servono al Regno. Anzi lo ritardano, perché precludono al presunto nemico la possibilità di convertirsi. Il messianismo di Gesù consiste nel curare dal male facendo del bene (7,18-23; At 10,38). Anche a chi in quel momento gli è nemico. Questo è l'ultimo miracolo di Gesù. È il segno più grande della sua misericordia, compiuto verso uno che sta lì in prima fila per catturarlo.
Gesù è trattato da malfattore: è al giusto che tocca portare l'ingiustizia. Il potere delle tenebre non ama la luce. Agisce nel nascondimento della notte. La morte di Gesù è l'ora del nemico, l'apice del potere del male. Ma cosa succede alle tenebre quando si impossessano della luce?
In Luca, dopo l'arresto, tutta la notte è occupata dal rinnegamento di Pietro e dal dileggio dei soldati. Solo al mattino, dopo che il discepolo avrà detto: "Non sono", uscirà la rivelazione di Gesù che dice: "Io sono".
Il racconto è tutto un gioco di occhi fissati su Pietro. Nello sguardo di Gesù egli riconoscerà le due verità complementari che costituiscono il Vangelo: il proprio peccato e il suo perdono.
Finalmente conosce insieme se stesso e Dio. Perdendo la sua identità presunta, troverà quella autentica: l'amore del suo Signore per lui. Il suo pianto sarà il suo battesimo, che gli purificherà il cuore e gli illuminerà gli occhi. D'ora in avanti Gesù non farà più niente. Finita l'azione, comincia la passione. Il Figlio dell'uomo diventa un oggetto nelle mani dell'uomo. È preso, consegnato, condotto, introdotto, condotto via e infine crocifisso. Faranno di lui ciò che vorranno. Dio, nel suo amore umile, si fa piccolo e si riduce all'impotenza per consegnarsi nelle nostre mani. E noi riverseremo su di lui tutto il male di cui siamo malati.
Pietro segue Gesù perché gli vuole bene. Tiene conto del proprio amore, ma non ancora della propria fragilità. "Dare la vita non è della debolezza umana, ma della potenza divina (s. Ambrogio). Lo seguirà nel martirio solo quando confiderà in lui invece che in se stesso.
Per mezzo di una donna e di due uomini, Pietro subirà tre tentazioni, come Gesù nel deserto. Verrà vagliato. Perderà le scorie della propria presunzione e rimarrà il grano pulito: la fedeltà del suo Signore, di cui il giusto vive. Mentre Gesù svela la sua identità, Pietro scopre la propria: è un peccatore per il quale il Signore muore.
In verità Pietro non conosce questo Gesù. Conosce un altro. Quello potente, quello che fa miracoli. Ancora non sa che cosa significhi stare con questo Gesù, impotente e condotto alla croce. La prima tentazione di ogni credente è proprio quella di non conoscere o di voler dimenticare Gesù crocifisso (Gal 3,1; Fil 3,18). Molti stanno con lui fino allo spezzare del pane. Tutti poi l'abbandonano! Il centro della fede cristiana, il problema serio, è conoscere Gesù e stare con lui, che è il Crocifisso per me.
Paolo scrive: "lo ritenni di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo e questi crocifisso" (1Cor 2,2).
Le parole di Pietro: "Non sono" assumono tutto il loro peso davanti a quelle di Gesù che dirà: "Io sono (v. 70). "Io sono" è il nome di Dio, colui che è; "non sono" è il nome dell'uomo che non sta con colui che è. Pietro scopre la propria verità. È il "non sono", l'inesistente, se non sta con colui del quale è immagine e somiglianza.
Come una marea montante, l'ostilità attorno a Pietro cresce fino a sommergerlo. Ora Pietro dichiara la sua estraneità assoluta nei confronti di Gesù.
Solo Gesù vince tutte le tentazioni (4,23). Noi cadiamo in tutte. Ma proprio e solo così comprendiamo che abbiamo bisogno di essere salvati, e sappiamo chi è il Signore che ci salva. Il nostro peccato è l'unica via attraverso la quale sperimentiamo Dio come misericordia. Se Pietro non fosse caduto non avrebbe capito Cristo che è morto per lui. Per lui sarebbe morto invano.
Non è Pietro che si volge a Gesù, ma Gesù che si volge a Pietro. L'uomo è incapace di volgersi a Dio. Gesù riconosce Pietro anche se Pietro dice di non conoscerlo. Il suo sguardo compassionevole non rinfaccia e non rimprovera nulla. Solo davanti a uno sguardo pieno d'amore l'uomo diventa libero. Si trova nudo davanti a Dio, nella responsabilità di accettare o meno il suo amore gratuito e senza condizioni.
"Pietro si ricordò della parola del Signore". Il ricordo della parola del Signore è il principio della conversione. È importante che Gesù abbia predetto il peccato di Pietro. Solo così Pietro può comprendere che Gesù gli rimane fedele anche se lui è infedele, perché Dio non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13). Non c'è altro modo per cogliere la sostanza del Vangelo. Se Pietro non avesse rinnegato, non avrebbe capito che non sarà lui a morire per il Signore, ma il Signore a morire per lui. Solo in quanto peccatore l'uomo può essere salvato e ottenere la sublimità della conoscenza del Signore come amore e misericordia.
Pietro si allontana da Gesù. Come Adamo, si sottrae allo sguardo di Dio. Ma dove fuggire lontano dal suo sguardo (Sal 139)? Egli ci ama fino al punto di stare con noi senza condannarci e giudicarci, proprio mentre è condannato e giudicato dalle nostre paure. La fede è accettare questo suo amore come propria identità: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore" (1Gv 4,16).
Il pianto amaro di Pietro è la fine della sua falsa identità. Questa sua morte a se stesso è il recipiente che accoglie la sua vera identità: l'amore che il Signore ha per lui. Questa è la vita nuova, la vita eterna. Le lacrime di Pietro sono il battesimo del suo cuore.
