TESTO Il Tutto è Relazione; la relazione è tutto
Santissima Trinità (Anno B) (07/06/2009)
Vangelo: Mt 28,16-20
16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Oggi la chiesa celebra la festa Della Trinità. La Trinità celebra un Dio che è comunione, relazione, famiglia. Dio non è un’entità di solitudine ma una realtà dinamica, viva e relazionale.
Quando noi diciamo la parola “famiglia” non diciamo un’entità monolitica, statica: succedono così tante cose, dinamiche, rapporti, situazioni in una famiglia. Dio è così: Famiglia. La Trinità non è un problema matematico (come conciliare che Dio sia Uno e che siano Tre: Padre, Figlio e S.S) ma è la suprema espressione dell’esperienza che tutti facciamo dell’amore e della comunione umana. Ciò che importa nell’amore è che siamo uniti, ma che non ci fondiamo insieme. E’ importante che ci doniamo senza perderci. Ed è importante che rimaniamo uniti senza uniformarci e divisi senza essere separati. L’amore vero è così trinitario: unito ma non uniforme; separato ma non diviso.
La Trinità è un dogma, cioè definisce qualcosa che la Chiesa ha capito chiaramente.
Facciamo un esempio: incontri una ragazza, la frequenti, la conosci e lei conosce te. Vivi un’esperienza (la conoscenza e il fidanzamento), poi ad un certo punto senti in maniera chiara che quello che provi per lei è amore, che la vuoi sposare, che vuoi condividere con lei la tua vita. Allora le chiedi di sposarti. Ma prima di questa richiesta c’è tutto un lungo vissuto in cui tu hai capito questa cosa.
Il dogma è così: definisce qualcosa che prima si è vissuto e a cui adesso puoi dare un nome preciso.
La Trinità è l’esperienza che fecero i primi cristiani e i primi discepoli. Sperimentarono che Dio è amore, che Dio è relazione, che in Dio c’è unione ma non fusione, diversità ma non separazione. Capirono che il Padre, suo Figlio Gesù e lo Spirito, da una parte erano tre esperienze diverse, tre persone, ma che dall’altra erano lo stesso Dio, erano la stessa esperienza.
Per dire la loro esperienza di Dio utilizzarono il mezzo, l’immagine che più conoscevano: Dio è famiglia, comunione, relazione, rapporto.
Ma non dobbiamo mai dimenticare che prima viene l’esperienza e poi la definizione dell’esperienza. Molte persone vogliono sapere chi è Dio, ma non vogliono far esperienza di Dio. Ma l’esperienza precede sempre la concettualizzazione, la definizione, altrimenti parli di una cosa che non sai, che non hai mai visto né percepito. Parli ma non conosci.
Così molte persone parlano della vita, ma non vogliono vivere e altre parlano dell’amore ma non si lasciano coinvolgere. Quando invece hai vissuto un’esperienza, allora sì che sai che cos’è, allora sì che la comprendi, allora sì che ne capisci tutti i contorni, i limiti e la forza.
L’esperienza comporta il coinvolgimento, il mettersi in gioco, il provare sulla propria pelle.
Una persona sente di avere il cuore chiuso. “Voglio tornare a sentire, ad amare, a vivere. Sono freddo, arido, nulla mi tocca per davvero”. “Va bene – dico io -, sei pronto?”. “Certo che lo voglio!”. E così abbiamo fatto insieme un cammino. In questo cammino dovette piangere, toccare ferite e dolori, lottare, cadere e rialzarsi, ripartire, chiedere aiuto, scoprire i propri lati deboli, vulnerabili e meschini. In questo cammino perse le sue sicurezze, i suoi riferimenti e dovette cambiare vita. Dovette perfino, per fedeltà a sé, al Dio che aveva dentro, mettere in discussione il proprio matrimonio e cambiare il proprio lavoro. Nell’ultimo incontro mi disse: “Solo adesso so cosa vuol dire vivere; chi l’avrebbe detto? Prima pensavo alla vita, adesso vivo. E che fatica, in certi momenti avrei voluto non avere mai iniziato questo cammino. Ti ho così tanto maledetto! Ma ne vale infinitamente la pena”. Come non ripensare a Giobbe (Gb 42,4) che solo al termine di un lungo cammino comprende chi è veramente Dio e può dire: “Io ti conoscevo Dio per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono”.
