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TESTO L'agnello di Dio

Marco Pedron  

II Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (20/01/2008)

Vangelo: Gv 1,29-34 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Giovanni, 29vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».

32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Con questa domenica ricomincia il tempo ordinario che ci accompagnerà per alcune domeniche fino alla quaresima. Il vangelo di oggi ci ripropone la figura di Giovanni Battista. Nel Quarto Vangelo (Gv) il Battista non è il precursore come negli altri tre ma il testimone. Anche qui Gv Bt rende testimonianza a Gesù: "E' lui vero agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo".

L'espressione, centro del vangelo di oggi, è la stessa che ripetiamo tre volte durante la messa. Ma quest'immagine era ancor più cara e significativa per gli ebrei. Gli ebrei, infatti, all'origine erano un popolo nomade e perciò allevatori di bestiame, attività che mantennero anche dopo il loro insediamento. In ogni epoca l'agnello fu per il popolo alla base di diversi simbolismi.

Il pastore e gli agnelli, le pecore, i capri furono immagini usatissime dagli ebrei. Pensate al famoso salmo: "Il Signore è il mio pastore", oppure a quante volte Gesù usa queste immagini.

Gli agnelli per il loro comportamento, per il loro colore bianco, erano simbolo di dolcezza, di semplicità, di innocenza, di purezza e d'obbedienza. E proprio per questo in ogni epoca è stato considerato l'animale sacrificale per eccellenza.

Quando si diceva "agnello", ad un ebreo venivano in mente una moltitudine di immagini. C'era un giorno, il giorno dell'Espiazione (Yom Kippur), in cui veniva preso un capro sul quale venivano caricate simbolicamente tutte le colpe del popolo. Poi veniva mandato a morire nel deserto. Da questo fatto è nata l'espressione "il capro espiatorio": la persona che prende su di sé tutte le colpe degli altri, le colpe non sue.

E' una forma primitiva per liberarsi dalle proprie colpe. Tutti i popoli in ogni tempo hanno fatto sacrifici per liberarsi dalle proprie colpe. Sacrifico qualcosa di caro, d'importante, perché Dio abbia misericordia e perdoni i miei errori e i miei sbagli. Poiché l'uomo sbaglia (e lo sa!) nei secoli ha sempre trovato delle forme per placare il suo senso di colpa. Così si sono fatti sacrifici di animali o perfino umani; così tuttora l'uomo compie, a volte, delle buone azioni che dovrebbero colmare il divario tra lui e Dio. Ma nessuna buona azione (o preghierina) dell'uomo colma il divario tra l'uomo e Dio, perché solo Dio può fare questo.

Il capro espiatorio era un rito che serviva per alleggerire le persone del pesante fardello rappresentato dalle colpe. Invece di esprimere, di ammettere, di prenderci la responsabilità delle nostre azioni, delle nostre parole e dei nostri gesti, li s-carichiamo su qualcuno che paga per noi, solitamente la persona più debole.

Così in un gruppo di amici quello che sta sempre zitto, quello un po' "tonto", quello che accetta tutto, diventa il capro espiatorio di tutti, il "materasso" su cui tutti si sfogano. Così in casa sono sempre i bambini, i piccoli, a pagare le frustrazioni, le tensioni e le immaturità dei grandi. E talvolta capita che quando questi piccoli crescono, scaricano questi vissuti su altri piccoli o indifesi. Così sono i barboni, gli extracomunitari, i poveri, in generale chi non sa difendersi, che a volte "le prende" per tutti.

Ricordo un nostro compagno di scuola, veramente discolo e vivace. Ogni volta che succedeva qualcosa le professoresse dicevano: "Antonio sei stato tu, vero?". (Cioè: "Non ti abbiamo visto ma sappiamo che sei stato tu"). Qualche volta capitava pure che lui non centrasse, ma per le professoresse era sempre colpa sua e veniva punito ogni volta. E questo rinforzava il suo atteggiamento: "Io me le prendo anche quando non c'entro niente. Tanto vale farle!".

L'agnello non era solo una vittima sacrificale (Nm 28-29), ma rappresenta anche la fuga dall'Egitto, celebrata a Pasqua. Infatti, nella notte in cui fuggirono mangiarono l'agnello con la cintura ai fianchi, i sandali ai piedi e il bastone in mano (pronti cioè a partire e scappare dall'Egitto). Con il sangue segnarono le loro case e il Signore colpì con la morte tutti i primogeniti delle case non segnate dal sangue (Es 12,1-12).