L'uomo, anche se lo ignora, è costituito tale dal suo desiderio naturale di vedere Dio. Fatto a sua immagine e somiglianza, solo in lui trova la realtà di se stesso. Senza di lui è senza di sé. Ora finalmente, dopo il "non sono" del discepolo, ci è dato di contemplare in Gesù il vero volto di Dio.
Dalla bocca di Gesù esce la parola: "Io sono". Essa svela l'identità e il mistero di Dio: Gesù è Dio e Dio è Gesù. Egli è il Figlio misericordioso come il Padre. In lui, mentre vediamo la nostra verità di figli perduti, vediamo anche quella di Dio come amore che si fa carico del nostro male. Un parlare cristiano su Dio può partire solo dalla contemplazione di questo volto velato, che ne è la rivelazione piena. Dio, assumendo in Gesù il volto di tutti i senza volto, svela la sua essenza nascosta: amore misericordioso. Gesù è il Cristo (Re e Salvatore) proprio in quanto solidale con il male dell'uomo, è Figlio dell'uomo (Giudice supremo) proprio in quanto giudicato; è Figlio di Dio ("Io sono") proprio in quanto ingiustamente condannato a morte. Qui, e non prima, si presenta il problema della fede cristiana: credere nella debolezza di Dio. Qui il vangelo raggiunge il suo apice: vediamo il Salvatore, il Giudice e Dio stesso in colui che condanniamo, giudichiamo e uccidiamo.
La parola "Io sono" costituisce il culmine della rivelazione biblica: mostra a tutti chi è Gesù e chi è il Padre. Per questo viene ucciso. Ma proprio così si manifesta senza veli il vero Dio: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14,9). Il Padre delle misericordie.
Il Figlio dell'uomo è nelle mani degli uomini. La libertà è incatenata. La sapienza è derisa. La potenza è percossa. La Gloria è velata. Ma questa velazione è la sua rivelazione totale. Il velo del tempio nasconde la maestà di Dio; il velo del male del mondo lo rivela come amore. Questo volto velato è Dio stesso che ha perso il suo volto per noi. Da sempre l'inganno di satana ci ha nascosto il vero volto di Dio. Ora Dio fa del suo massimo velamento il suo svelamento definitivo. Pietro è stato chiamato a riconoscerlo per primo. Colui che passò beneficando e risanando tutti (At 10,38) è ora colpito dal male di tutti quelli che ha beneficato e risanato. Gesù è il Servo colpito dal male del mondo. Infatti si è caricato delle nostre sofferenze: il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui (Is 53,4-5). Non si è sottratto agli insulti e agli sputi; ha reso la sua faccia dura come pietra (Is 50,6-7). Tace e non dice chi è il colpevole. Il suo silenzio dice chi è Dio per noi: un amore che preferisce essere percosso e morire, piuttosto che accusare.
La parola di Cristo indica il re atteso, colui che avrebbe liberato il popolo. Gesù è il salvatore, ma non in quanto messia politico che prende il potere, ma in quanto Figlio dell'uomo che si consegna all'impotenza della croce.
Gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi non vogliono assolutamente credere in Gesù. Per cui non servono a nulla né le domande né le risposte. Il silenzio di Dio, oltre che annuncio del suo amore, è anche denuncia dell'incredulità dell'uomo.
Il Figlio dell'uomo riceve la gloria, il potere e il Regno e siede alla destra di Dio proprio sulla croce. Lì trionfa dei suoi nemici. Lì corregge le false attese messianiche.
Il sinedrio sta giudicando il suo giudice supremo, ma la sua ingiusta condanna alla morte di croce sarà il giudizio di Dio che dona la vita a tutti gli ingiusti.
Gesù è il Figlio di Dio. E ce lo rivela pienamente mentre dà la vita per noi. "Io sono" è la testimonianza piena di Gesù. Dice la sua identità e insieme svela chi è Dio. Dio dice il suo nome, quello stesso che udì Mosè dal roveto ardente: "Io sono" (Es 3,13-14). In Gesù si compie la rivelazione di Dio, iniziata nell'esodo. "Io sono" è colui che riempie di sé il nostro "non sono" perché anche noi possiamo diventare come "Io sono". "Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio" (s. Ireneo). Questa rivelazione di Gesù ci guarisce finalmente dalla falsa immagine di un Dio cattivo, origine di ogni male.
Egli verrà ucciso proprio per queste parole: "Io sono". Condannato come Dio, si rivelerà proprio nella sua uccisione. Infatti si lascia condannare ingiustamente alla nostra giusta pena per stare con noi, perché noi possiamo stare con lui. È l'Emmanuele, il Dio con noi.
La testimonianza è completa. Dalla sua bocca è uscita la parola definitiva: "Io sono Dio".
La duplice comparsa davanti a Pilato e a Erode mostra per contrasto la regalità di Gesù e mette in crisi l'ideale dell'uomo e l'idea stessa di Dio. Infatti il re è l'uomo ideale, libero e signore del creato a immagine e somiglianza di Dio. Ora Gesù ci rivela che la libertà divina consiste nell'amare e la sua signoria nel servire fino all'impotenza della croce. La sua regalità è ben diversa da quella dell'uomo (22,25ss). A Luca sta a cuore di provare l'innocenza politica di Gesù. È importante anche per la Chiesa, che si trova ad affrontare le stesse accuse e persecuzioni del Maestro. Ma è ancora più importante per capire cos'è il suo regno e la sua salvezza.
Gesù ci aveva parlato del Regno presente nella nostra storia come seme piccolo, preso e gettato nella terra, come un po' di lievito preso e nascosto. Ora comprendiamo che il Regno è Gesù stesso: insignificante e disprezzato, piccolo e preso, gettato fuori le mura e nascosto sotto terra, sarà il grande albero che accoglie tutti gli uccelli, sarà il lievito che farà lievitare la pasta del mondo. È questo il Re, colui che viene nel nome del Signore.
Non dobbiamo aspettarne un altro, ma cambiare le nostre attese (7,18ss). È lui che depone i potenti dai troni (1,52) e ci salva, dandoci una nuova immagine di Dio, di re e di uomo.
