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TESTO Ama il tuo corpo

Marco Pedron   Marco Pedron

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Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno B) (14/06/2009)

Vangelo: Mc 14,12-16.22-26 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 14,12-16.22-26

12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

22E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Questa festa nasce dal miracolo di Bolsena a cui dobbiamo il duomo di Orvieto. Un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino. Durante una messa, quando spezza il pane, un po’ di sangue scorre dalla piccola ostia. Dal 1264 questa festa viene estesa a tutta la chiesa.

Noi oggi celebriamo la festa del Corpo e del Sangue del Signore: questo è il Corpo del Signore. Ma nel primo millennio il Corpo del Signore non era l’eucarestia, ma l’assemblea: gli uomini e le donne. Il retaggio di questo c’è rimasto quando noi nelle grandi feste incensiamo l’assemblea. Si incensa Dio presente nel vangelo, nel pane consacrato e nell’assemblea, nelle persone. Questo era il “verum corpus” di Cristo mentre l’eucarestia era detta il “corpus mysticum”. Nei secoli le cose si sono poi scambiate.

Allora il Corpo di Cristo è il pane consacrato, ma il Corpo di Cristo sono soprattutto le persone, gli uomini, le donne, io, il mio corpo.

Amare un pezzo di pane, beh è anche molto facile. Credere che lì c’è Dio non ci cambia poi così tanto la vita. Ma amare le persone questa è un’altra cosa. Vedere, credere, che in certi volti ci sia Dio, questo è più impegnativo, più coinvolgente e sconvolgente.

Madre Teresa dice: “Mi è difficile credere che la gente possa vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di pane e non lo possa vedere nelle persone, negli uomini e nei volti”. Ma sarà più facile vedere Dio nel volto di tua moglie che in un pezzo di pane, o no? Sarà più facile vedere Dio nel volto di tuo figlio che non in un pezzo di pane? Sarà più facile vedere Dio in un tramonto, in uno sguardo intenso, in un dialogo profondo e intimo, in una mano che ti aiuta, negli occhi di chi ha sofferto, che non in un po’ di vino? Un noto predicatore diceva: “Non so se chi ama Dio ami l’uomo. Ma so che chi ama l’uomo, ama Dio”.

Il vangelo ci presenta l’ultima cena. Gesù sente che sta per morire, sente che la situazione attorno a sé diventa calda, difficile, pericolosa. Come ogni buon ebreo, come tutti gli ebrei, anche Gesù celebra la Pasqua. Ma Gesù aggiunge qualcosa a quella festa ebraica; aggiunge una frase sul pane e sul vino. Dice: “Questo è il mio corpo”. Poi dice: ”Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti”.

Cioè: in queste sue parole Gesù dà un senso nuovo non solo alla Pasqua ebraica che diventa da quella sera la Pasqua cristiana, ma dà un senso nuovo alla sua vita.

Gesù dice: non solo io vivo, ma io voglio fare di questa mia vita un dono d’amore per voi e per il mondo.

Noi non solo viviamo, ma abbiamo bisogno di servire a qualcuno. Abbiamo bisogno di essere utili a qualcuno o a qualcosa; abbiamo bisogno di sentire, insomma, che siamo importanti. Altrimenti, che ci stiamo a fare? Se non serviamo a nessuno, se non siamo utili a nessuno, perché vivere? Se non servo a nessuno, se la mia vita non è utile a nessuno allora vuol dire che, che io ci sia o no, è la stessa cosa. Quante persone si chiedono: “Ma perché vivere?”. Se non servi a nessuno o a niente, non serve vivere.

Quando feci la Cresima mi regalarono un orologio (una volta era il regalo della Cresima!). Era così bello che i miei genitori decisero di non farmelo portare perché avrei potuto perderlo. E non lo portai. Andò nel dimenticatoio. Quando lo ritrovammo una decina d’anni più tardi non funzionava più. Ma che senso aveva avuto metterlo via? Non era servito a niente.

Molte vite sono così: per paura di osare, di perdersi, di rischiare, di sbagliare, vivono sulla difensiva, nell’”attento di qua e nell’attento di là”, nel non esporsi troppo, passano e non lasciano segno.

