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TESTO O Dio, abbi pietà di me peccatore

don Romeo Maggioni   Home Page

Ultima domenica dopo l'Epifania (Anno B) (22/02/2009)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Il Racconto del pellegrino russo - un bel libretto di spiritualità orientale - suggerisce la preghiera da ripetersi come un rosario al ritmo del respiro: “Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”.

Alla benevolenza del cuore di Dio, sempre pronto a perdonare, deve corrispondere un simmetrico atteggiamento dell’uomo a chiedere perdono. “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

La parabole del fariseo e del pubblicato ci richiama una diversa immagine di Dio che l’uomo si fa e, di conseguenza, due atteggiamenti diversi da avere con lui; assieme a rapporti diversi anche con i propri simili.

1) DAL DIO GIUSTO AL DIO BUONO

Il fariseo dice: io faccio il mio dovere, Dio che è giusto mi deve pagare! Il pubblicano: io valgo niente, anzi sono in grande debito davanti a Dio: mi affido solo alla sua misericordia. Non che Dio non sia giusto, ma la nostra giustizia davanti alla sua.. è miseria. Intendendo per giustizia il nostro corrispondere a quel che lui ci dona, a quel che si attende da noi, a quel che dovrebbe essere alla fine anche la verità di noi stessi, la nostra riuscita e la nostra felicità. Il senso del peccato lo si ha quando si commisura la propria condotta non sul progetto che uno può farsi di sé, né tanto meno sul progetto realizzato dagli altri (di fronte al quale ci sentiamo sempre in qualche modo più bravi..!), ma sull’unico progetto di Dio che ci vuole “santi” come lui, cioè figli fedeli per divenirne eredi. “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

Da qui il giusto atteggiamento del pubblicano, che confida non nelle sue opere di giustizia, ma nella larghezza di cuore di Dio che vede la nostra fragilità e ci dà credito coll’invitarci a riprendere da capo. Sant’Ambrogio diceva: Non è santo chi non pecca mai, ma chi, una volta caduto, sa rialzarsi. Questo è il perdono di Dio: uno stimolo per un nuovo inizio sempre. E’ questa ripresa - oltre ogni orgoglio e scoraggiamento - che chiamiamo umiltà, e che Dio apprezza. “Chi si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. In fondo si tratta di credere - di accettare - che non è da noi essere capaci di giustizia, ma solo suo dono. “E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore” (Fil 2,13). Il contrario invece è il sentimento del fariseo: convinto di aver lui la capacità del bene, e quindi la pretesa di una ricompensa.

Non che Dio sia indifferente allo sforzo umano, quindi alla fedeltà o meno. Il suo, con noi, è un rapporto d’amore sponsale, e nella sofferenza di vedersi tradito, scatta il richiamo della gelosia: “Per un breve istante ti ho abbandonata.., in un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto” (Lett.). Ma in questo Sposo prevale il perdono: “Con affetto perenne, ho avuto pietà di te. Mai si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace” (Lett.). Il fondamento è un amore fedele, tenace, appunto sempre pronto a ricominciare un rapporto anche se tante volte tradito. “Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? - dice il tuo Dio” (Lett.). Fino al giuramento: “Giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti” (Lett.). Che è il Dio presentatoci da Gesù

2) PERCHÉ GIUDICHI IL FRATELLO?

Il fariseo qui è protagonista. “Io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano”. Oltre ad avere la presunzione di essere giusto, disprezzava gli altri. Gesù veramente allude ai farisei di sempre, anche a noi: “Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Storia di sempre. Intransigenza e pattume: chi si arrocca nella propria alta setta di perfetti, tratta gli altri come pattume. La superbia dell’uomo religioso è la più pericolosa. E si irrita vedendo che Dio perdona e ha cura “dei pubblicani e delle prostitute”. Un giorno Gesù ebbe a dover rimproverare chi si credeva più meritevole degli altri: “Sei tu invidioso perché io sono buono?” (Mt 20,15).

Oggi Paolo ce lo richiama esplicitamente: “Tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello?” (Epist.). Lasciamo a Dio il giudizio, che vede in fondo al cuore tutti .. i condizionamenti e le attenuanti anche di chi sembra il più sfacciato malvagio. Anche perché abbiamo già noi di che preoccuparci quando “ci presenteremo al tribunale di Dio, .. dove ciascuno renderà conto di se stesso”. L’esortazione è anzi di andare oltre: “D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello” (Epist.). Perché appunto qualche colpa l’abbiamo anche noi nel condizionare al male i fratelli che ci stanno vicino!

E forse bisognerebbe completare il discorso col dovere del perdono. Non solo non giudicare, non solo non essere di inciampo, ma arrivare al perdono di chi ci fa del male. Questa è la conclusione logica di chi è perdonato: saper lui pure perdonare! Gesù ha la parabola del servo che, condonato il suo debito da parte del padrone, non ha saputo fare altrettanto per un debito ben più piccolo per il suo collega (cf Mt 18,23-35). Nel condannarlo, Gesù aggiunge: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello” (Mt 18,35). E ci ha insegnato a pregare: “Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 612), condizionando in un certo senso il suo perdono al nostro.

Naturalmente il perdono di Dio è sempre disponibile per un cuore pentito. Il luogo dove questo pentimento si invera e approfondisce (passa da “attrizione” a “contrizione”, dice il Concilio di Trento) è il Sacramento della Riconciliazione celebrato nella Chiesa che al tempo stesso sancisce oggettivamente e ufficialmente il perdono concesso da Dio. “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,22-23). Tutta l’opera di ritorno a Dio, o conversione o penitenza, è sotto l’azione dello Spirito che prepara e porta a compimento nella Chiesa la restaurata giustificazione già ricevuta una volta nel battesimo: “E’ la seconda tavola di salvezza dopo il naufragio della grazia perduta” (Tertulliano).

 

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