TESTO Sanare gli infermi
padre Gian Franco Scarpitta S. Vito Equense
X Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (08/06/2008)
Vangelo: Mt 9,9-13
In quel tempo, 9mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Ha scritto da qualche parte Sant'Agostino che vi è una differenza sostanziale fra il malato e l'infermo: ammalato è chi soffre di un malessere fisico per cui si sottopone alle terapie e alle cure dei farmaci e dei medici; infermo è invece "colui che non sta fermo", ossia chi è sconvolto in se stesso, in preda all'irrequietezza e al disordine interno, intrepido con se stesso nel cercare la sua stabilità. L'infermo soffre della propria inquietitudine e cerca in tutti i modi di colmarne il vuoto e raggiungere così la felicità. Di conseguenza è infermo chi si illude di vivere procacciando falsi valori, chimere e disillusioni soprattutto nell'autoaffermazione sugli altri, nel predominio, nell'arrivismo e nella lusinga credendo di poter ottenere l'inverosimile per mezzo della malvagità e dell'egocentrismo, impostando i suoi giorni rifuggendo ogni criterio etico o normativa di vita per procacciare il piacere immediato e il bene effimero; chi presume esclusivamente nella propria autosufficienza vantando ambizioni e mete che esaltino se stesso a svantaggio degli altri, o peggio ancora mostrando refrattarietà verso il prossimo e omettendo di condividere con gli altri le sue risorse mostrando falsità, ipocrisia e mellifluità per appropriarsi degli altri a proprio vantaggio o non avere resipiscenze quanto alle proprie responsabilità con gli altri.
Infermo è pertanto anche chi concede se stesso ai vizi e alle banalità dello sfarzo e del piacere corrompendo perfino il suo corpo e quello altrui con la precarietà fugace e inane del piacere venereo e il mancato controllo dei sensi e nella smodatezza dei consumi anche a discapito degli altri, convinto che non occorra alcun riferimento sacrale o religioso per attribuire a se medesimo una disciplina o una limitazione di vita o interpretando l'etica secondo preferenze del tutto personali e dettate dalla comodità del momento. .
Tale è il peccatore. Questi si fa forte di una dimensione di vita che gli promette ogni sorta di successi che pure egli raggiunge immediatamente, per la quale tutto gli è lecito e ogni cosa gli deriva immediatamente e senza sforzi eccessivi, come anche ogni obiettivo, stando all'interpretazione che egli ne da, gli è possibile. Eppure fondamentalmente non vive in pace con se stesso. Nonostante si trovi chiuso fra tante certezze e riponga la fiducia in se stesso nelle proprie sicumere fallacie caduche, sia pure inconsapevolmente, cerca qualcosa che lo soddisfi ulteriormente e che lo risollevi dalla sua inconsapevole inquietudine; necessita insomma che gli venga colmato il vuoto delle sue continue apprensioni e non di rado il suo atteggiamento di indifferentismo etico e di areligiosità come pure il suo fare perverso e malizioso gli procurano la conseguenza di rovinio e di disfatta in questa stessa vita. Chi si trova anche minimamente a perseverare in una delle situazioni suddette non può che trovare prima o poi le ragioni della propria sconfitta o del proprio isolamento e intanto cerca chi possa colmare la sua lacuna.
Tali riflessioni non evincono dalla sola lettura dei libri, ma nel sottoscritto si sono ingenerate durante un recentissimo ministero di benedizione delle famiglie, durante il quale mi sono ritrovato ad incontrare coniugi, singoli e gestori di negozi o di locali. Soprattutto questi ultimi, alla mia proposta di benedizione o di approccio con la Parola di Dio (che non manca mai in siffatto ministero anche se in misura minima) rispondevano con estremo distacco e indifferenza: "Non ne abbiamo bisogno; non ci interessa; non siamo soliti..." Tracciando il paragone con le famiglie di altri culti cristiani che, pur non condividendo le stesse idee religiose, mi si entusiasmavano nel notare "uno che in ogni caso è un ministro di Dio e che comunque porta la parola del Signore anche se con metodi differenti" rilevavo il danno in cui versa la società odierna in preda alla secolarizzazione quale insignificanza del valore etico e religioso: certamente si otterranno anche vantaggi, successi economici, conquiste e si otterrà anche più di quanto ci si aspetta dalle proprie azioni, tuttavia quanto potranno durare le soddisfazioni che si acquistano prescindendo da Dio? Prima o poi ci si accorgerà in prima persona del danno che si reca a se stessi nel prescindere dalle direttive morali e dai parametri di convivenza cristiana o almeno religiosa o morale.