Vite che non servono producono esistenze tristi, vuote, buie.

Io ho bisogno che la mia esistenza sia un dono, che sia utile, che sia come il grano che alimenta altre persone. Allora posso vivere, spendermi e anche morire. Io ho bisogno che la mia vita sia significativa per me e per il mondo, come il vino: che dia forza, che disseti, che sia gusto, saggezza, sapore, per altri. Allora posso vivere e anche morire. Io ho bisogno di fare della mia vita un dono, qualcosa di significativo. Io ho bisogno di trovare un senso profondo, radicato, forte alla mia vita.

Fatti questa domanda: “Perché vivo?”, E non vivi se non trovi risposte valide!

Quante persone muoiono con il rimorso di non aver vissuto. Non sono state un dono. Non sono servite, la loro vita non è stata utile, significativa per nessuno. Allora è come non aver vissuto.

Gesù dice: “Io voglio che la mia vita sia per voi come un pane che vi nutre”. Voglio che la mia vita vi possa nutrire, possa alimentarvi, possa farvi crescere. Allora avrà senso anche la mia vita. E poi dice: “Voglio che la mia vita sia per voi come un vino gustoso”. Sono felice d’aver vissuto e d’aver vissuto così. Dio mi ha condotto fino a qui, io ho riposto in Lui la mia fiducia, e Lui non mi ha tradito. Se devo morire, morirò felice d’aver vissuto e d’aver vissuto così.

Perché la vita passa. Non crediate di rimanere qui per l’eternità. Non crediate di vivere per sempre. Ma se nel mio vivere e nel mio consumarmi, spendermi, io divento vita che dà vita, allora posso anche consumarmi e posso anche passare. Chi vive non teme di morire.

La mia vita è pane per qualcuno? La mia vita è vino che disseta? O la mia vita solo passa?

Molte persone non si danno mai, non si concedono mai: se parli con loro non ti fanno mai vedere quello che hanno dentro; altre hanno troppo paura di impegnarsi per qualcosa di vero, di bello. Altre si giustificano dicendo: “E’ troppo difficile”. Non riescono cioè a donarsi. Temono di perdersi, di sbagliare e non si danno. E facendo così si perdono.

E tra marito e moglie? A che serve condividere il corpo quando neppure ci si parla? A che serve condividere il letto quando non ci si racconta, non ci si apre? Possiamo dire che “stiamo insieme” perché facciamo tante cose insieme, ma non che “siamo insieme”, se non c’è comunicazione, se le nostre anime non si incontrano, non si toccano, non si parlano, e se i nostri occhi non si penetrano.

Il dono più grande che io genitore posso fare per te figlio mio non è darti i miei soldi, né il mio cognome famoso, né i miei beni, né un’adeguata posizione sociale. Il vero dono è darti ciò che io ho dentro, la mia parte più vera, più profonda; è darti la mia anima, i miei dubbi, le mie paure, i miei slanci. Perché se ti do tante cose ma non me stesso tu non mi avrai mai, tu non mi conoscerai mai, tu non potrai avermi con te nel tuo cuore e nella tua anima.

Gesù non ci ha lasciato nulla: non una casa, non un libro, neppure una dottrina, neppure una regola. Gesù ci ha lasciato solo un po’ di pane e di vino da mangiare. “Io sono come il pane e il vino, siate anche voi così”.

La vita è donarsi: ho bisogno di servire, ho bisogno di alimentare altre vite, ho bisogno che la mia vita produca vita, così il mio morire sarà vitale. Altrimenti è solo morire.

Elias, 37 anni, era un uomo impegnato per la liberazione dei ragazzi dalla prigionia delle favelas. Un giorno gli squadroni della morte andarono a casa sua e lo uccisero. Sua madre quando lo vide sanguinante gli disse: “Te l’avevo detto, perché ti sei impicciato con quella gentaglia?”. “Mamma sono stato al mondo 37 anni e ho vissuto 37 anni. Sono stato felice di ciò che ho fatto. Lasciami andare!”. E così morì.