Pilato è descritto dagli storici ebrei Filone e Flavio come duro e crudele (cf. 13,1). Qui appare come umano e ben disposto. Parlare bene dei nemici non è solo interesse apologetico, ma anche gesto sommo di misericordia.
L'accusa è triplice: perverte il popolo, impedisce di pagare il tributo a Cesare e dice di essere il Cristo re. Pilato prende in considerazione solo la terza accusa, la più importante, perché potrebbe minacciare la dominazione romana. Anche i cristiani saranno sempre perseguitati per motivi politici. Ma il loro martirio non sarà testimonianza di Gesù se non sarà evidente la loro innocenza politica. Dev'essere chiaro, come per Gesù, che non contendono il potere a Cesare e non lo pretendono.
Gesù riconosce di essere re. Ma non è come i re delle nazioni, che dominano e si fanno chiamare benefattori (22,25ss). Sarà re in quanto servo per amore, tanto libero da portare su di sé il male di quelli che ama, fino ad essere crocifisso come malfattore. Questa è la regalità di Dio (1,52). Il Crocifisso muta la falsa idea di Dio suggerita dal serpente e cambia il falso ideale dell'uomo, principio di ogni male. Ci rivela il vero volto di Dio e il vero volto dell'uomo. È re in quanto "testimone" della verità, di quella verità che ci fa liberi (Gv 18,37; 8,32). Gesù è dichiarato politicamente innocente dall'autorità romana. Gesù è crocifisso come giusto, solidale con gli ingiusti. Solo così si può capire chi è lui, e in lui chi è Dio, e qual è la salvezza che dona all'uomo (vv. 41-47).
Gesù non ha sobillato nessuno, ma ha chiamato tutti a convertirsi alla misericordia, che è la libertà dei figli, pagandone per primo i costi. Gli accusatori, indicandolo come galileo, intendono presentarlo come zelota. La Galilea infatti era un focolaio di rivoltosi.
Pilato, per levarsi un fastidio, invia Gesù da Erode. Lui infatti vorrebbe liberare Gesù (At 3,13-14). In quei giorni tutti i nemici di Gesù si trovano a Gerusalemme, riuniti contro il Signore e il suo Messia (Sal 2,1): "Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli di Israele, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse" (At 4,27-28).
Già da 9,9 conosciamo il desiderio di Erode di vedere Gesù. Ora è contento, perché si compie. Erode non è mosso dal desiderio di convertirsi, ma dalla curiosità. Non vuole obbedire alla verità, ma soddisfare il suo prurito di cose straordinarie. Il brivido religioso interessa sempre più della fede. "Questa generazione è una generazione malvagia: essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno, fuorché il segno di Giona" (11,29).
Luca menziona solo qui il silenzio di Gesù. Richiama il Servo di Iahvè. Non apre bocca, come agnello condotto al macello (Is 53,7); è come uno che non sente e non risponde (Sal 38,14). Alle molte parole dell'uomo, il Figlio dell'uomo non risponde nulla. Il silenzio di Dio è la sua risposta alla cattiveria dell'uomo. Tace non per indifferenza o superiorità, ma per compassione verso chi lo accusa. Dio è misericordia. Se rispondesse, agli accusatori ingiusti spetterebbe la pena che vogliono infliggere a lui. Allora tace. Tace per non condannare, muore per non uccidere, è giustiziato per non giudicare, non denuncia nessuno per annunciare a tutti il perdono. Con il suo silenzio porta su di sé la nostra morte e dà per noi la vita. Gesù qui si manifesta così come vero re, immagine di Dio. È infatti libero e capace di amare come il Padre.
"Avendolo nientificato" (v. 11). È il disprezzo più radicale. Dio è ridotto a nulla e stimato nulla. Nel suo orgoglio Erode fa il contrario di Maria che magnificò (fece grande) il Signore. La regalità di Dio è ritenuta impotenza e stupidità, oggetto di scherno da parte dell'uomo. Erode riconosce Gesù come re. Lo riveste della veste bianca propria del re o del candidato al trono. Lo fa per burla. Non sa di essere lui una burla di re, come tutti i suoi pari. Schiavo del suo egoismo e incapace di voler bene, è l'uomo fallito. È a somiglianza della falsa immagine di Dio, suggerita dal serpente.
Quando l'inimicizia tra due persone diventa amicizia per essere nemici di Cristo, la situazione peggiora.
Questo brano ci narra il grande baratto: la vita del delinquente è scambiata con la morte del Giusto. L'uccisione di Dio è la salvezza dell'uomo. L'innocenza di Gesù è sottolineata tre volte da Pilato. Se fosse stato ucciso perché empio e ingiusto non ci avrebbe salvati. Il giudicato e il rifiutato da tutti ci appare in una solitudine assoluta. Tutti sono contro di lui e gridano: "Crocifiggilo!".
Questo brano ha un grande significato teologico. Chiarisce chi ha condannato Gesù e perché, e spiega il risultato e il significato della sua morte.
Chi ha condannato Gesù? Tutti, nessuno escluso. Tutti hanno peccato. Ognuno ha prestato la sua mano a Satana, vero autore della morte di Gesù.
Perché lo abbiamo condannato? Solo perché è il Figlio di Dio e non ha fatto nulla di male. A causa del peccato, il bene, invece che motivo di lode, è oggetto di invidia. Per essa entrò la morte nel mondo (Sap 2,24) e per essa il Figlio dell'uomo fu consegnato a morte (Mc 15,10). Gesù, condannato come buono dalla nostra cattiveria, porta su di sé il nostro male: "Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti". "Portò i nostri peccati nel suo corpo" (1Pt 3,18; 2,24); "Ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi" (Gal 3,13); "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2Cor 5,21).
Che cosa viene a noi da questa condanna? La giustificazione dai nostri peccati, la "grazia pasquale" che ci dà la vita non meritata invece della morte meritata. Barabba ne è la primizia. Il Santo e il Giusto muore al posto del peccatore ingiusto.
