TESTO Laetare
IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno B) (22/03/2009)
Vangelo: Gv 3,14-21
«14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Il cammino di conversione verso l'alleanza definitiva con Dio, sancita nella Pasqua, nella morte e Risurrezione di Gesù “innalzato perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Vangelo) non è in riferimento solo al nuovo modo di pensare Dio, di sentire la sua presenza, di guardare alla vita dal suo punto di vista, si apre sacramentalmente, adesso, alla sua Grazia, al suo amore gratuito, non meritato, più forte di ogni nostro passato, ripieno del suo spirito di misericordia che ci proietta rinnovati nel tessuto dei nostri giorni. L'abbiamo appena ascoltato dall'Apostolo Paolo: “Per grazia siete stati salvati”; “Per la sua misericordia da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere in Cristo”. Quella “Grazia”, dice Paolo, vale anche “per i secoli futuri”, vale, oggi dunque per noi. Per noi quella fede che è toccar con mano nel sacramento quanto sia decisivo il perdono come tangibile il ministro che rinnova il dono: io ti assolvo, Fede che permette il salto, il balzo, la speranza di non rendere inutile l'esistenza per il male che si insinua nei pensieri, incattivisce le parole, affatica la vita e la disperde in mille azioni, già morte appena compiute. Grazia che apre alla carità, a quelle opere buone, dice San Paolo, che Dio stesso “ha preparato perché in esse camminassimo”.
Con questa certezza ci affacciamo (prima lettura) sul secondo libro delle cronache dove la Parola di Dio illuminando il nostro operato rende non solo possibile ma doveroso il ritorno. “Tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà”. Sta qui la radice del nostro male: la infedeltà. Essa nasce dai sentimenti mutevoli, dalle circostanze della vita, dall'appoggiare pensieri e desideri, scelte e valutazioni sul pensiero e l'azione della maggioranza, dell'edicola di oggi così smaccatamente idolatrica del proprio “io”, del proprio progresso, scienza, ragione, laicità... ma anche così in mano di pochi, determinati, a sopprimere anche solo l'idea di Dio, ancor più la sua legge e la sua parola, arrabbiati come raramente verso coloro che mettono in guardia dall'allontanarsi dal Signore e dal senso di umanità che ha messo nell'uomo, più forte e più sicuro di ogni legge ottenuta con la manipolazione, attraverso la “sensazione” delle coscienze, per creare maggioranza. Se questo è il peccato dei capi, lo diventa dei sacerdoti quando più che il bene amano la tranquillità, lo diventa di ognuno quando il pensiero dominante è “io non do niente a nessuno! Ma non chiedo niente”. O: “la mia preghiera è di non aver bisogno di nessuno”. Allora il peccato è dimenticare che siamo relazione, che nella vita bisogna accettare di amare e di essere amati. Allora la ribellione, dice il Signore, “raggiunge il culmine”. C'è poi il peccato di infedeltà a Dio. Preghiamo poco e male. Non sappiamo dire “grazie”, non sappiamo chiedere perdono, non sappiamo essere fedeli alla Parola ascoltata. Le nostre giornate sono un insieme di occasioni perse per offrire al Signore, per vivere in dialogo con Lui. C'è l'infedeltà alla educazione ricevuta, alla pazienza nell'educare, a rimanere fedeli al patrimonio di valori e di fedeltà che hanno fatto di noi un popolo, una cristianità.
Eppure Dio non finisce di stupire. Allora, con Ciro, mille altre volte dopo sciagure pensate insuperabili. Riprova, Dio, con ognuno di noi oggi a dire: “Chiunque appartiene a questo popolo, a questa fede che diventa fedeltà e fiducia... il Signore suo Dio sia con lui e salga”. Sì, saliamo verso il monte dove il Crocifisso rivela la verità più vera sulla nostra vita: “Dio non ha mandato il suo figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
Il giudizio è già stato dato. Quello di Dio è che possiamo farcela: la luce è venuta. Il Vangelo è aperto. La vita è stata definita nella sua relazione con Dio. Chi crede non è condannato anche se ha sbagliato. Quello dell'uomo è facilmente componibile: chi ama più le sue idee dell'umanità; chi segue più il suo potere che il bene comune; chi è mosso solo dall'odio, dal rancore; chi trama nel buio a danno del suo prossimo è giudicato dal suo stesso comportamento che non conduce a nessun futuro. “Chi fa il male odia la luce e non viene alla luce” perché sa che le sue opere sarebbero riprovate.
Noi qui, davanti a Cristo, noi qui popolo con le sue mancanze di fedeltà alla vita, alla famiglia, allo studio, al lavoro, ai bisognosi e anche alla propria comunità! Noi qui peccatori ma non rassegnati al peccato ci apriamo alla Grazia, ci apriamo all'Alleanza che in Gesù il Padre ci offre. Noi qui veniamo alla luce “perché appaia chiaramente che le nostre opere sono fatte, vogliamo farle in Dio”.