Alcune persone stanno al mondo 90 anni, altre 100, ma quanto vivono? Vivere è spendersi, darsi, mettere tutte le proprie energie per un’unica causa, per qualcosa di significativo, per qualcosa che liberi l’uomo: questa è la felicità!

Dio si è fatto carne: questo è il grande mistero che la chiesa professa. Gesù è venuto sulla terra e Gesù è Corpo di Dio. Per noi uomini non esiste nessuno spirito senza la materia.

La diversità del cristianesimo è che Dio si è in-carnato. Lo troviamo nel pane consacrato; lo troviamo nel Gesù storico; lo troviamo nell’uomo. Dio ha preso corpo. Dio non è rimasto lassù nell’Olimpo, ma è sceso quaggiù nella terra.

Il Cristianesimo è la religione della mediazione. Dio si è fatto carne: ecco la mediazione. Arriviamo a Dio attraverso il pane della domenica, attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, il pianto di un bambino, le lacrime di chi è felice, ecc. Sono tutte mediazioni.

E la più grande mediazione è il corpo. Dio si è dato a noi attraverso il corpo di Gesù. Dio si dà a me attraverso il mio corpo; Dio si dà a me attraverso il corpo di chi mi è vicino.

Il Cristianesimo è la religione del corpo. Per secoli si è diviso materia (e quindi corpo e tutto ciò che è umano) e spirito. E si diceva: “Tutto ciò che è materia muore (il corpo, ad es.), è indegno e spregevole. Tutto ciò che è spirito è elevato e sublime. Umiliamo il più possibile la materia perché emerga lo spirito”.

Così alcune persone si sono perfino fustigate il corpo in nome di Dio. La maggior parte viveva la negazione per ogni piacere terreno. Santità era non provare piacere per il cibo e le bevande, per le gioie sessuali e per l’affetto, per il divertimento e le risa. Andare al cinema era “peccato” e a ballare lo stesso. Tutto questo era demoniaco.

L’affettività era peccato. “Niente coccole, niente carezze, niente contatti”. “Chi della nostra generazione si ricorda i propri genitori che si baciavano? O che si scambiavano tenerezza?”. E pensare che noi viviamo di pelle, di contatto, di carezze. Un corpo senza amore muore.

La sessualità era peccato. Chi di noi si ricorda che si parlasse di questa cosa? E quando usciva una scena in tv, quanto imbarazzo c’era? Spesso si girava canale.

Una donna mi ha raccontato che fino a quando si è sposata non sapeva neppure come nascessero i bambini o cosa fosse un rapporto sessuale. E siccome tutto era peccato, tutto era sporco, da non fare, era addirittura da non sapere.

In seminario c’era un insegnante che era terrorizzato quando noi mettevamo le mani in tasca. Certo, era un suo problema, perché noi eravamo lontani anni luce dalle sue paure. Ma quanto male deve aver vissuto? E quanti complessi affettivi e sessuali deve aver avuto uno così? E ci creava il complesso e la paura dove noi manco l’avevamo.

La donna dopo la gravidanza aveva “una quarantena” per purificarsi (cosa che ha un senso profondo in molte culture antiche, ma non nella nostra): il corpo, e quello che avviene lì, è peccato. Molte donne (chissà perché gli uomini mai!, bah!) si confessavano per aver avuto un rapporto sessuale con il marito: voleva dire che quello che avevano fatto era peccato, brutto, male. Una ragazza ha raccontato: “Fino ad undici anni mio papà giocava ogni giorno con me. Poi, dopo la prima mestruazione, non mi ha mai più toccata... e io mi sono sentita tradita da lui. E mi dicevo sempre: “Ma che cosa gli ho fatto?”. Ho sempre odiato il mio essere donna, perché per me essere donna aveva voluto dire perdere l’amore”.
Tutto ciò che era corpo era sporco, del diavolo, negativo.

Ma il mio corpo non è nient’altro che il luogo di Dio. Come il pane della domenica è il luogo di Dio, così il mio corpo. Dio è qui. E lo spirito, se esiste in questa terra, esiste solo in un corpo. Il corpo è spirituale e lo spirito è corporeo.