Il dogma è il punto di arrivo di un lungo sentiero. Ma non capirai nulla se prima non avrai fatto la strada. Rimarrà solo una definizione messa là, oscura e arida.
“La Trinità è relazione tra un Io, un Tu e un Noi” (J. Ratzinger): esprime l’idea del dia-logo in Dio”. In Dio c’è un Padre che ama il Figlio e che è amato dal Figlio. Il loro amore è lo Spirito. In Dio c’è relazione, c’è amicizia, c’è incontro, c’è comunione, c’è amore.
La forza di due sposi non è nel fatto che stanno insieme, ma nella relazione che si instaura fra di loro. Più ciascuno di loro è se stesso (persona), più c’è profondità, scambio, apertura all’altro e più c’è amore (spirito), più c’è complicità, confidenza, fiducia.
La stessa fisica ci ricorda che la forza e la consistenza della materia non è data dalla diversità interna degli elementi (gli stessi elementi sono uguali in tutto l’universo) ma dalla connessione che si instaura fra di essi. Cioè, un rapporto è forte, terrà e sarà fecondo se è forte, intensa e profonda la relazione.
Se noi guardiamo al vangelo, infatti, troviamo che la forza di Gesù era data dalla relazione particolarissima, speciale, intima che aveva con il Padre. Anche nei momenti difficili, fu questa apertura totale che lo sostenne. Fu la relazione, il rapporto che Gesù aveva con il Padre che lo aiutò in momenti cruciali, decisivi e drammatici, come nel Getsemani e nelle sue ultime ore.
Ogni relazione è composta fondamentalmente di tre elementi (è trinitaria): l’io, il tu e il noi. L’io vuol dire che io sono io, che io ci sono, che io sto in piedi con le mie gambe, che io sono persona. Io sono io e io non sono te. Io sono unico (unus) e non posso confondermi con te.
“Non posso stare senza di te; se mi lasci mi sento morire; ti amo perché ho bisogno di te; i figli sono tutto”, sono frasi che rivelano che io, come persona, non ci sono, che mi appoggio, che non riesco a vivermi come essere unico, separato. Poiché non riesco a vivere la mia vita, mi appoggio a te.
Quanti uomini che non riescono ad essere felici per se stessi e si illudono che sposandosi lo saranno. Quante donne che non hanno sicurezza in sé, credono che la potranno trovare nel partner. Ma il partner forte diventa poi il marito dittatore o freddo o insensibile. Quante coppie si illudono che il partner potrà compensare i propri buchi affettivi e le proprie lacune. Ma due zoppi non fanno uno che corre. Due zoppi fanno ancora più fatica a camminare. E se c’è uno solo, per un po’ di tempo quello che corre ti può portare in braccio, ma dopo si stanca. E d’altra parte nessuno ha il diritto di farsi portare dagli altri, visto che tutti abbiamo le nostre gambe. Il mio padre spirituale dice: “I rompiballe sono i più frustrati”. E’ così: se uno non riesce a vivere e a gioire della propria vita, non potrà che andare a rovinare quella degli altri.
Molte persone credono che fare le stesse cose faccia unità. Sì, può aiutare, ma non è questa l’unità. Molte persone credono che stando insieme poi verrà anche l’intimità. Ma non funziona così. Molte persone credono che in due i problemi personali passeranno. Ma non è così. Molte persone creano rapporti di fusione con il partner: non possono vivere senza di lui. In termini religiosi si chiamerebbe idolatria: si fa dell’altro un Dio. Molte persone pretendono dal partner quello che loro non sono in grado di fare.