Ma l'agnello richiama agli ebrei anche il famoso episodio di Abramo. Il Signore aveva chiesto ad Abramo il sacrificio del suo unico figlio, avuto in tarda età, quando ormai sembrava impossibile. Saliti sul monte, al momento di vibrare il colpo Dio mandò un angelo a fermare Abramo e al posto di Isacco fu sacrificato un agnello. Nell'Islam, alla fine del Ramadan, si immola un agnello proprio a ricordare l'episodio del sacrificio di Abramo.

Agnello, in ebraico "taljah", vuol dire sia "agnello" che "servo". Probabilmente Gv Bt citando l'agnello, riferendosi a Gesù, non intendeva l'animale, ma voleva indicare il servo di Dio. Tuttavia nel tempo i cristiani lessero quella parola "taljah" come agnello. D'altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di nisan, verso mezzogiorno, proprio nell'ora in cui si sgozzavano gli agnelli? Gesù quindi è il nuovo, ultimo e definitivo agnello, che toglie il peccato dal mondo.

Gli ebrei come quasi tutti i popoli credevano che ogni peccato doveva essere espiato: chi ha commesso l'errore, un discendente o qualcun altro (capro espiatorio) deve pagarlo. La concezione "occhio per occhio, dente per dente" si rifà proprio a quest'idea: chi ha sbagliato deve pagare altrettanto.

Questa concezione ci può sembrare lontana ma è la stessa nostra concezione riguardo le botte, le punizioni nei confronti dei bambini.

In certe situazioni è importante porre delle limitazioni: "Vicino al fuoco non andare perché ti fai male; il coltello non lo usi perché ti fai del male". Sono limitazioni per il bene.

Altre volte ancora sarà importante far prendere coscienza ai bambini delle conseguenze delle proprie azioni: "Se dai le sberle fai del male agli altri; se non studi non vieni promosso".

Ciò che i bambini hanno bisogno di imparare è che le nostre azioni, le nostre parole e i nostri atteggiamenti hanno delle conseguenze. L'importante è non confondere le azioni della persona con la persona. Le persone sbagliano ma non sono sbagliate. Le persone fanno errori ma non sono errate.

La punizione fa sentire l'altro cattivo, degno di essere trattato male. Quando siamo puniti non possiamo più credere al nostro valore, perché la punizione colpisce la persona non l'azione. Le punizioni umiliano la persona, la fanno sentire uno schifo, sbagliata, indegna.

Ricordo un maestro delle medie che diceva tutto orgoglioso: "Chi ama, castiga". Non si faceva nessun problema a dar ceffoni e scarpate ai suoi ragazzi. Un giorno fu preso da alcuni ragazzi che si vendicarono e gliele diedero di "santa ragione" (nessuna ragione è santa per picchiare!). La sua indignazione fu assoluta e denunciò i ragazzi. Ma perché lamentarsi? Non era quello che lui stesso faceva? Perché lui poteva farlo e loro no?

Un adulto mi ha raccontato che da piccolo le prendeva con la "bacchetta". Un giorno dopo averle prese di "santa ragione" (come abbiamo già detto: nessuna ragione è santa né giustifica) disse fra sé: "Adesso le prendo e non piango più così non vi do soddisfazione. E un giorno quando sarò grande ve la farò pagare". Così è diventato insensibile, impermeabile, schermato ad ogni emozione. E da grande sapete come gliel'ha fatta pagare? Non andava mai a trovare i suoi genitori: era la sua vendetta!

Quando un bambino viene picchiato, umiliato fisicamente o verbalmente, per non sentire il dolore si chiude. Per cui può sopportare le violenze, le frustrazioni e le tremende umiliazioni semplicemente perché non le sente. Ma il prezzo da pagare è altissimo: per non sentire così tanto il dolore fisico e l'umiliazione della sua dignità, si desensibilizza. Così le emozioni, la gioia, la vita, non possono giungere all'anima e al cuore del bambino: è troppo spessa la corazza per difendersi dall'umiliazione e dalla violenza.

La punizione toglie il diritto e la dignità al bambino, perché è come se l'adulto dicesse: "Siccome io sono più forte e so qual è il tuo bene posso anche picchiarti". Ma cosa succederebbe se lo potessimo fare tra adulti? E perché lo facciamo proprio con i bambini? Perché non possono difendersi!

Alcuni genitori sono orgogliosi del fatto che attraverso la loro educazione i figli crescono buoni, bravi, obbedienti: ma non sanno che sono così solo per paura; non sanno che non hanno educato ma solo impaurito. Un bambino ubbidiente non è un bambino educato: è un bambino che ha paura!