Quando sto male nel corpo, anche lo spirito soffre e quando lo spirito sta bene, anche il corpo sta bene.

C’è una persona che è sempre ammalata. Da bambina costei ha vissuto abbandono e ha vissuto in un clima dove non ci si poteva occupare di lei. Così il suo spirito-corpo ha trovato una soluzione: la malattia. Ammalandosi “i grandi” dovevano lasciar stare “le loro cose, tra cui il lavoro, e dovevano prendersi cura di lei. Oggi si ammala sempre, perché ha imparato che per essere amati bisogna ammalarsi e stare male. Non si può curare il corpo, se non si cura lo spirito della persona (e forse la medicina ufficiale dovrà un giorno imparare qualcosa da ciò). Fede è far vedere a questa persona che amore non è soffrire. Fede è far sì che piano piano prenda le distanze dalla sua infanzia, altrimenti soffrirà per tutta la vita, e ha ben poco di santità tutto questo.

Quand’ero piccolo conoscevo un prete che i miei genitori stimavano moltissimo (e quindi lo stimavo anch’io) e lui diceva che più che si soffre e più Dio è contento. “Più soffriamo – diceva – e più espiamo le colpe di Cristo”. Così quando soffrivo ero contento. Per fortuna che poi ho lasciato quest’idea, altrimenti, cosa mi sarebbe successo?

C’è un uomo che è grosso, veramente obeso. Cosa c’entra lo spirito qui? Lui era il figlio di mezzo: il maggiore andava sempre con il padre ed era il suo pupillo; la figlia minore era “la cocca” di mamma. E lui chi lo vedeva? La sua obesità è proprio questo messaggio: “Non sono abbastanza grosso perché tu mi veda?”.

C’è un uomo che soffre di psoriasi. Da piccolo non è mai stato toccato, accarezzato (“smancerie!”). Anzi è sempre stato disprezzato, umiliato e denigrato. E il suo corpo (ma è il suo spirito che soffre) lo esprime bene: “Non avvicinatevi a me perché io faccio schifo. Non sono degno di essere toccato, non c’è nulla in me che lo meriti”.

Moltissime delle nostre malattie del corpo sono malattie dell’anima. E potremmo prendere tutti i farmaci che vogliamo, tutti gli antidepressivi che ci prescrivono, ma non ne usciremo perché non è il nostro corpo ammalato ma il nostro spirito. Il corpo è la visualizzazione, lo schermo del nostro spirito. Chi non ama il corpo non ama Dio, perché il corpo è tempio dello Spirito.

Il mio corpo ha bisogno di me, tanto quanto io ho bisogno del mio corpo. Il mio corpo ha bisogno di carezze e di contatto, non perché è bello e attraente, ma perché il mio spirito ha bisogno di amore, di essere riconosciuto e toccato.

Il mio corpo ha bisogno di coccole, di abbracci e di gesti affettivi perché l’amore è molto concreto: quando una mamma ama lo fa attraverso le sue mani, il suo seno, il suo corpo e le sue parole. E ha bisogno di contatti veri, profondi, dove io non prendo paura, dove l’altro non vuole conquistarmi, dove l’altro non vuole sedurmi (se-durre: attirare sé), ma mi lascia e mi prende per quello che sono senza volermi fare qualcosa.

Il mio corpo ha bisogno di piacere, perché il mio spirito brama tutto ciò che è bello, buono e divino.

Il mio corpo ha bisogno di cura non per far colpo sugli altri, per conquistarli, per sedurli, ma perché curare il mio corpo è curare la mia anima. Anche a cinquanta, settanta, novant’anni ha bisogno di cura, perché io sono una persona con la mia dignità in ogni istante di vita.

Il mio corpo ha bisogno di essere un po’ atletico, un po’ in forma, non perché così sono un macho o una sex-symbol attraente che tutti guardano, ma perché se il mio corpo non è appesantito neanche la mia anima lo è. E ci ingolfiamo di cibo, di sostanze stupefacenti o di alcol proprio perché l’anima è ammalata.