E in ogni caso rimane il fatto che chiunque scelga deliberatamente il peccato come personale procacciamento di affermazione non mancherà di cadere nel baratro dell'insoddisfazione e dell'infelicità perché in ogni caso si ha bisogno di Dio, intendendosi con questo termine non l'idolo fautore di regali o il propiziatore di grazie immediate o di ebbrezze estatiche che esulano dal quotidiano, ma il Dio Personale trascendente che pur essendo Altro e Infinito vuole farsi Medesimo a noi e piccolo più di noi per condividere con noi problemi e angosce, delusioni, gioie e speranze e farsi lui stesso nostra speranza.
Questi è il Signore Gesù Cristo, Dio stesso incarnato e fattosi uomo per orientare l'uomo verso quello che egli ha sempre cercato inutilmente in se stesso e nelle sue azioni e presunte autosufficienze, l'unico Dio che possa venire incontro alle fondamentali istanze dell'uomo perché sa che cosa risiede nel cuore dell'uomo (Gv).
Non deve stupire il fatto che Dio in Cristo voglia dare la prevalenza ai peccatori nelle sue preferenze e che vada a cercare ad ogni costo, come elemento prezioso, l'uomo che si smarrisce nei meandri del proprio peccato: la rivelazione, di cui un saggio abbiamo nella Prima Lettura di oggi e nell'odierna pagina di Vangelo, ci ragguaglia che il nostro Dio consuma i pasti con la categoria che noi riteniamo tutt'oggi più impensabile e indegna che è quella dei pubblicani e dei peccatori, e in essa anche di quanti vivono negli eccessi e nell'insufficienza del proprio peccato attuale e delle miserie morali perché, innamorato dell'umanità inferma e irrequieta, tende solo a mostrarle misericordia e fiducia, progettando continuamente per i peccatori piani di salvezza reale e definitiva.
Non un Dio di vendetta che convince i peccatori per mezzo di espedienti punitivi e di riprovazione, ma un Dio Padre di misericordia che conosce le fondamentali esigenze del cuore umano e che si mostra sollecito nei confronti di quanti preferiscono il male al bene perché consapevole che in realtà i peccatori sono semplicemente vittime: Dio cerca di colmare le lacune esistenziali per cui si imposta la propria vita nel peccato e comunque mira a riconciliare il peccatore con sé, disperando quando questi preferisca perseverare nello smarrimento e nell'abbandono. Ed è per questo che l'atteggiamento dei farisei è da ritenersi ingiustificato in questa circostanza in cui Gesù invita alla sua sequela il pubblicano Matteo e addirittura si intrattenne a pranzo con lui alla presenza di molti altri commensali di cattiva reputazione: la scelta di sedere con i peccatori rifletteva infatti l'amore del Padre nei confronti di tutti gli uomini, soprattutto di quanti la società escludeva perché "ingiusti": "I malati hanno bisogno del medico e non i sani".
La misericordia di Dio impone però che tutti gli uomini, anche fra quelli che si reputano "giusti" e impeccabili" vi sia la consapevolezza di doversi affidare alla stessa misericordia senza cadere nella presunzione di essere noi stessi migliori degli altri e poter vantare di giudicare e additare quanti sono differenti da noi riguardo alle relazioni con Dio: se Dio chiama a se i peccatori anche la Chiesa, cioè tutti noi, ci sentiremo in dovere di gioire con lui quando la loro riconquista sia avvenuta e intanto reputarci anche noi stessi all'altezza di chi vive nella solitudine del peccato ai fini di poter usufruire dello stesso amore riconciliante di Dio.