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TESTO I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio

mons. Vincenzo Paglia   Diocesi di Terni

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (28/09/2008)

Vangelo: Mt 21,28-32 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. 29Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

Tutti noi difficilmente riconosciamo il nostro peccato. Qualche volta ce ne accorgiamo, proviamo vergogna, ma non sappiamo cosa fare. Spesso abbiamo paura di chiamarlo con il suo nome, peccato, cioè qualcosa che supera noi stessi, le nostre intenzioni, eppure conseguenza delle nostre parole, gesti, silenzi, azioni. Cerchiamo - e chi non le trova? - qualche giustificazione per difendere ed assolvere le nostre scelte, per togliere responsabilità, per accusare qualcun altro e sentirci innocenti. Riconosciamo poco il peccato e quindi non sappiamo chiedere e dare perdono. Se temiamo il male e le sue conseguenze ci dovrebbe spaventare non saperlo più distinguere. Spesso, invece, riduciamo il peccato ad uno sbaglio oppure a cattiva educazione o solo a quello che corrisponde ai miei criteri e valori, come se io fossi il criterio di tutto e non ci fosse qualcosa che va oltre di me. Facilmente pensiamo che il male venga da fuori, che siano gli altri a confondermi perché io, per come sono fatto, sono buono. Nessuno, in effetti, è naturalmente cattivo. Nessuno, però, è naturalmente buono! Tutti dobbiamo cambiare e tutti dobbiamo continuare a farlo, perché non cambiamo una volta per sempre e non risolviamo una volta per tutte la nostra lotta contro il male! Il male lo abbiamo dentro il nostro cuore, vero peccato originale, capacità dell’uomo, a volte inquietante altre volte tragica, di fare il male, di non riuscire a scegliere il nostro bene e la nostra gioia. Gesù non condanna e chiama tutti a seguirlo perché crede che possiamo cambiare. Non impone neppure una legge da osservare. Egli rivolge una proposta di amore. Per questo i pubblicani e le prostitute passano avanti nel regno dei cieli, perché credono a quell’uomo che li chiama, prendono sul serio il suo amore, cercano il suo perdono, capiscono la grazia che è la sua fiducia. Passano prima perché non si vergognano di chiedere aiuto, di parlare; perché non fanno finta di essere quello che non sono, non si difendono cercando meriti o giustificazioni, e per questo cambiano la loro vita. Il Vangelo è proprio questa bella, bellissima notizia: possiamo cambiare, il peccato trova il perdono, possiamo essere diversi, nuovi, rinascere dall’alto.

Un uomo aveva due figli e ad ambedue chiede di andare a lavorare nella vigna. Il primo si dichiara pronto, ma poi non ci va. Il secondo, invece, dapprincipio ricusa, ma poi si ravvede e va al lavoro. A questo punto Gesù chiede ai farisei: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Essi non possono che rispondere: “L’ultimo”. Era l’unica risposta possibile. Sono perciò gli stessi farisei a mettere a nudo la contrapposizione tra il “dire” e il “fare”. Più volte nel Vangelo si ripete l’esortazione che non bastano le parole: quel che conta è “fare la volontà di Dio”. Le parole da sole non salvano, occorre metterle in pratica. L’esempio del secondo figlio è efficace: egli adempie la volontà del padre non a parole, che sono anzi contrarie ad essa, ma con i fatti. L’evangelista, nella figura di questo padre terreno, richiama quella del Padre celeste, il quale convoca gli uomini, al lavoro della sua vigna, ossia al servizio del Vangelo e del suo regno. Ed ovviamente il Padre del cielo esige che il lavoro sia svolto davvero.

Compie la volontà del padre colui che torna sulle sue decisioni, chi smette di dire no ed inizia a fare. “Sia fatta la tua volontà”, ripetiamo chiamando Dio Padre. Sia fatta a cominciare da me. Non serve proclamarla con la bocca. Il discepolo è un figlio, peccatore com’è, che smette di aggiustare tutto, che non crede di avere sempre ragione, che si umilia nel lavoro, che diventa servo, che ascolta nel profondo, diviene interiore e sente per sé la parola del padre. Il discepolo non è uno perfetto, ma uno che cambia. Facciamo nostri i sentimenti di Gesù e saremo felici. Dice l’Apostolo: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria. Ciascuno consideri gli altri superiori a se stesso. Non cercate il vostro interesse. Come colui che non considerò un tesoro geloso essere uguale a Dio, ma umiliò se stesso, facendosi obbediente come un servo”. Così, come Gesù, servi di amore andiamo a lavorare la vigna del mondo. Saremo felici e daremo felicità a tanti.

 

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