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TESTO Commento su Matteo 17,1-9

don Daniele Muraro  

II Domenica di Quaresima (Anno A) (17/02/2008)

Vangelo: Mt 17,1-9 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 1Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.

9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Lo splendore della Trasfigurazione illumina questa seconda Domenica di Quaresima. Per la riflessione però vorrei partire dalla seconda lettura, ossia dal brano della seconda lettera che san Paolo scrive al discepolo Timoteo.

A tutta la seconda lettera a Timoteo la nostra Chiesa di Verona dedica una speciale attenzione durante questa Quaresima.

Esisteva una certa confidenza fra san Paolo e Timoteo. Paolo lo incontrò in uno dei suoi viaggi di predicazione e immediatamente volle che partisse con lui e che lo accompagnasse nelle sue fatiche missionarie. Per quindici anni Timoteo fu prezioso collaboratore di san Paolo e suo fedele delegato presso varie comunità cristiane.

San Paolo associa il suo nome nei saluti iniziali ai cristiani di Filippi nella lettera a loro indirizzata: "Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i credenti in Cristo Gesù che sono a Filippi, con i vescovi e i diaconi. Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo."

La seconda lettera a Timoteo è l'ultima scritta da Paolo, secondo alcuni studiosi solo un paio di mesi prima di che l'apostolo delle genti subisse il martirio.

In questa lettera, affaticato dalla prigionia a Roma e in attesa della condanna a morte, san Paolo invita il suo collaboratore di un tempo a perseverare nella fede, ad evitare i pericoli degli ultimi tempi e a combattere con lui la buona battaglia del Vangelo.

"Figlio mio, abbiamo sentito oggi in apertura della seconda lettura, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo".

Occorre un certo coraggio per invitare un proprio aiutante lontano a tribolare se non proprio a soffrire, a farsi carico dei propri pesi: bisogna che ne valga la pena. Per di più sembra che la causa di questa sofferenza sia il Vangelo.

Sentendo queste parole un cristiano credente senza slanci devoti può essere tentato non solo di fuggire il pericolo, ma di abbandonare del tutto la pratica del Vangelo.

Infatti si sfoga verso la fine della lettera san Paolo, "nella mia prima difesa in tribunale, nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però, aggiunge san Paolo, mi è stato vicino e mi ha dato forza perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo anche i pagani e così fui liberato dalla bocca del leone."

Sono parole di fiducia, ma che non possono far dimenticare la minaccia imminente.

In tutt'altra condizione si trovano gli apostoli con Gesù nel racconto del Vangelo di oggi.

San Pietro sul monte della Trasfigurazione, sopraffatto dall'emozione dello spettacolo inaspettato esclama: "Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne..."

C'era uno spettacolo più affascinante del panorama da contemplare in quel momento per i tre apostoli che Gesù si era preso con sé. Pietro, Giacomo e Giovanni si erano sentiti abbagliati dalla luce che usciva dalla persona di Gesù e si erano fermati come incantati ad ascoltare la conversazione fra Gesù e i due massimi rappresentanti dell'Antico Testamento, Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria.

Arriva poi una nuvola luminosa da cui esce la voce di Dio Padre che riferendosi a Gesù ammonisce i presenti: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo"

Su quel monte, fuori dal mondo i tre apostoli con Gesù molto a lungo non poterono stare e infatti ben presto ritornarono sui propri passi e si avviarono verso valle.

Gesù aveva dato ordine ai suoi apostoli di non parlare con nessuno dell'accaduto per l'intanto ed essi si saranno interrogati nel segreto della loro coscienza sul significato di quel avvenimento.

La preghiera del prefazio che fra poco diremo così riassume ed interpreta i fatti: "dopo aver dato ai discepoli l'annunzio della sua morte, Gesù sul santo monte manifestò la sua gloria e chiamando a testimoni la legge e i profeti indicò agli apostoli che solo attraverso la passione possiamo giungere al trionfo della risurrezione."

Dunque Gesù avrebbe mostrato ai tre apostoli preferiti la sua grandezza divina per incoraggiarli in vista della sua passione, perché non venissero meno nella fede, ma potessero perseverare nella adesione a Lui fino alla mattina della Pasqua, quando di nuovo sarebbe apparso vittorioso sulla morte e glorioso.

Il progetto di bontà e salvezza da parte di Dio (la sua grazia), diceva san Paolo a Timoteo, è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l'incorruttibilità per mezzo del Vangelo."

Dunque san Pietro e san Paolo pur parlando diversamente nei due brani delle letture di oggi, si trovano semplicemente in due stadi diversi dello stesso cammino di fede.

San Pietro è ancora all'inizio, quando tutto pare bello e senza difficoltà. San Paolo invece è arrivato alla fine: "È giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione."

Gesù si è manifestato una volta, ma la sua manifestazione piena sarà solo alla fine dei tempi. In mezzo sta la libertà dell'uomo che può accettare o rifiutare, accogliere o respingere.

Ciò ha delle conseguenze sul nostro modo di intendere la speranza: "Poiché l'uomo rimane libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana...

La sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso... In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L'uomo non può mai essere redento semplicemente dall'esterno.

Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore. Ciò vale già nell'ambito puramente di questo mondo. Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un grande amore, quello è un momento di «redenzione» che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l'uomo è «redento», qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha «redenti». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana «causa prima» del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno insieme con san Paolo può dire: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

 

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