Che cosa significa la sua morte? È chiaramente la morte salvifica del servo di Iahvè! Egli dà la vita per noi portando su di sé la nostra morte. È una morte "vicaria", al nostro posto. Il Santo e il Giusto che si fa computare tra i malfattori (22,37; Is 53,12) e uccidere ingiustamente, rivela il mistero di Dio stesso: amore che si fa condannare alla nostra stessa pena per stare con noi. Qui Dio compie un gesto più potente di quello della creazione: strappa dalla morte la sua creatura perduta. È la notte pasquale, in cui è ucciso il figlio primogenito e liberato il popolo schiavo.
Ora entra in scena anche il popolo, che prima era favorevole a Gesù (19,48; 20,6.19.26.45; 21,3 8). Gesù muore per il peccato di tutti coloro che vogliono la sua condanna.
Pilato dichiara per tre volte Gesù innocente davanti a tutti. Sarà ucciso solo per la sua testimonianza della verità. I religiosi lo condannano come figlio di Dio (santo) e i politici come re (giusto). Il popolo si associa gridando: "Crocifiggilo!". Per questo Pietro potrà dire rivolto al popolo: "Voi avete rinnegato il santo e il giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l'autore della vita" (At 3,14-15).
Perché Pilato vuole punire Gesù se non è colpevole? È un mistero della sapienza divina e della stupidità umana. Gesù è trafitto per i nostri peccati, schiacciato per le nostre iniquità (Is 53,5).
In occasione della Pasqua il governatore liberava un prigioniero in ricordo della liberazione dalla schiavitù d'Egitto. Questo graziato a Pasqua è figura di tutti i graziati per il sangue dell'agnello innocente. È tolto di mezzo l'Autore della vita e graziato un disgraziato. La libertà di Barabba è frutto della condanna di Gesù. Il Giusto muore per l'ingiusto.
Barabba (figlio del padre) è il nome che si dava ai figli di nessuno. È messo a confronto con il Figlio del Padre. E nel giudizio degli uomini la bilancia pende a suo favore.
Pilato ha il potere di fare il bene, ma non la libertà di realizzarlo.
"Crocifiggilo! ". È la voce di tutti. È la richiesta della condanna a morte e la supplica perché venga immolato per la nostra salvezza. La croce, patibolo dello schiavo ribelle, sarà il trono del re obbediente al Padre. Questo grido del popolo è l'acclamazione che lo intronizza. "Maledetto chi pende dal legno" (Dt 21,23; Gal 3,13). Al legno viene appeso il frutto benedetto da cui viene la benedizione per tutti.
Per la terza volta Pilato dichiara l'innocenza di Gesù. È condannato proprio perché non ha fatto nulla di male. Chi fa il male lo fa portare agli altri. Solo chi non lo fa è capace di portare il male altrui.
Luca non descrive la flagellazione. L'accenna per due volte con il verbo punire.
La folla grida per la terza volta. Nel primo grido aveva chiesto la morte del Figlio del Padre per la vita del "figlio di nessuno". Nel secondo ha chiesto la crocifissione, logica conseguenza della liberazione del malfattore. Nel terzo ribadisce con forza crescente questa richiesta di morte.
La condanna di Gesù è alla fine convalidata da Pilato. Voluta da chi non poteva deciderla, viene decisa da chi non la voleva. Il male ha preso la mano a tutti quelli che si sono alleati contro Cristo. Barabba è "graziato". È la grazia pasquale: il Figlio del Padre prende il posto del figlio di nessuno. Questa grazia concessa ad ogni uomo è frutto della morte di Gesù per i peccatori: "Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui" (Is 53,5). "Siamo stati comprati a caro prezzo", "con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia" (1Cor 6,20; 1Pt 1,19).
Nel gesto di Pilato che lo consegna, è Cristo stesso che si consegna alla morte per i nostri peccati (Is 53,12). Gesù fa la volontà del Padre (22,42) abbandonandosi alla nostra volontà perversa e omicida. Il nostro peccato sarà l'occasione che compie il bene preordinato da Dio (At 4,28).
Inizia l'ultima tappa del ritorno del Figlio al Padre. È il cammino del martire verso il suo patibolo e del re verso il suo trono. Il brano ci presenta tre istantanee: il cireneo, le figlie di Gerusalemme e i due malfattori. Sono i tre modi d'incontro dell'uomo col Figlio dell'uomo. Nel cireneo vediamo chi è il vero discepolo. Nelle figlie di Gerusalemme vediamo chi è il vero popolo di Dio. Sono le persone che hanno verso Gesù lo stesso sentimento che Gesù ha verso di loro: la compassione. Il Signore le invita a piangere su di sé, cioè a convertirsi. La conversione è possibile proprio ora, perché il legno verde brucia al posto di quello secco. È il mistero della misericordia di Dio, che offre il perdono anticipato a tutti, perché tutti possano convertirsi ed essere salvi. Nei due malfattori, condotti "con lui" alla croce, vediamo rappresentata l'umanità intera davanti alla propria morte. Come Simone di Cirene è solidale con la croce di Gesù, così Gesù è solidale con la nostra. Ma mentre ogni uomo, come Simone di Cirene, è costretto a portare la propria croce, Gesù è il nostro cireneo volontario per amore. Con lui ora possiamo comprendere il senso della nostra croce, anche di quella che non vorremmo portare, come lo comprenderà uno dei malfattori crocifisso con lui.
Portano Gesù al Calvario, attraverso le vie centrali e più affollate di Gerusalemme. L'esecuzione deve servire come punizione esemplare e pubblica.