Ogni rapporto è come sei tu. Se tu sei maturo, lo saranno anche i tuoi rapporti, altrimenti no.
Il tu è tu. Tu non sei me e io non sono te. Non dobbiamo fare le stesse cose; non dobbiamo pensarla alla stesa maniera; non dobbiamo essere sempre uniti.
Le coppie che fanno tutto e sempre insieme nascondono la paura dell’individualità. Sembrano coppie romantiche, di grande amore, ma c’è molta paura nel sottobosco. Tu sei tu e io sono io: non facciamo confusione. Unità non è uni-formità o uni-direzionalità. Ma se tu non sei tu, ti sarà faticoso accettare che io sia io. Perché mi vorrai cambiare; perché vorrai che io faccia come te; perché non accetterai la mia diversità in quanto tu non accetti la tua.
Il padre frustrato non accetta che il figlio faccia una scuola diversa da quella che lui ha in testa. Siccome lui non vive la propria vita, non ne è felice, vuole la propria felicità da suo figlio. C’è un uomo che ha obbligato sua figlia a fare giurisprudenza. E’ chiaro che non è la facoltà per lei, ma lui non ne vuole sapere. Lui sarà felice se lei diventerà avvocato. Ma quella è la vita di sua figlia e non la sua. Se vuole essere felice diventi lui avvocato, perché lo chiede a lei?
La madre frustrata dal rapporto di coppia del marito vuole che sua figlia si trovi un “bravo partito”, così non passerà quello che lai ha passato. Ma agendo così, chiede a sua figlia quello che lei avrebbe voluto. C’è una donna che ha fatto in modo che sua figlia lasci il “moroso” perché era uno scapestrato – diceva lei -, in realtà senza grandi possibilità economiche. Ma sua figlia lo amava! Poi l’ha spinta a trovare uno di buona posizione e non si è mai posta la domanda: “Ma lo ama?”. Anzi, le diceva sempre: “Non gli manca niente a quello lì (soldi, auto, posizione sociale, non serve che tu vada a lavorare, ecc)”. Quando poi sua figlia ha divorziato, lei le ha detto: “Non me lo sarei mai aspettato da te, cosa potevi pretendere di più?”. Già, ma era quello che lei voleva e che lei non aveva realizzato.
E’ il noi la nostra unità. E’ la relazione, il rapporto fra me e te la nostra forza. Null’altro. E’ quello che costruiamo fra me e te, la nostra “connessione” che sarà la nostra unità. E’ quello che c’è fra me e te che ci tiene uniti. Se non c’è niente il rapporto non terrà, è normale. Magari staremo insieme, ma è solo perché ci accontentiamo. E’ perché ci siamo abituati e non sapremo come vivere da soli. E’ perché abbiamo troppa paura di iniziare a vivere e preferiamo andare avanti (cioè alla deriva). E’ il noi che dice quanto ci amiamo. E’ lo spirito che c’è fra me e te che dice com’è il nostro rapporto.
L’intensità di un rapporto è data dalla capacità che le due persone hanno di uscire da sé (senza perdersi) e di creare un “noi”, uno spazio dove ci si può esprimere e accogliere. In questo senso i figli possono essere il “noi” della coppia: la nostra creatività, il nostro amore si espande, è così tanto, che esce da noi e crea (i figli). Ma se non ci parliamo mai, non c’è nessuna creazione, c’è solo prole!
La relazione è il modo necessario, lo stile, di ogni rapporto.
L’affettività dev’essere relazionale: dare e ricevere. Perché se io solo chiedo, divento una sanguisuga. E se io solo voglio dare, allora voglio gestire e controllare l’altro.
La sessualità dev’essere relazionale: altrimenti diventa imposizione, sottomissione, sfruttamento, dovere. Un uomo pretende da sua moglie “una botta e via” ogni sera. A lei piace anche avere dei rapporti sessuali, ma non così. L’uomo non si chiede neppure cosa desidera lei, cosa vuole, cosa le piace. Lui pensa a sé.
