TESTO Commento Matteo 22,15-21
XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (19/10/2008)
Vangelo: Mt 22,15-21

In quel tempo, 15i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
«Rendete, dunque, a Cesare quello, che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Una frase ormai celebre, questa, che conclude il Vangelo di oggi, una frase ricorrente nei discorsi di credenti e no, quando si parla di questioni di giustizia, quella distributiva, in particolare, il cui principio fondamentale è: dare a ciascuno il suo.
Il passo di Matteo, che racconta del tranello teso a Gesù da farisei ed erodiani, insieme, ci introduce ad una riflessione su questa virtù, cardine della vita morale, e della vita sociale, che, quando si qualifica come cristiana, assume dei doveri in più.
Al tempo di Gesù, quando si svolsero i fatti narrati da Matteo, in Palestina, vigeva un sistema fiscale piuttosto gravoso, inviso agli abitanti di quella regione, perché imposto dall'impero romano: l'odioso occupante, che si arricchiva, anche coi tributi dei Giudei.
Le imposte da pagare a Roma erano, come del resto è oggi, diversificate: c'era un'imposta fondiaria, per terreni agricoli ed urbani, c'era un'imposta per gli edifici, e c'era un'imposta sulla ricchezza mobile, la ricchezza personale, e, sicuramente a quest'ultima si riferisce la domanda fatta, tendenziosamente, a Gesù.
A queste tasse, dovute all' istituzione civile, si aggiungevano, poi, quelle religiose, come le decime, la tassa da pagare al tempio di Gerusalemme, tassa quest'ultima, che riguardava indistintamente tutti, in Israele, che risiedessero o no nella città santa.
La situazione, perciò, non era proprio felice, soprattutto, a causa della soggezione a Roma, quei pagani, i cui esattori, che fossero o no dei corrotti, erano giudicati pubblici peccatori.
In questo contesto di malessere politico, basti pensare al movimento degli Zeloti, che creavano sommosse contro Roma, farisei ed erodiani, per una volta insieme, pensarono, di mettere, in seria difficoltà, quel giovane rabbi, acclamato, seguito e ascoltato dalle folle, un personaggio fuori dagli schemi, che, come recita il testo: "aveva ridotto al silenzio i sadducei..."; così, gli mandano alcuni dei loro discepoli per interrogarlo, appunto, sulla questione delle tasse da pagare a Roma.
Già quelle prime battute: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno, perché non guardi in faccia ad alcuno ..." trasudano falsità; tuttavia, Gesù ascolta la loro domanda che, comunque egli avesse risposto, gli avrebbe creato dei problemi, o con l'autorità politica, se si fosse dichiarato contro le tasse, o con l'autorità religiosa del suo popolo, se si fosse dichiarato favorevole; perciò, "conoscendo la loro malizia", si fa mostrare la moneta del tributo e, a questo punto, è lui, a porre una domanda: "Di chi è questa immagine e l'iscrizione?"; ormai il nodo è sciolto, e la risposta, che spiazza gli interlocutori, diventa, da allora in poi, per tutti, un chiaro invito alla giustizia.
"Rendete, dunque, a Cesare quello, che è di Cesare ...": è un atto di giustizia, la virtù cardine della vita morale e della vita sociale, virtù, che non può esser disattesa, senza ledere il bene comune; essa è virtù fondamentale, perché, là dove non c'è giustizia, si vive nel disordine, e, dove manca rispetto della legalità, si opera iniquamente a danno dei poveri e dei più deboli.
Un grande pensatore antico, definiva giusto, colui che fa le cose giuste, nel modo giusto, con volontà di giustizia; la giustizia, infatti, non è distribuzione automatica di comportamenti, ma esige prudenza e saggezza, unite ad una volontà permanente di giustizia, dato che essa non può essere velleitaria, e, tanto meno, saltuaria, ma deve essere frutto di un'intelligenza, animata dal desiderio di riconoscere e attribuire a ciascuno il suo.