Simone di Cirene, città dell'Africa, è la persona più estranea al fatto, che si trova lì per caso, di passaggio. Viene dai campi e non ha nulla a che fare con quanto è successo. Il "caso", come un incidente che determinerà la sua vita, lo vuole protagonista. Mentre al discepolo tocca portare la propria croce (9,23), a lui tocca portare la croce altrui, addirittura quella di Cristo. È associato a lui pienamente, anzi, lo sostituisce. Il cireneo è per costrizione ciò che Gesù è per libera scelta. Ciò che il cireneo è per Gesù, Gesù lo è per tutta l'umanità. Tra i tanti, la ventura toccò proprio a Simone, l'africano di Cirene, il più sprovveduto e l'ultimo di tutti, un debole che non poteva ribellarsi, altrimenti gli sarebbe andata peggio. È sempre il "povero Cristo" che deve portare la croce! Il cireneo è costretto ad accogliere il dono più grande che possa essere concesso ad un uomo: essere compagno del Signore nel momento decisivo della salvezza, essere simile a lui nel momento più alto della sua gloria. I doni di Dio, specialmente i maggiori, sono confezionati dal caso, spesso malaugurato. Sottratti alla nostra decisione, sconvolgono i nostri piani, e noi ce ne lamentiamo. Ma il caso non esiste. Esso è pura ignoranza nostra e pura grazia di Dio. È lo spazio che la sua libertà si riserva nel pieno rispetto della nostra. Non cade foglia che Dio non voglia. Tutto coopera al bene di chi ama il Signore (Rm 8,28).
Nel cireneo, e in quanti, come lui portano il male che non hanno fatto, continua la storia della redenzione del mondo. I "poveri Cristi" sono coloro nella cui carne si compie ciò che ancora manca alla passione di Cristo (Col 1,24). Il cireneo, oltre che padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21), è padre di tutti i cirenei della storia. Il discepolo è solo colui che prende la propria croce ogni giorno e la porta dietro a Gesù (9,23; 14,27).
In realtà, la croce di Gesù non è sua, ma nostra. Spetta infatti a noi, che siamo malfattori, e non a lui che è giusto. Portando la sua, portiamo la nostra e, portando la nostra, ormai portiamo la sua, diventata gloriosa.
Il popolo prima gridava: "Crocifiggilo!". Ora lo segue mentre va alla crocifissione. Lo contemplerà morto e si convertirà battendosi il petto (v. 48). La contemplazione della croce è il luogo della conoscenza di Dio e della conversione a lui.
Nel pianto delle donne si avverano le parole di Zaccaria: "Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico; lo piangeranno come si piange il primogenito" (Zc 12,10). Gesù infatti è il Figlio unico e amato (3,22; 9,35; 20,13), il primogenito di ogni creatura (Col 1,15).
Mentre è condotto alla morte, Gesù non è dispiaciuto per il proprio male, ma per il male che fanno a se stessi coloro che lo crocifiggono. Non è preoccupato per sé, ma per chi lo rifiuta. Le parole rivolte alle donne di Gerusalemme sono il segno massimo della sua misericordia e l'invito definitivo alla conversione.
"Piangete su di voi" significa: riconoscete che piangendo sul mio male state piangendo sul vostro, che io sto portando per amore verso di voi.
La morte di Gesù è la fine del mondo vecchio e l'inizio di quello nuovo. Anche la sterilità, maledizione per eccellenza, diviene paradossalmente una benedizione. Gesù dice alle donne che per i loro figli sarebbe meglio non essere nati se non ascoltano la sua parola e non la mettono in pratica (11,28). La disobbedienza a Dio è la morte dell'uomo. Gesù, il frutto benedetto del grembo di Maria (11,27), porta su di sé questa maledizione.
Il legno verde è Gesù. Viene bruciato perché sia risparmiato dal fuoco il secco, che è l'uomo peccatore. Il giusto è giustiziato perché l'ingiusto sia giustificato. "Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui. Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. Per l'iniquità del suo popolo fu percosso a morte. Il giusto mio servo giustificherà molti; egli si addosserà le loro iniquità. Portava il peccato delle moltitudini e intercedeva per i peccatori" (Is 53,5-12).
Salendo al Calvario, Gesù spiega alle donne ciò che avviene nella sua morte. Uno dei malfattori, crocifisso con lui, capirà. Il legno verde subisce la sorte di quello secco. I due malfattori rappresentano tutta l'umanità con la quale Cristo si è fatto solidale per sempre.
Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte.
Le prime e ultime parole di Gesù in croce sono rivolte al Padre. Gli chiede perdono per chi lo crocifigge e gli rimette nelle mani la sua vita, carica di tutti i nostri peccati. Al centro del racconto c'è la solidarietà con i fratelli perduti.
Il brano ci presenta la regalità di Gesù, principio di salvezza. Dall'alto della croce il Signore compie il giudizio di Dio sui nemici: perdona e dona il Regno ai malfattori. Qui comprendiamo bene in che senso Gesù è re e qual è la salvezza che porta. È un re che esercita la sua autorità nel servire; l'unico suo potere è amare fino alla morte. La sua salvezza non è quella che si attende l'uomo. È quella di un Dio che si fa condannare alla nostra stessa pena, pur di stare con noi.
Sulla croce Gesù realizza il Regno che aveva annunciato all'inizio (6,20-38). Lui è il re. Povero, affamato, piangente, odiato, bandito, insultato e respinto come scellerato, ama i nemici, fa loro del bene, li benedice, intercede per loro, resiste al male prendendolo su di sé, è disposto a subirne anche di più pur di non restituirlo, e dà agli altri la salvezza che ognuno vorrebbe per sé. Questa sua regalità rivela la grazia e la misericordia di Dio: è il Figlio uguale al Padre, che non giudica, non condanna, perdona e dona la vita per i fratelli.
Gesù è martire, ossia testimone dell'amore del Padre per tutti i suoi figli. La sua croce è giustificazione per tutti gli ingiusti è salvezza del mondo. Ogni teologia della liberazione, per non cadere nell'idolatria e produrre altre alienazioni, deve fare i conti con la croce di Gesù. Egli respinge come tentazioni le nostre attese di salvezza, basate su segni di forza e di potenza. Moltiplicherebbero quel male dal quale vuole strapparci.
