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TESTO Terremotati, nostri amici

mons. Antonio Riboldi

XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (19/10/1997)

Vangelo: Mc 10,35-45 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 10,35-45

35Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». 37Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». 39Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

41Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

E' diventata ormai come un'abitudine, dal primo terremoto in Umbria e nelle Marche, "chiedere" più volte al giorno al Televideo cosa sia successo in quelle care terre, provate da uno sciame di terremoti che sembra abbiano tolto ogni fiducia nella scienza e, soprattutto, nella propria vita.

Lo faccio con la passione di chi sente che la sofferenza dell'altro, come la sua speranza, gli appartiene; con la pena di non poter essere là, accanto a chi è stato chiamato alla sofferenza, per fargli sentire il calore di una stretta di mano, la dolcezza di non essere soli.

Certamente questo "vivere intensamente" il grande dramma dei terremoti, così possiamo chiamarlo ora, mi viene dall'esperienza fatta in Sicilia nel non tanto lontano 1968. Era gennaio, faceva freddo ed il terremoto ci spogliò di tutto: casa, vestiti, pane, serenità. La nostra sfortuna, come quella dei fratelli di Umbria e Marche, fu di essere stati come cacciati dalle nostre case e dai nostri paesi da un seguito di scosse telluriche durante il giorno, che convinsero quasi tutti a cercare il riparo nell'aperta campagna, stretti l'uno vicino all'altro, come a farsi coraggio. Le case, le nostre care case, d'improvviso diventarono una minaccia da evitare. Eppure quelle case erano costate il sacrificio di tante generazioni. Gente che per costruirle o acquistarle aveva trascorso anni di emigrazione.

La poca gente rimasta in paese, tentando la fuga al momento sbagliato, perse la vita. Tutto fu raso al suolo: chiese ed edifici pubblici, case e piazze,; senza lasciare neppure un pallido ricordo di ciò che erano. Iniziò la lunga via crucis della paura, dei disagi nelle tende e nelle baracche. Una lunga sofferenza che poteva essere più breve, se sulla pelle della gente non fosse nata la "voglia di profitto", "lo scandaloso scippo" come lo definì l'On.le Pertini.

Conosco molto bene cosa voglia dire vivere nel fango, in cerca anche del necessario; la lentezza degli aiuti; la paura che tutti finissimo in una voragine senza speranza.

Capii che l'unico posto che poteva occupare la Chiesa, ossia la certezza che Dio era vicino a noi e ci avrebbe sostenuto, era la strada, la tenda. Ed erano liturgie talmente significative quelle celebrate nel fango o tra le tende, che non riesco a cancellare, come appartenessero ad un presente che non conosce passato, ma è il futuro della speranza.

E' vero, molti ci furono vicini, soprattutto nell'emergenza, a volte fino a soffocarci. Poi, lentamente "la notizia del terremoto" scomparve dalla memoria e fummo lasciati soli con il compito del nostro domani, che chiede grande fede e coraggio anche solo pensarlo, prima di progettarlo.

Sono state scritte tante cose sui terremoti dell'Umbria, sulla Basilica di S. Francesco, sulla torre di Foligno e via dicendo.

Al pubblico potere posso solo dire: fate bene ed in fretta perché la lentezza della politica non sia peggiore del terremoto. Ma a tutti voglio dire: non lasciamoli soli questi nostri fratelli, fino alla loro resurrezione. Ho conosciuto sulla pelle il grave male di essere lasciato solo. A volte, quando alzavo la voce, divenuto voce di chi non l'aveva, "sentivo" il fastidio dell'opinione pubblica, come se fossimo accattoni e non gente da privilegiare. In un primo tempo, il tempo delle necessità primarie, sono di grande aiuto e conforto la generosità che arriva da ogni parte. Ma poi, al momento della ferialità della sofferenza, nell'attesa di una ricostruzione, è facile dimenticare.

Vorrei augurare e pregare per me e per tutti di considerare i nostri fratelli terremotati come "ospiti" di casa nostra, sempre. Sapeste quanto fa bene anche solo sapere che c'è chi ti ama e condivide le tue ansie, sofferenze e speranze!

Ai cari amici colpiti dal terremoto vorrei dire le parole di Dio per bocca del profeta Geremia: "Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li condurrò a fiumi d'acqua per una strada diritta in cui non inciamperanno; perché io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito" (Ger. 31,9).

E che S. Francesco, ancora una volta, vi aiuti a "riparare le vostre case e chiese!"

 

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