Se mio figlio, ad esempio, picchia un altro bambino, punirlo con le botte non serve. Perché agendo allo stesso modo rinforzo l'idea che ha fatto bene: il più forte picchia il più debole. Dopo aver picchiato tuo figlio prova pure a dirgli di non picchiare sua sorella! Ciò che conta non è punirlo, ma che possa dispiacersi per ciò che ha fatto.

Ho visto questa scena in un ristorante: due bambini giocano, uno ad un certo punto s'arrabbia e spinge l'altro che cade e si fa male. Arriva il papà che ha visto la scena: "Non si devono mai picchiare gli altri bambini" e giù un paio di ceffoni tremendi. Cosa avrà imparato quel bambino? Che picchiare è proprio giusto (lo fa anche il suo papà con lui) e continuerà a farlo.

Se questo bambino non ripeterà più la stessa azione, sarà perché ha paura del padre, e non perché ha capito o perché si è dispiaciuto di aver fatto del male ad un altro bambino. E quando il padre non ci sarà più e non avrà più paura di lui, cosa accadrà?

Le botte non insegnano niente, definiscono solo chi è il più forte.

Ma anche certe parole sono delle autentiche punizioni ("botte" dell'anima): "Siccome hai fatto così la mamma non ti parla più". Per il bambino questo è un ricatto: o cede o perde la mamma.

"Maledetto il giorno in cui sei nato", il messaggio che arriva è: "Non valgo niente per mia madre; sono una maledizione". Un figlio crescendo non potrà che diventare quello che gli è stato detto.

"Non sei buono a nulla; sei un cretino": come potrà credere in sé chi si sente sempre dire così.

"Ti spezzo in due; ti rompo le ossa; ti faccio ruotare la testa di 360°; te ne do tante che te le ricorderai per tutta la vita". La violenza terrorizza, blocca, paralizza: il bambino magari diventerà buono, ubbidiente, bravo, per il terrore di prenderle, ma diventerà incapace di esprimere se stesso.

"Se non fosse per te lascerei tuo padre". E' un ricatto demoniaco perché è come dire ad un figlio: "E' per colpa tua che soffro così tanto, altrimenti me ne sarei già andata (falso!)".

Il genitore sa che magari non è vero. Ma il bambino no! E un bambino cade nella più totale disperazione.

Non basta dire poi: "Sì, l'ho detto ma non lo pensavo!", perché intanto l'hai detto. Altri genitori si divertono ad umiliare il proprio figlio svergognandolo con i parenti o amici, mettendo in luce solo i suoi aspetti negativi, riprendendolo sempre anche quando non c'entra, non accettando mai le sue giustificazioni, deridendolo o sminuendolo: "Sei solo un bambino!".

Non basta poi dire: "Sì ma lo faccio solo per ridere". Perché l'hai fatto e lui non sa il perché. Se l'hai fatto per scherzo o se lo hai fatto per non fare brutta figura di fronte agli altri è la stessa cosa: lo hai fatto e lui si è sentito uno schifo.

La concezione degli ebrei era: "Chi sbaglia paga". Questa concezione è passata nella nostra religione. Si diceva più o meno così: "L'uomo con i suoi peccati ha offeso Dio; l'uomo non può da solo riparare l'offesa infinita fatta a Dio; il Figlio di Dio garantisce questa riparazione infinita".

Gesù Cristo, allora, è morto per espiare i nostri peccati, è morto per noi, è morto per riparare il nostro errore. Ma che Dio è il Dio che manda a morire suo figlio per riparare le nostre colpe? Ma che Dio è un Dio del sangue che s'arrabbia così tanto da voler poi vendetta e giustizia?

Questa concezione ha finito per far sentire gli uomini colpevoli, schiacciati da questa colpa. Infatti una persona a cui è stato insegnato che Dio è morto per lei, non può che sentirsi colpevole, sbagliata, uno schifo. Ci ha fatto sentire che era giusto che anche noi soffrissimo nella vita (così espiavamo un po' del nostro peccato). Che era giusto che ci sacrificassimo (lo aveva fatto anche suo Figlio). Che era giusto e degno di merito stare male, soffrire e essere umiliati: c'è stato un tempo in cui più uno soffriva e più sembrava santo.

Quella religione diceva: era necessaria la morte di Gesù per farci perdonare da Dio; soffrire è buono perché così espii i tuoi peccati e i tuoi sbagli.