"Salva te stesso" è il ritornello ripetuto sul Golgota. Rappresenta la suprema aspirazione dell'uomo che, mosso dalla paura della morte, cerca di salvarsi da essa a tutti i costi, instaurando la strategia dell'avere, del potere e dell'apparire. Ma proprio quest'ansia di vita genera l'egoismo, vera morte dell'uomo come figlio di Dio. Da qui nasce ogni altro male e ogni altro falso modo di intendere la vita e la morte. Gesù non ci libera dalla morte, ma dalla paura di essa, che ci avvelena tutta la vita. Infatti "il pungiglione della morte è il peccato" (1Cor 15,56). Il peccato è sostanzialmente quella menzogna che ci ha tolto la conoscenza di Dio come amore, e ci impedisce di accettare di essere da lui e per lui. Per questo temiamo l'incontro con lui, come la nostra morte, e viviamo schiavi di questa angoscia per tutta la vita. Lui ce ne libera, offrendoci la sua amicizia e standoci vicino anche nella morte. In questo modo la svuota del suo pungiglione. "Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto partecipe per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (Eb 2,14-15). Proprio lì dove noi temiamo la solitudine assoluta, il nulla e la dannazione, scopriamo un Dio che ci offre la sua solidarietà e la comunione con lui, che è la vita. La solitudine è l'unico male dal quale nessuno può salvarsi da solo.
Cade la falsa immagine di un Dio tremendo, che sta all'origine della morte, causa dell'egoismo, causa dell'ansia di vita, causa della brama di avere, di potere e di apparire, causa di ogni male. La salvezza che Gesù porta ha quindi la sua sorgente nella riconciliazione dell'uomo con il Padre della vita.
Questi due versetti ci presentano il benefattore che finisce tra i malfattori, fuori dalla sua città (20,15; Eb 13-12), fatto maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21). La croce, morte crudele e spaventosa, punizione dello schiavo, è il trono del re.
C'è solidarietà totale tra il Giusto e il malfattore. Questi due malfattori rappresentano tutti noi, chiamati a leggere il mistero di Dio presente al centro delle nostre croci.
Le prime parole del Crocifisso: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" danno il senso della sua vita e della sua morte. A Gesù sta a cuore il perdono per i suoi fratelli. In questa preghiera Gesù getta il seme del Regno, che è l'amore del Padre nel perdono del fratello. Egli non è come quei martiri "della giusta causa", quegli eroi di tutti i tempi, che insultano e disprezzano il nemico, minacciandogli la vendetta del cielo (2Mac 7,19). Condannato, giudicato e disprezzato, il Giusto assolve, giustifica e prega per i nemici ingiusti.
Il perdono è la chiave di lettura per comprendere la salvezza che Gesù ci porta (1,71.77). È quanto dovranno annunciare i suoi discepoli dopo di lui (24,27). La sua croce è la vicinanza di un amore più grande di ogni peccato commesso e di ogni male subito. In essa Dio scende sotto ogni possibile abisso, per essere con ogni uomo. Perdonando i suoi crocifissori, Gesù si rivela come Figlio del Padre che è la misericordia infinita.
Se gli uomini avessero saputo chi era Gesù non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (1Cor 2,8). In questa ignoranza il nostro peccato non è attenuato, ma evidenziato: non conosciamo il Signore della gloria che crocifiggiamo. Siamo satanicamente ciechi davanti al nostro male e al suo bene.
Queste parole di perdono ai suoi crocifissori mancano in vari codici. Anche i cristiani di mestiere, come i monaci e gli ammanuensi, cercano di castrare il vangelo. A loro sembra eccessivo ciò che per Gesù è l'essenziale!
La salvezza che il Figlio di Dio ha portato sulla terra sembra non avere alcuna rilevanza né religiosa né politica né personale; sulla croce pare che tutto finisca e torni come prima. Anzi, peggio di prima, perché il male sembra aver vinto un'altra volta. Dopo tante illusioni suscitate da Gesù, la tragica delusione! (cf. Lc 24,21). Ma proprio questa è la vittoria decisiva. Il nostro male radicale è il voler salvare noi stessi. Gesù, perdendosi per noi, lo vince. Le sue tentazioni riguardano l'inutilità della croce e della salvezza. Sono anche le tentazioni costanti della Chiesa e di ogni uomo. Bisogna uscire dalla trappola delle proprie attese egoistiche per cogliere la prospettiva di Dio.
La contemplazione del Crocifisso è il principio della nuova sapienza. Sul Calvario viene tolto il sipario dal Cristo e possiamo contemplarlo com'è: amore senza limiti per noi peccatori.
I capi del popolo vengono colti nell'atteggiamento preannunciato dal salmo 22,7-8: "Io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo. Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono il naso, scuotono il capo".
Salvare se stesso dalla morte è il principale pensiero dell'uomo. Ognuno è pronto a salvare se stesso a spese dell'altro. E' la salvezza ingannatrice dell'egoismo, che è perdizione nostra e altrui. Gesù ha detto: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà" (Lc 9,24). Solo chi si perde per amore, salva se stesso e gli altri.
Nel v. 36 viene richiamato il salmo 69,22: "Quando avevo sete, mi hanno dato l'aceto". La sete di Gesù è il desiderio di donarci l'acqua della vita (cf. Gv 4,10; Ap 21,6). Noi gli abbiamo dato in cambio l'aceto della nostra morte.
I soldati manifestano il modo di pensare comune ad ogni uomo: il re è colui che vince con la forza e fa morire gli altri. Gesù invece manifesta la sua potenza perdendo e morendo per gli altri. La sua debolezza è la forza di Dio. Egli ci salva da ogni potere, che ha la sua forza nella schiavitù dell'egoismo.
La scritta sopra il capo di Gesù è una cosa estremamente seria. Gesù è veramente il re dei giudei. Il suo dominio è quello dell'amore: "Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32).
La bestemmia del malfattore è non riconoscere Dio sulla croce dove si rivela senza veli. Voler staccare Dio dalla croce è togliergli la sua gloria e confonderlo con l'idolo. Anche noi cristiani vogliamo un messia che salvi se stesso solo perché vogliamo salvare noi stessi. Dovrebbe essere lo specchio e la conferma dei nostri desideri egoistici. Questo malfattore rappresenta l'attesa dell'uomo che non conosce Dio, e lo fa a sua immagine e somiglianza.
L'altro malfattore, colui che viene chiamato "il buon ladrone", vede in croce una novità. Gesù Cristo gli fa conoscere il vero volto di Dio. Gesù è lì in croce con lui, perché lui possa essere in paradiso con Gesù. La salvezza è la vicinanza di Dio dove mi sento maledetto e solo. Egli è grazia e misericordia per me, peccatore perduto, fino a farsi lui stesso peccato e perdizione. Scrive san Paolo nella Lettera ai romani: "Ora a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (5,7-8).