Una donna ha avuto un figlio. Dopo una settimana dal parto, il marito pretende dei rapporti sessuali. La donna, ovviamente, fisicamente è ancora troppo debole. Ma lui si sente rifiutato e per ricatto non l’aiuta nell’accudimento del figlio e l’accusa di pensare solo al figlio.
Relazione vuol dire che ci sono io e che ci sei anche tu e che ci parliamo, che comunichiamo.
Il parlarsi dev’essere relazionale, altrimenti diventa monologo, autoritarismo, direttività. Se non voglio accettare le posizioni dell’altro, se non voglio ascoltarlo, se non voglio cambiare non c’è relazione.
A Padova vive un uomo che batte le mani ogni dieci secondi. Interrogato sul perché di questo strano comportamento rispose: “Per scacciare gli elefanti”. “Elefanti? Ma qui non ci sono elefanti”. E lui: “Appunto!”.
Una vecchia zitella che abita in riva al fiume chiama la polizia, per avvertire che davanti a casa sua alcuni ragazzi fanno il bagno nudi. L’ispettore manda sul posto uno dei suoi uomini, che ordina ai ragazzacci di andare a nuotare più in là dove non ci sono case. Il giorno seguente la donna telefona di nuovo: “I ragazzi si vedono ancora!”. Il poliziotto torna e li fa allontanare di più. Il giorno seguente la donna chiama ancora: “Dalla finestra della mia soffitta, con il cannocchiale, li posso ancora vedere!”. Cioè: relazionarsi vuol dire aprirsi e comunicare se stessi, ma anche aprirsi e rivedere l’altro, le sue parole, i suoi sentimenti, i suoi punti di vista, le sue diversità. Altrimenti, è come parlare con il muro.
In una parrocchia chiamai i catechisti e assegnai loro i compiti: “Tu fai questa classe, tu quell’altra e via dicendo”. Una catechista mi disse: “Tu ci tratti come degli oggetti, perché non ci chiedi cosa va a noi di fare?”. Fu un colpo tremendo, ma era vero.
I rapporti sono relazioni. Non sempre si può essere accontentati, ma sempre si è persone. Relazionarsi vuol dire sentire, ascoltare l’altro, cercare di capire chi è, cosa gli piace, cosa desidera. Altrimenti le persone sono solo oggetti.
In una famiglia tutti i figli avevano fatto come sport pallavolo. Quando anche l’ultima volle fare sport, il padre la iscrisse in automatico a pallavolo. Ma la figlia gli disse: “Papà, io non sono Chiara e neanche Anna, io mi chiamo Giorgia!”. Aveva ragione: perché doveva fare quello che già facevano le sue sorelle? Anzi, proprio perché loro già lo facevano, lei voleva diversificarsi per sottolineare che lei non è loro.
L’educazione dev’essere relazionale: mi ascolti perché sono tuo padre e tua madre, ma anche ti ascolto perché sei mio figlio. Altrimenti se è unidirezionale non può che provocare senso di rifiuto in chi è più debole.
I tuoi figli giocano con i figli di amici (età cinque-sei anni). Arriva il figlio del tuo amico piangendo dicendo che tuo figlio gli ha fatto del male. Tu prendi tuo figlio (non vuoi mica sfigurare di fronte ai tuoi amici, eh!) e lo rimproveri: “Cosa gli hai fatto?”. E i più arditi genitori gli tirano uno schiaffo. Ma perché non gli chiedi: “Cos’è successo?”. E se non avesse fatto niente? E se non fosse colpa sua? Perché non lo ascolti?
Come quel genitore che, in situazione simile, disse: “Se non è per oggi è per domani!”, e giù un bel ceffone!