Acquisire questa virtù, non è impresa da poco, che si tratti di chi governa o di chi amministra, come pure di chi, da semplice cittadino, fruisce della tutela e dei servizi che l'istituzione offre.
Sappiamo tutti, che il rispetto per le leggi civili, comprese quelle del pagamento delle imposte, è un dovere, spesso, ingrato, ma è pur sempre un dovere, e, ad esso nessuno deve sottrarsi, e, tanto meno, chi dice di esser cristiano, poiché costui è tenuto, in ogni circostanza, a dare una testimonianza credibile del suo impegno religioso; perciò le parole del Maestro, che comandano di "rendere a Cesare quel che appartiene a Cesare...", suona, per tutti, come un richiamo forte, anche oggi, anzi, soprattutto nel nostro oggi, un tempo, in cui l'evasione e corruzione dilagano a molti livelli.
Il discorso di Gesù, però, non si esaurisce, col tributo da pagare allo Stato: il Cesare di turno, perché non si ferma ad un tipo di giustizia sociale; c'è, infatti, un'altra giustizia, che impegna tutti indistintamente, da "Cesare", fino all'ultimo barbone che vive per strada, e, questa giustizia riguarda ciò che è dovuto a Dio: «Rendete, dunque, a Cesare quello, che è di Cesare - ci dice il Cristo - e a Dio quello che è di Dio».
Ora, a Dio appartiene tutto il Creato, che Egli, fin dalle origini, ha consegnato all'uomo, perché ne usi, ne goda, e ne promuova la vita; perciò, è atto di giustizia il rispetto della natura e delle sue leggi, come è atto di giustizia il rispetto per la vita animale e, in modo tutto speciale, il rispetto della vita umana, dall'inizio alla fine, un rispetto, dovuto ad ogni persona, indiscriminatamente, dato che in essa è presente l'immagine stessa di Dio
Non a caso, Gesù, formulando la sua domanda a coloro che lo avevano interrogato sulla liceità del pagamento dei tributi, aveva posto l'attenzione sulla parola "immagine" ma, se sulla moneta c'è l'immagine di un qualsivoglia Cesare, che rappresenta lo Stato, nell'uomo c'è quella di Dio, che niente e nessuno può ignorare, ed è un dovuto a Dio, il rispetto e la promozione della vita, della dignità, e della libertà di ogni creatura umana.
"Signore, chi è l'uomo, perché sicuri di lui?", si chiede il Salmista, e la risposta, che egli stesso dà, è questa:
"l'hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi ..." (Sl 8).
E' di questa creatura, specchio della sua gloria, che Dio si prende cura, una cura, che il profeta Isaia, nel passo, che della prima lettura, che oggi la liturgia proclama, così descrive:
«Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: Io l'ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi del re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte, e nessun portone rimarrà chiuso. Per amore di Giacobbe mio servo e di Israele mio eletto io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non v'è alcun altro; fuori di me non c'è Dio; ti renderò spedito nell'agire, anche se tu non mi conosci perché sappiano dall'oriente fino all'occidente che non esiste Dio fuori di me. Io sono il Signore e non v'è alcun altro».
Ora, al nome dell'imperatore Ciro, possiamo ben sostituire qualunque altro nome, anche il nostro, perché Dio è vicino ad ognuno, grande o piccolo che sia, si prende cura di lui, veglia sui suoi passi, e lo conduce, nel tempo ed oltre il tempo, alla salvezza eterna; perciò, quando Gesù invita a rendere a Dio, quel, che gli appartiene, ricorda ed esorta a quella giustizia superiore, che i teologi chiamano "virtù di religione", parte della virtù della giustizia, e che, senza intralciare le leggi dello Stato, reclama, a buon diritto, una sua giusta libertà: la libertà di vivere e professare, anche pubblicamente, la propria fede, diritto inviolabile di ogni persona, e atto di giustizia verso Dio, oltre che verso l'uomo, il quale, in tal modo, arricchisce e libera, della libertà vera, la propria umanità.
Sr Maria Giuseppina Pisano o.p.
mrita.pisano@virgilio.it