Qualunque altro prodigio Dio avesse fatto per noi, non ci avrebbe persuasi del suo amore. Sarebbe stato un atto di potenza e di esibizione, che non avrebbe cambiato la nostra immagine di lui. Ma la sua impotenza in croce, la sua vicinanza a noi nel nostro male, la sua solidarietà con noi fino alla morte, ci tolgono ogni dubbio: Dio è amore e ama noi peccatori.
Liberati, dalla paura della morte e dell'egoismo, siamo finalmente liberi di vivere nell'amore di Dio da cui veniamo e verso cui andiamo. Possiamo finalmente vivere e morire in pace. E questa è la liberazione fondamentale.
Il malfattore in croce è l'unico che chiama Gesù per nome, senza ulteriore specificazione (cf. Lc 17,13; 18,38.39). Gesù è Dio che salva. Egli, come ogni uomo, teme di essere dimenticato. Ma Dio non dimentica nessuno. "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!" (Is 49,15).
Gesù si è fatto ultimo di tutti perché nessuno potesse più sentirsi abbandonato e maledetto. Egli è ormai nel punto più lontano da Dio, per essere vicino a tutti i lontani da Dio.
Il regno di Dio sono le braccia del Padre (v. 46). Ognuno entra nel suo regno affidandosi a Gesù. In lui tutto è compiuto.
Noi saremo sempre con Gesù, l'Emmanuele, perché lui è sempre con noi. Eravamo fuggiti lontano da lui ed egli ci ha raggiunti nel massimo della nostra lontananza e degradazione. Gesù è venuto con noi sulla croce, perché noi tornassimo con lui nel suo paradiso. Dio ha patito con noi, perché noi potessimo gioire con lui (Cf. Lc 15).
La scena della morte di Gesù, secondo Luca, contiene varie particolarità rispetto a Matteo e Marco. Le principali sono le seguenti: invece della citazione del Salmo 22 e le relative parole su Elia, troviamo la citazione del Salmo 31; il velo del tempio si lacera prima della sua morte; il centurione lo proclama giusto; le folle si battono il petto.
Le brevi annotazioni degli avvenimenti che precedono e seguono la morte di Gesù ne illustrano i vari aspetti teologici. Le tenebre e l'oscurarsi del sole (v. 44) sottolineano la sua portata cosmica e salvifica. Crocifiggendo il Giusto, il mondo ripiomba nelle tenebre del caos iniziale (Gen 1,2). L'oscurarsi della terra è anche segno di lutto. È il pianto della creatura per il suo Creatore. Lo squarciarsi del velo del tempio (v. 45) significa che Dio non è più chiuso all'uomo. Si è aperto per raccogliere il Figlio (e con lui tutti i figli) che ritorna a casa. In lui ogni fratello ora è riconciliato e ha libero accesso al Padre. Cessa l'antica alleanza che denuncia il peccato e inizia la nuova che annuncia il perdono.
Morendo, Gesù si abbandonò al Padre. La diffidenza e la fuga dell'uomo diventano affidamento e ritorno a lui. È la vittoria sul veleno della menzogna antica, l'ingresso nel paradiso originario in cui il Benefattore introduce ogni malfattore che glielo chiede. La morte di Gesù è l'esaltazione piena di Dio; la sua Gloria torna tra gli uomini. Anche il centurione pagano la riconosce (v. 47). Nel giusto che muore con gli ingiusti si rende presente l'amore di Dio per noi.
Questa morte è uno "spettacolo" (v. 48), visione dell'essenza di Dio che si manifesta nella sua misericordia per l'uomo. Il Crocifisso è la visione di Dio, da cui scaturisce un nuovo modo di essere e di vivere. Finalmente l'uomo vede chi è Dio, si converte a lui e ritorna a lui nel quale solamente è se stesso e può vivere.
I conoscenti di Gesù e le donne (v. 49) raffigurano l'inizio della Chiesa, piccola, debole e impotente come il suo Signore. Riunita ai piedi della croce, raccoglie il frutto della compassione di Dio per il male degli uomini.
La morte di Gesù è l'uccisione dell'autore della vita (At 3,15). Non ci può essere male maggiore. Il peccato, principio di decreazione, è consumato. Tutto regredisce al caos primordiale. La tenebra, che si addensa attorno alla croce, segna la fine del mondo posto nelle mani del maligno e l'inizio di una nuova genesi. Questa tenebra allude alla profezia di Amos: "In quel giorno - oracolo del Signore Dio - farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno", per fare "come un lutto per un figlio unico" (Am 8,9-10). Tutta la creazione partecipa al dolore del Padre per la morte del Figlio.
La morte di Gesù ha un significato cosmico e storico, definitivo e universale. In lui finisce la creazione iniziata con la genesi e comincia la ricreazione che coinvolge tutto e tutti, Dio compreso.
In questa oscurità assoluta, dall'alto della croce, risuonerà forte la voce del Verbo creatore. Questo giorno è la notte della nuova creazione e dell'esodo definitivo. Si squarcia il velo del tempio. Ora Dio non ha più veli. Nel suo Figlio unico, dato per noi, si è svelato come il Padre delle misericordie (2Cor 1,3).
L'accesso a lui è aperto a tutti e per sempre. Nel fratello Gesù ogni uomo incontra il Padre. Per l'eccessivo amore con cui ci ha amati (Ef 2,4), Dio ha abbattuto il muro della separazione. Siamo tutti santi, suoi familiari e suo tempio nello Spirito (Ef 2,14-22).
All'ora nona si suonavano nel tempio le trombe per l'inizio della preghiera vespertina. Gesù associa la sua voce alta e forte a quella del popolo in preghiera. È eccezionale questo grido per uno che muore in croce. Nelle tenebre risuona una voce divina. È la voce potente del Verbo che fa nuove tutte le cose (Ap 21,5). È il grido dell'uomo nuovo che viene alla luce.