Oppure quelle frasi tremende: “Se tu mi amassi veramente, mangeresti tutto quello che la mamma ti fa”; oppure: “Se tu mi amassi veramente, questa cosa la faresti per me”. E’ un ricatto incredibile: ti dico che se non fai questa cosa non mi ami. E un bambino ci cade. Per cui, se lo fa va contro se stesso; se non lo fa va contro la mamma e si sente in colpa. E’ un modo sottile per esercitare il potere, per far fare all’altro quello che io voglio.
Con i nostri figli dobbiamo lavorare sulla relazione tra noi e loro.
“Dove sei stato?”, chiedi a tuo figlio. “A fare un giro!”: ed è stato fuori cinque ore. Se ti fermi lì, e non approfondisci e non ti interessi non crei relazione. D’altronde perché dovrebbe dirti di più se non ti interessa sapere cos’ha fatto e provato?
“Cos’avete fatto a scuola?”. “Niente”. Ma come: tutta la mattinata e non avete fatto niente. Ma se tu ti accontenti, se ti va bene la risposta, lui non ti dirà niente di più.
“Cosa provi?”. “Niente”. Ma non è possibile, sempre si prova qualcosa. Ma se non l’aiuti ad ascoltarsi, se non gli insegni ad esprimere quello che ha dentro, non saprai mai cos’ha dentro. E non si può pretendere che poi, quando vogliamo noi, ci dica cos’ha dentro!
“Come stai?”. “Bene!”. Sì, ma bene vuol dire tutto e vuol dire niente. “Bene” è anche un modo per non dire niente e chiudere in fretta il discorso. Cosa vuol dire bene?
I nostri figli sono come noi. Sono muti se noi non gli insegniamo ad esprimersi. Esprimersi non è aprire la bocca e parlare; esprimersi è tirare fuori ciò che io vivo, ciò che provo, ciò che ho dentro.
“Ieri hanno ricoverato un mio amico”, dice il figlio di dodici anni. E’ un informazione, ma dietro le parole mi sta dicendo: “E io sto molto male”. Se io rimango all’informazione e non approfondisco, non lo ascolto. “E tu come stai? Sei preoccupato? Che pensieri hai fatto? Hai paura?”. Questo è ascolto.
Se i nostri figli non ci raccontano di loro è perché non glielo abbiamo insegnato.
“Non ho voglia di andare a messa!”. “Siamo sempre andati e quindi si va!”, non è una buona risposta. Perché mi dice così? Cosa vuol dirmi? Cosa mi sta dicendo dietro le parole?
“Papà ho paura di fare la Prima Comunione!”. “L’hanno fatta tutti, te a fe’ anca ti!”, non è una buona risposta. Se gli rispondo così non lo ascolto. Mi sta dicendo che ha paura e che vuole il mio ascolto e la mia attenzione.
“Mamma che brutta che sei!”. “A tua madre non dici così!”, non è una buona risposta. Che cosa mi sta dicendo? E’ arrabbiato con me? Ce l’ha con me? Sta cercando la mia attenzione? Ha bisogno di me?
L’adulto è significativo per il proprio figlio, se va oltre le parole per leggere, per aiutarlo ad esprimere ciò che prova, ciò che sta tentando di dire dietro le parole. Ascoltare le loro emozioni vuol dire semplicemente ascoltarli, vuol dire dirgli: “Quello che tu stai vivendo è importante. Tu sei importante”. Un figlio educato così, cresce percependo il suo valore e con un senso di sicurezza consistente. Ma se quello che vivo non interessa a nessuno, come mi sentirò? E perché dirlo?
Il gioco dev’essere relazionale: perché se vinco sempre io, se ti batto sempre e ti umilio, tu non ti diverti più. C’è un genitore che gioca con suo figlio. Quando fanno alla lotta lui vince sempre (ha trent’anni di più!). Lo mette sempre sotto e ha bisogno di dimostrare chi è il più forte. Quando giocano a calcio, e lui ovviamente vince sempre, lo prende in giro.