Il mio corpo ha bisogno di digiuno non per essere magro e snello come lo impone la moda, ma perché ha bisogno di disintossicarsi dal troppo, ha bisogno di pause sane per non essere così pieno da non sentire più lo spirito che parla dentro di me.

Il mio corpo ha bisogno di silenzio, di meditazione, di passeggiate e di preghiera, per entrare in contatto con il corpo di Dio, che è il mondo e che vive attorno a me, per sentirsi in sintonia e parte di qualcosa che è più grande di lui.

Il mio corpo ha bisogno che io lo stimi, che io lo apprezzi, che io gli voglia bene. Perché se io non lo stimo non stimo me; e se lo combatto, combatto me; e se lo odio perché è troppo grasso, grande, piccolo o non come vorrei, in realtà non odio altro che me. E se lo disprezzo, disprezzo me. E se lo nascondo o me ne vergogno, è di me che mi vergogno.

Quando vado a fare la comunione il Corpo di Cristo viene in me, viene ad abitare in casa mia. Allora: se lo fa Dio, lo posso fare anch’io. Se lui non si vergogna di venire qui dentro, se lui si degna di abitare nella mia casa, e anzi viene per amarla, se viene perché è felice d’incontrarmi, se viene per diventare un tutt’uno con me, Corpo nel corpo, allora io devo smetterla di farmi del male e di combattermi.

Devo provare ad amare e ad accogliere questo mio fisico, devo provare a volergli bene e a finirla con il vergognarmi e col nascondermi.

Quando ogni domenica io vado a fare la comunione, non solo viene detto: “Corpo di Cristo” ed io dico: “Sì”; ma anche: “Corpo di Marco (ciascuno metta il suo nome)” e Cristo dice: “Sì”. Io dico “sì “ a Lui, ma Lui dice “sì” a me. Lui è onorato di venire nel mio corpo. E il mio corpo è onorato di riceverlo.
Pensiero della Settimana

“Questo è il mio corpo”, dice lei a lui e lui a lei. E i loro corpi unendosi diventano fonte di gioia, di unione e di dono.

“Questo è il mio corpo”, dice lei a lui e lui a lei. E i loro corpi sono il segno più grande del loro darsi, del loro consegnarsi, del loro fidarsi l’uno dell’altro, dell’essere veramente vulnerabili, esposti, nudi.

“Questo è il mio corpo”, si dicono gli amanti quando si vogliono conquistare, sedurre, attirare
e mettono in luce e in risalto il proprio corpo.

“Questo è il mio corpo”, dice la madre a suo figlio e gli fa spazio perché si sviluppi e nasca nel suo ventre.

“Questo è il mio corpo”, dice la madre a suo figlio e il suo seno diventa latte e nutrimento.

“Questo è il mio corpo”, dice l’uomo alla donna e la abbraccia con le sue mani forti, per dirle che lì con lui
non c’è motivo d’aver paura.

“Questo è il mio corpo”, dice il bambino malato che non si spiega il perché il suo corpo sia diverso da quello dei suoi compagni e perché così giovane sia già malato.

“Questo è il mio corpo”, dice l’uomo disabile, un corpo fermo, paralizzato, che non funziona, ma che è tutto quello che ha, perché è lui, il suo corpo.

“Questo è il mio corpo”, dice il vecchio che vede un corpo che non risponde più ai suoi desideri: è lento, è malato, è acciaccato, e per fare quello che faceva ieri, adesso gli serve il triplo del tempo.

“Questo è il mio corpo”, dicono la pioggia, il vento, la neve, il sole, il seme, quando incontrano la terra e la nutrono e perdendosi la rendono vitale e viva.

“Questo è il mio corpo”, dice la persona che ad un certo punto smettere di remare contro Dio, e non sapendo dove Lui lo porterà si lascia trasportare, senza porre resistenze, senza paura, perché Lui è davvero irresistibile. E fa della sua vita e del suo corpo il corpo di Dio, dove Lui può agire e vivere.

“Questo è il mio corpo”, disse Gesù in quella notte, quando fece della sua vita, del suo corpo, un dono per tutti noi.

 

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