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TESTO La misericordia

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X Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (08/06/2008)

Vangelo: Mt 9,9-13 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 9,9-13

In quel tempo, 9mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.

10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

È meglio costruire la casa della propria vita sulla roccia della Parola del Maestro Gesù.

Così, domenica scorsa, ci esortava Matteo, pensando, probabilmente alla propria esperienza.

Ci scordiamo, purtroppo, che dietro l'esperienza della fede ci sono delle persone concrete, persone che vivono dimensioni di vita molto simili alle nostre, con sogni, emozioni, fallimenti, fatiche, sussulti.

Come noi, gli uomini della Bibbia sperimentano fallimenti matrimoniali sanguinanti e laceranti, come sperimenta Osea. Come noi, vivono momenti in cui sperano contro ogni speranza, come Abramo citato nella lettera ai romani. Come noi, desiderano portare alla fede altri fratelli, come Paolo che cerca un contatto con i cristiani di Roma. Come noi, sperimentano il dono della misericordia. Assoluto. Infinito. Inatteso.

Come Matteo, il manager senza scrupoli che ha inciampato nello sguardo compassionevole del rabbì di Nazareth.

Feccia

«Il più pulito ha la rogna», dice un caustico proverbio popolare.
Ed era esattamente ciò che dei pubblicani pensava la gente.

Ebrei, collaborazionisti con l'invasore romano, i pubblicani, appaltando le tasse, facendosi scudo dell'autorità ricevuta, non esitavano a fare la cresta su quanto dovuto. Peggio: per i puri di Israele erano pure idolatri, maneggiando monete che recavano impressa l'effige dell'imperatore.

Insomma, dopo gli odiatissimi romani, certamente i pubblicani meritavano tutto il disprezzo dei patrioti e dei benpensanti.

Per Matteo, immaginiamo, tutto quell'odio non era sufficiente per rinunciare ad una attività così redditizia simile a chi, negli anni di guerra, non esitava a vendere al mercato nero prodotti introvabili sfruttando la disperazione e la fame della gente.
Proprio lui Gesù andò a cercare.
Accadde, così, semplicemente come Matteo ce lo racconta.

Il Nazareno si accostò, sorridendo, lo guardò con intensità. Matteo si aspettava un rimprovero, come spesso accadeva da parte dei devoti che andavano in sinagoga e che sputavano in terra quando lo incrociavano.
Invece no. Gesù disse, semplicemente: «Vieni?».

Matteo restò interdetto. Forse si trattava di uno scherzo. Forse quel falegname, ospite dei fratelli pescatori, si era bevuto il cervello. Forse quel profeta di periferia aveva sbagliato persona. O forse no.

Per un attimo Matteo vide nello sguardo trasparente e fermo di Gesù ciò che egli avrebbe potuto essere. Vide che era amato, senza condizioni.

Avrebbe voluto fargli mille domande. Non un suono gli uscì dalla gola.
Andò.

Trent'anni dopo
Matteo scrive questa pagina trent'anni dopo.

Ci sta dicendo: ne è valsa la pena, non è stato il momento inebriante e fuggente dell'evento spettacolare, del ritiro o del pellegrinaggio, della giornata della gioventù o dell'esperienza di Taizè, esperienze travolgenti che devono poi passare al setaccio della quotidianità e della povertà delle comunità parrocchiali.

Trent'anni sono una vita, e Matteo dice a noi suoi lettori: ho lasciato tutto: ricchezza, potere, progetti e ho seguito il folle Nazareno. Ne è valsa la pena, credetemi, è come se la festa che ho dato giunta la sera e a cui Gesù ha voluto partecipare, malgrado fossimo tutti dei rampanti professionisti della truffa', degli spregiudicati manager senza scrupoli, fosse continuata fino ad oggi.
E Gesù ci spiazza, subito.

A chi critica questa scelta ricorda che sono gli ammalati a necessitare del medico.
E lui è un gran medico.

Ma, allora.

Se Gesù è venuto per gli ammalati, perché continuiamo, nella Chiesa, nel mondo, a far finta di scoppiare di salute nascondendo le nostre magagne?

Se Gesù è venuto a cercare gli ultimi, i perdenti, i peccatori, perché ci scandalizziamo tanto del peccato che abita i nostri cuori e, di più, nei cuori degli altri?

Se la Chiesa è la casa della misericordia, la compagnia di coloro che sono stati curati, perché a volte ho l'impressione che si dica, rivolgendosi a chi sbaglia: «Va bene, ma che si sbrighi a guarire!»

La misericordia

La misericordia, amici, è la misericordia che Matteo ha incontrato in quello sguardo.

E tutta la tenerezza che si era negato e che gli avevano negato, tutto il bene che non pensava possibile, tutto il rispetto di chi ti ama davvero, di chi oltrepassa i tuoi limiti, i tuoi peccati, le tue scelte spregevoli e vede in te ciò che tu non vedi più, il santo che potresti essere, lo ha riempito.

Gesù lo ama, senza giudicarlo, senza offenderlo, senza astio o rabbia o moralismo.

Lo ama con libertà e, amandolo, lo fa nuovo. Matteo diventerà ciò che Gesù ha pensato di lui, Matteo diventerà il santo che scopre di essere.

Matteo è sconvolto. Non sa dove lo condurrà questa avventura, non sa ancora cosa succederà; i suoi amici lo prendono in giro, non lo capiscono, ma brindano alla sua fortuna.

Matteo segue il suo istinto: non ha mai trovato tanta gioia in un momento solo, tanto amore in un solo sguardo.
La misericordia ci converte, amici.

Non il timore, non il giudizio, non la legge, non la devozione, non l'etica, non la ragione, non la volontà. La misericordia: l'esperienza del cuore di Dio che supera la nostra miseria, l'amore di Dio che mi aiuta a superare la mia e l'altrui fragilità.

Levi si è convertito perché, per la prima volta, si è sentito amato.

Prima l'amore, poi il sacrifico

Troppi cristiani hanno una visione crocefissa della fede, una visione moralistica dell'agire cristiano, come se dovessimo meritarci l'amore di Dio. Il sacrificio, lascia intendere Osea, è un modo per restare fedeli all'amore. Se ami davvero, prima o poi ti viene chiesto di abbandonare te stesso, i tuoi sentimenti, per amore dell'amato. E' un gesto doloroso, di dimenticanza del sé, un gesto – appunto – sacro.
Ma prima, per favore, mettiamo l'amore.

Forse la presunta crisi della Chiesa (Ma esiste davvero questa crisi?) non è nelle strutture, nell'emorragia di fedeli, nello scollamento con la modernità, nel calo delle vocazioni consacrate, ma nella diminuzione dell'amore.

No, non la metto giù semplice, non lasciamoci travolgere dalla moda buonista.

L'amore, se è davvero amore, può anche essere esigente, aiutare l'altro a crescere.

Matteo, una volta divenuto discepolo, ha abbandonato ogni compromesso con la tenebra: non ne aveva più bisogno.

Ma se il cristianesimo non ci porta a incontrare la tenerezza e a diventarne discepoli, cosa diventa?
Amate, ve ne prego.
Male, in modo imperfetto, ma amate.

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