Luca fa dell'abbandono di Dio (Mc 15,34; Mt 25,46) il luogo dell'abbandono a Dio: la fede. Per questo, invece che dal Sal 22, cita dal Sal 31. È il lamento del giusto perseguitato che si mette nelle braccia di Dio. Gesù aggiunge all'inizio la parola: "Abbà, Papà". Sono le sue ultime parole. Le sue prime furono: "Non sapete che io devo essere nelle cose del Padre mio?" (2,49). La parola "Padre" sulla bocca di Gesù fa da inclusione a tutto il vangelo di Luca. Esso è tutto una rivelazione della paternità di Dio attraverso quanto il Figlio ha fatto e detto in ricerca dei suoi fratelli perduti. Ora è giunto alla fine della sua fatica. Si consegna al Padre e gli affida la sua vita al termine della sua missione. La sua morte da figlio obbediente e fratello di tutti i malfattori apre a tutti il varco della vita. È l'esodo definitivo. Veniamo dal Padre e ritorniamo al Padre. La nostra morte diventa il ritorno a casa. Come Gesù si affida nelle mani del Padre, così il discepolo si affiderà nelle mani di Gesù. Stefano dirà: "Signore Gesù, accogli il mio spirito" (At 7,59). La morte di Gesù è la nostra salvezza perché è la solidarietà di Dio con noi. Ma è anche l'esempio di come muore l'uomo nuovo, l'Adamo riconciliato col Padre.
La morte è l'atto di fede più grande. A causa del peccato rimane sempre, anche per il credente, la drammaticità della morte col suo travaglio. Ma è illuminata dalla presenza di Gesù, che è venuto a condividere la nostra sorte di malfattori.
Ai piedi della croce ci sono tre categorie di persone che "vedono": il centurione, le folle e i conoscenti con le donne. Tutti costoro guardano il grande avvenimento dell'esodo di Gesù con i segni che l'accompagnano. La contemplazione della croce è per tutti. È l'antidoto che Dio ha dato ai suoi figli per vincere il veleno del serpente (Gv 3,14-15; Nm 21,4ss). Da questo sguardo al Crocifisso nasce il nuovo popolo.
Il centurione, comandante dei soldati che eseguirono la crocifissione, è la persona spiritualmente più lontana. Ora glorifica Dio. Gloria (ebraico: kabod = peso) indica la sovrabbondante bellezza di Dio che rompe ogni argine e straripa nell'universo. Glorificare Dio significa riconoscerlo in concreto, dandogli nella nostra vita il peso che si merita. Nella morte di Gesù vediamo la gloria di Dio, tutto il suo amore per noi.
Alla sua nascita gli angeli glorificavano Dio in cielo (2,13-14). Alla sua morte gli uomini peccatori lo glorificavano in terra, primo fra tutti il responsabile diretto della sua crocifissione.
La morte di Gesù è la glorificazione piena di Dio come Dio, perché è l'esaltazione del suo amore per tutti e sopra tutti.
"Davvero quest'uomo era giusto". Cristo è colui che compie la volontà di Dio. In Gesù si compie pienamente la giustizia di quel Dio che "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1Tm 2,4). Ora finalmente capiamo cos'è la sua giustizia: è la misericordia del Padre (6,36) che giustifica i peccatori.
La morte di Gesù in croce è uno spettacolo, una rappresentazione di Dio: si apre il velo del Santo dei santi e vediamo faccia a faccia la profondità del mistero. "Guarderanno a colui che hanno trafitto" (Gv 19,37). Nel Crocifisso abbiamo la visione di Dio-Amore che dà tutto se stesso. È il libro spalancato della misericordia di Dio. Il battersi il petto è segno di lutto e di conversione. È l'inizio della conversione di pentecoste.
Questi conoscenti di Gesù (v. 49) rappresentano la Chiesa con le sue note essenziali: seguire Gesù, stare ai piedi della croce, contemplare il Crocifisso e rispondere alla sua compassione in debolezza e vulnerabilità estrema.
La vita di Gesù è racchiusa tra due grotte, quella della nascita e quella della morte. È l'umiltà di Dio. È in tutto simile a noi che veniamo dalla terra e ad essa torniamo. Qui il suo amore raggiunge la massima umiltà (humus = terra), fino all'identificazione con noi. Il corpo di Gesù, messo sotto terra, è il seme che porterà il frutto della Vita. Il Messia non salva dalla morte, ma nella morte. Ora scende nel regno di colei che ha tutti in suo potere. La Vita varca le porta della morte. La luce entra nelle tenebre. Le prime parole rivolte da Dio all'uomo peccatore erano: "Uomo, dove sei?" (Gen 3,9). Qui Dio finalmente raggiunge l'uomo, perché non può più fuggire oltre. La tomba dove dormono tutti i figli di Dio diventa anche la tomba di Dio. Riposa con loro dopo averli cercati e amati da sempre.
La bontà (v. 50) consiste nel non seguire il consiglio degli empi (Sal 1,1); la giustizia nel non acconsentire alla loro condotta, ma adempiere la volontà di Dio. Giuseppe faceva parte del sinedrio, ma non era consenziente al parere e all'azione dei suoi colleghi.
Secondo la Scrittura ogni condannato è immondo. "Il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità" (Dt 21,23). Il corpo di Gesù, fatto per noi maledizione (Gal 3,13), è la benedizione promessa in Abramo a tutte le genti (Gen 12,3; 22,18).
Maria generò il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo adagiò nella mangiatoia (2,7). Giuseppe lo toglie dalla croce, lo avvolge nel lenzuolo e lo pone nel sepolcro.
Sono le prime e le ultime cure che le mani di una donna e di un uomo prestano a Dio.
La sepoltura di Gesù fu affrettata a causa del sabato imminente. Il sepolcro di Cristo è il compimento della creazione. Segna l'inizio del grande sabato definitivo, del giorno unico e senza tramonto, in cui Dio ha finito la sua opera. Ora Dio e l'uomo riposano perché ognuno ha trovato nell'altro la sua casa: Dio nell'uomo e l'uomo in Dio.