TESTO Fratelli, non amiamoci solo a parole...
V Domenica di Pasqua (Anno B) (10/05/2009)
Vangelo: Gv 15,1-8
1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
“C'è nel tempo in cui viviamo una grande scarsità di amore. Intimamente sentiamo che il 'volersi bené è davvero il clima di ogni vita, che sia davvero tale, ma oggi è facile dire 'ti amo', ma spesso è solo un modo di dire e non una verità. La ragione forse è nel fatto che siamo attratti dall'egoismo, che mette sempre in primo piano se stesso, non accorgendosi che così ci creiamo una casa senza porte e finestre, ossia viviamo al buio”.
C'era un tempo in cui si era davvero poveri di cose, ma questa povertà lasciava tanto spazio all'amore, in famiglia e nella società.
La grandezza di un uomo si misura dalla profondità con cui sa tessere i rapporti con gli altri che gli sono vicini o che si incontrano nella vita, creando così rapporti che diventano, non solo sicura condivisione in tutto, ma costituiscono solide fondamenta su cui regna la fiducia. Ed è essenziale per la vita questo modo di stare insieme o vicini: un grande dono.
Così come la fragilità o nullità di un uomo è nella superficialità dei suoi sentimenti: questi apparentemente hanno manifestazioni chiassose, che sembrano 'esprimere' chissà quale amore, ma in effetti sono tanto effimeri, che non sanno andare al di là delle parole o dei gesti manifestati con facilità e apparente effusione. Purtroppo questo nostro mondo è intriso di questo effimero 'abbracciarsi', per poi altrettanto rapidamente 'dimenticarsi', tanto che quasi non è più credibile la parola amicizia.
Ci definiamo tutti amici: in apparenza ne abbiamo tanti, forse troppi, ma quando ci guardiamo 'dentrò o cerchiamo la loro mano, o vorremmo posare il nostro capo sul loro petto, come fece l'apostolo Giovanni con Gesù nell'Ultima Cena, facilmente incontriamo un vuoto spaventoso, che rivela la misura dei nostri rapporti: un 'girare a vuoto' attorno alla grande e necessaria realtà dell'amore.
Qui e proprio qui è uno dei profondi dolori che vivono in tanti: quello di sentirsi soli, non abbastanza amati, o amati senza la necessaria profondità.
Così ci ammonisce oggi l'apostolo Giovanni: “Figlioli non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità, e davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa egli ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera di nulla, abbiamo fiducia in Dio; e qualunque cosa chiederemo la riceveremo da Lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che è gradito a Dio” (I lett. Gv. 3, 18-24).
Sono parole chiare, che non dovrebbero avere bisogno di commenti: il comando di Dio è che amiamo tutti senza eccezioni, tutti quanti il Signore mette sulla nostra strada, e non solo 'con la lingua', che sa sempre trovare bellissime - a volte ingannevoli - parole, che fanno solo parte dei sogni facili da comporre. Se le parole di amore che si dicono tutti i giorni, ovunque, dall'interno delle nostre famiglie, sulla strada, nel sacrario dell'amore che è la Chiesa, quando celebra i grandi eventi di Dio che ama e si dona, diventassero nostra vita, avremmo un mondo senza nuvole e di una serenità primaverile. La realtà invece è che si ha l'impressione di viaggiare nel buio pesto.
Dobbiamo diventare capaci di 'amare coi fatti e nella verità'.
Ho sempre sperimentato, in tanti anni di vita pastorale, attraversati da fatti di grande sofferenza, come i terremoti, che, davanti al fratello che soffre per mancanza di casa, di speranza o di altro, che sono poi le infinite croci della vita, le parole sono accolte nella misura che sono accompagnate dai fatti.
Ricordo i primi giorni del terremoto nel Belice, quando tutti avevamo perso tutto e ci era rimasta solo la vita, per grazia di Dio, era facile provare quel vuoto interiore, che ci soffoca quando sembra di essere arrivati al capolinea della tragedia. L'unico bene era l'amarci. Faceva freddo, non avevamo proprio nulla, vivevamo all'aperto, ma di fronte alle sofferenze di chi ci era vicino, ci si toglieva il soprabito o altro per donarlo a chi vedevamo soffrire di più.
Una gara di generosità che mi commuoveva e che fu il più bel capitolo del'amare con i fatti', che ho vissuto. Così come era per me e per i miei confratelli una vera ansia di farci vicini, anche solo con un sorriso o un aiuto. Nella notte percorrevo le strade di campagna, passando vicino ai gruppi, gridando: 'Come state? Passerà questa brutta notte e ritornerà l'alba'.
Un capitolo di storia di amore vero, concreto, che ci accompagnò per tanti anni, fino alla ricostruzione.
Eravamo tre sacerdoti con la paura in gola, ma che non soffocava l'amore.
Quella notte, quando tutto era caduto e si era come messo fine alla storia di una comunità, l'unica preoccupazione era di sapere se nelle case era rimasto qualcuno da soccorrere.