L’amicizia dev’essere relazionale: perché se tu non hai mai bisogno di me io mi sento inutile; e se tu, invece, hai sempre bisogno di me, io mi sento utilizzato.
Sono sicuro che tutti voi conoscete quegli amici (amici!?) che vi chiamano solo quando la fidanzata li ha lasciati e quando ne trovano un’altra non si fanno più sentire. Oppure quelli che quando alzate la cornetta del telefono e sentite la loro voce dentro di voi vi dite: “Sentiamo cosa vorrà adesso?”.
La preghiera è relazione. Non quanto dico a Dio, ma quanto mi apro a Lui. Potrei non dirgli nulla e parlargli. E posso parlargli un sacco e in realtà parlarmi addosso.
La relazionalità dev’essere lo stile di ogni cosa. Vivere in uno stile relazionale vuol dire vivere secondo il modello trinitario.
Io devo lavorare sulle mie relazioni. Io vengo da una relazione. Da mio padre e da mia madre io ho preso non solo il cognome e i tratti fisici, ma soprattutto i caratteri dell’anima. Quelle sono state le mie prime e fondamentali relazioni. Quello è l’imprinting della vita, finché io non decido di cambiarlo.
In una famiglia ci sono tre fratelli: una sorella, un fratello nato tre anni dopo, un’altra sorella nata sei anni dopo il fratello. Il padre era spesso al lavoro e non si interessava molto dei suoi figli. Delegava tutto alla moglie.
La moglie doveva anche badare alla casa e a tutte le faccende. La madre era molto frustrata affettivamente, perché lui non c’era mai. Soffriva di qualche attacco di depressione e “faceva tutto per i figli”. Il rapporto di coppia divenne via via sempre più superficiale e di routine. Lei aveva i figli; lui il lavoro e gli amici del bar.
La prima figlia era la perfetta. Brava, bella, tutto quello che faceva era buono. La madre si appoggiava molto su di lei e lei divenne il secondo coniuge di casa. Si creò un’alleanza fortissima tra madre e figlia. Era impeccabile, ma non fece mai la figlia. Così da adolescente iniziò ad avere attacchi di panico e iniziò un forte isolamento. Le sue relazioni erano caratterizzate dalla paura. Aveva un bisogno d’amore enorme, ma non voleva cedere, non voleva ammetterlo, non voleva lasciare l’immagine di donna che basta a sé.
Il secondo era un maschio. La madre non lo amava molto, anzi. Anche se non glielo diceva, dentro di sé pensava: “Sei come tuo padre! Siete tutti uguali voi maschi, menefreghisti!”. E pensando così, e come modello suo padre, divenne tale. Crebbe senza educazione, suo padre lo assecondava ma non lo educava, sua madre non interveniva, e divenne un narcisista molto forte. Una corazza tremenda, uno apparentemente forte come l’acciaio, ma in realtà incapace di provare anche il minino sentimento. Nelle relazioni fu un vero disastro: doveva dimostrare alle donne la sua maschilità e agli uomini la sua superiorità, ma non sapeva provare affetto e amore.
La terza arrivò per sbaglio. Né il padre né la madre la volevano. Era mal sopportata da entrambi i genitori. Lei lo sentì subito di essere nata in un ambiente ostile. Da una parte era la bambina più buona del mondo (per forza!: se era mal sopportata come avrebbe potuto darsi il permesso di disturbare...); dall’altra, però, era sempre ammalata, “ne aveva sempre una” (era il modo con cui costringeva la madre a prendersi cura di sé). Crescendo divenne timida, ipersensibile, chiusa e riservata. Nelle relazioni era la donna invisibile. A lei andava bene sempre tutto.
Le mie relazioni sono il mio destino, finché io non ne sono consapevole. Cioè, mi piaccia o no, mi determinano. Questi tre figli ebbero gli stessi genitori eppure furono personalità molto diverse da loro. Ma solo apparentemente, perché nel profondo soffrivano tutti della stesa cosa: un buco d’amore. Tutti e tre ebbero delle relazioni distorte e soffrirono di un’ enorme solitudine.
Le mie prime relazioni sono il linguaggio che io ho imparato. Se sono nato in Germania, ho imparato il tedesco. Se sono nato in Francia, il francese. E’ ovvio. Questo non vieta però che io possa impararne altri. Imparare altri linguaggi vuol dire rivedere le mie relazioni, tenere quello che mi va e cambiare tutto ciò che mi fa male, che mi fa soffrire, che mi rende dipendente, anaffettivo, impaurito o altro.
A volte le persone si lamentano e dicono: “Nessuno mi ama! Sono solo!”. A volte questo è vero, ma in genere bisogna rispondere loro: “Ma chi vuoi che ami uno come te!”. Cioè: non solo noi abbiamo il diritto di essere amati, ma abbiamo anche il dovere di renderci amabili.
Non solo gli altri ci rifiutano, ma a volte hanno anche ottimi motivi per farlo. Se nessuno ci ama, forse, vale la pena di chiedersi se non dipenda da noi.
C’è una persona che quando le dai un po’ di corda diventa una sanguisuga. E’ ovvio, tutti la evitano. E così lei si sente sempre rifiutata. Dice sempre: “Che mondo di merda!”. Sì, vero; ma vero anche che avere una come te come amica, è avere una palla al piede.
C’è un uomo che dice: “O gli altri mi accettano così o vuol dire che non mi amano”. E’ un ragionamento “del piffero”, perché vuol dire che tu non crei relazioni. Tu eserciti il tuo potere perché gli altri si sottomettano a te (tu la chiami accettazione), ma tu non vuoi fare neppure un passo verso di loro. A persone così bisogna serenamente dire: “E stattene da solo! E non lamentarti”.
Una donna pretendeva dall’amica che la andasse sempre trovare. Ma quando si trovavano l’unico discorso della donna era il vicino di casa, quello che ha fatto questa o quell’altra. L’amica non ne poteva più. All’ennesima accusa: “Perché non vieni mai a trovarmi?”, l’amica rispose: “Perché non sei interessante!”.
Io ho bisogno di guardare al mio modo di rapportarmi con gli altri. Io ho bisogno di guardarmi in faccia, di vedere come io mi relaziono, come io sono quando sto con gli altri.
La fisica ci dice che tutto è relazione. Se cambio un elemento qualsiasi, anche gli altri variano.
La comunicazione ci dice che tutto è in relazione: se cambio il mio modo di rapportarmi anche l’altro deve cambiare.
L’esperienza dice che veniamo da una relazione tra un uomo e una donna.
La natura ci dice che tutto è relazione: se tu cambi o alteri la natura, cambi e alteri anche la tua qualità di vita.
Le dinamiche familiari ci dicono che il benessere o il disagio sono frutto di determinate relazioni.
La bellezza della vita è data dalla capacità di avere relazioni significative, profonde, intense e durature.
L’amore è relazione, apertura nel dare e ricevere dove ci si incontra nelle profondità del corpi, dei progetti e delle anime.
La maturità personale è la relazione sana che io ho con me stesso.
La preghiera è la relazione, la comunicazione con Dio.
La fede è la relazione con l’Altissimo che permea la mia vita.
La relazione è la struttura non solo della materia, non solo delle persone, ma di ogni cosa. Tutto è in relazione. C’è una interdipendenza di tutte le cose. Noi siamo creature fatte per la relazione.
La Trinità ci ricorda che tutto è relazione.
La Trinità ci ricorda che il Tutto è Relazione.
La Trinità ci ricorda che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo.
Pensiero della Settimana
“Vengo a trovarti domani”, disse un amico ad un altro.
“Che palle, viene a farmi perdere tempo”, pensò il condizionamento.
“Che bello, che opportunità”, pensò la relazione.
Tutte le cose sono condizionamento o relazione.