Ricordo come il buio del paese distrutto, caduto in un silenzio irreale, aveva una sola voce: 'C'è qualcuno in difficoltà?'. Ne trovammo una ventina che faticosamente, con ogni mezzo, ponemmo al sicuro. Era il momento di amare 'non a parole, ma con i fatti', mettendo in secondo piano la propria sicurezza.
L'amore, che è 'dare la vità a chi non ne ha, per noi cristiani, ha la sua origine, non solo dal comandamento: 'Amatevi come io vi ho amati', ma ha una sorgente nell'Amore stesso del Padre, ossia da come viviamo il nostro rapporto con Dio, che non è assente, non assiste impassibile, non è estraneo agli eventi della nostra esistenza, anzi desidera che la nostra vita sia totalmente immersa in Lui e possa così ricevere ispirazione, forza, fino all'eroismo.
È lo stesso Gesù che oggi ce ne parla. Scrive Giovanni nel Vangelo: “Gesù disse ai suoi discepoli: 'Io sono la vera vite e il Padre è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto lo toglie e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può fare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se voi rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate frutto e diventiate miei discepoli” (Gv 15, 1-18).
Parola impegnativa da parte di Dio nei nostri confronti. Parole che ci fanno riflettere sulla ragione di tanti nostri fallimenti o - Dio voglia - di tanti frutti.
E’ desolante vivere, affaticarsi, soffrire, ed alla fine avere la sensazione di essere a mani vuote....come dei falliti. E di questi poveri ce ne sono tanti.
Ma non sono 'falliti' i santi della carità, come Madre Teresa di Calcutta, e tutti i santi che hanno fatto e fanno della vita 'nascosta in Dio', ma nutrita dal Suo Amore, una 'vite colma di frutti'. Basta del resto dare uno sguardo a questo mondo che si affanna tanto per vedere da una parte i tanti che sono 'rimasti a mani vuote' perché le loro fatiche erano solo affanno senza amore e, dall'altra, scoprire come Dio sa coprire i tralci dí frutti, quando trova persone che sanno 'rimanere in Lui'.
Così scriveva Paolo VI, il 21 agosto 1964:
“La vita cristiana è come un sole che risplende su l'insieme dei nostri giorni.
Figlioli miei, se questo sole finisse per spegnersi, che cosa si perderebbe?
Alcuni dicono niente. E invece si perderebbe il senso della vita.
Perché lavorare? Perché amare gli altri? Perché essere buoni, essere onesti? Perché soffrire? Perché vivere, perché morire, se non c'è una speranza sopra di questa nostra vita pellegrinante sulla terra?
È una vita cristiana immersa nell'amore del Padre - giova ripeterlo - a dare il senso, il valore, la dignità, la libertà, la gioia, l'amore al nostro passaggio sulla terra.
Per questo l'invito paterno: 'Rimanete in me e io in voi' vuoi essere possente come un grido che dovrebbe rimanere come ammonimento.
Bisogna subito chiedersi con generosità di intenti: che significa per prima cosa essere cristiani?
Vuol dire accorgersi, ed essere coinvolti, che siamo amati da Dio; che lassù c'è Chi ci vuol bene: una Provvidenza esiste su di noi; l'amore del Padre ci guarda, e una tenerezza infinita ci ammanta.
Questo Amore si fa fratello per le nostre strade, ha sofferto per le nostre angustie, ha parlato la nostra lingua, è perfino venuto accanto a noi per guarirci, per istruirci e chiarire a ciascuno: voglio stare sempre con te, quale Principio e quale Fine: Io sono il tuo Pane, il tuo Maestro, la tua Forza e la tua Guida”.
Può il Padre dire di più per manifestare il Suo Amore?
Ma per viverlo occorre sapere uscire da noi stessi, dai nostri piccoli e angusti interessi e amare in grande: ciò è possibile solo se si 'rimane ogni giorno in Dio'.
Un'utopia? No.
la sola regola del vivere qui, assaporando la dolcezza di essere amati da Chi è l'AMORE.
Voglio augurare a tutti i nostri fratelli, che hanno subito il terremoto, che non solo sentano sempre vicino Chi li ama, ma che trovino una politica saggia dei fratelli, che non ripeta i gravi ritardi del Belice, e non permetta mai che la speranza venga meno, ma soprattutto che essi sappiano insieme scambiarsi amore, rimanere comunità.
Dopo il terremoto del Belice, noi sacerdoti, su un piccolo rialzo del terreno, installammo una piccola statua intitolata: 'Maria, Speranza nostrà, come ammonimento a non abbandonarsi mai allo sconforto, ma sempre sperare, sostenuti dall'Amore, oltre che del Padre, di Maria. E rimaniate sempre nel cuore di tutti, e tutti, con voi, possiamo essere sentinelle della vostra resurrezione. Auguri!