Dio è morto in croce non per i miei peccati, ma come conseguenza della sua vita e del suo credere. E' morto in croce perché le forze del male lo hanno ucciso. E' morto in croce perché si è fidato totalmente di Dio. E Dio lo ha resuscitato.

La sua morte è "per noi" nel senso che, attraverso la sua vita e il suo morire, noi scopriamo che di Dio ci si può fidare, che Dio è più grande del nostro peccato, di ogni nostro errore, anche quello più tremendo.

Allora quando guardo la croce, l'agnello di Dio crocifisso, io vedo Colui che mi libera da ogni schiavitù, peccato, colpa. Per quanto io possa sbagliare bersaglio nella vita, Dio è più forte del mio male.

Gesù è proprio l'agnello di Dio che "muore per me" perché io possa vedere su quale certezza, su quale base, su quale libertà si possa costruire la mia vita.

Dio mi ama così tanto ("Dio ama da morire!") che non esiste nessuna colpa, nessun sbaglio che Lui non mi possa perdonare. Sono salvo, sono al sicuro, se credo al suo amore.

Ogni domenica andiamo in chiesa e il sacerdote dice: "Ecco l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo". Gesù è il Liberatore, colui che vorrebbe togliere il mio peccato, il malessere che mi abita e che si insedia nella mia vita.

Nella comunione Dio si fa debole, piccolo, agnello: "Se vuoi, io vengo per portarti un po' di pace, un po' d'amore, di speranza, di perdono e di positività. Mi lasci entrare? Mi apri la porta?".

La comunione non è un dovere, un precetto, un obbligo, ma un riconoscere di aver bisogno di Dio, di coraggio, di forza. La comunione è una possibilità che ho di far entrare nel buio del mio cuore un po' di luce; di portare nel mondo pieno di conflitti della mia anima un po' di pace e di perdono. E' una possibilità.

Perché molta gente viene in chiesa e non fa la comunione? Crede di non meritarsi l'amore di Dio? E' così fuori, distratta, che neppure si pone il problema? Non vuole farsi troppo coinvolgere? E' così difficile da capire per me!

Perché è come andare dalla propria amata e non darle un bacio, da un amico e non salutarlo. Quando si ama una cosa si vuole incontrarla. E' come andare ad un pranzo e non magiare. Perché? Perché si rinuncia alla cosa più buona, a quella che fa più bene, a quella più dolce?

Madre Teresa viveva dei momenti terribili di depressione (anche i santi stanno male, hanno dubbi e sono depressi!). Scrive nel suo diario: "Ci sono momenti in cui mi sento come un guscio vuoto, un oggetto instabile. Mi sento così sola e misera. Ci lodano per la nostra attività. Tutto quel che facciamo è proprio niente, inefficace. Se sapessero veramente chi sono...". In momenti così di solitudine, dove tutto sembrava cadere, finire, perdersi, Madre Teresa ritrovava forza nell'eucarestia. E diceva: "Vieni tu a portare un po' di pace e di calma qui dentro", e parlava del proprio cuore. Gesù era il suo Agnello, il suo Amico, il suo Guaritore, il suo Amore che riempiva e con-solava il suo cuore.

Giacomo Leopardi in una lettera al fratello Carlo nel novembre del 1822 gridava: "Amami, per Dio. Ho bisogno d'amore, amore, amore!". Nel luglio ripeteva vanamente: "Io non ho bisogno di gloria, né di stima, né di altre cose simili, ma ho bisogno di amore".

Forse Dio non mi toglierà la finitezza, i miei disturbi, i miei limiti, ma se Lui sta con me, se non mi abbandona, se gli permetto di entrare, allora io sento di avere un amico, un sostegno, una forza, uno che mi ascolta, un rifugio...; allora mi posso sentire amato. E quanto ne ho bisogno!

Che Gesù sia il servo, sia l'agnello, vuol dire che Dio vorrebbe essere un aiuto, un amico che mi sorregge.

Qui si dice che Gesù è "l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo". Molte persone dicono di non aver molti peccati (cioè non sanno riconoscere il male in sé) perché si rifanno a schemi molto infantili. Si rifanno ancora ai dieci comandamenti: ma i dieci comandamenti hanno tremila anni! Sono prima di Cristo!

Peccato è ogni volta che io non voglio maturare, che io non voglio crescere e preferisco restare così come sono perché cambiare è doloroso.

Peccato è quando non voglio vedere la realtà e chiudo gli occhi, faccio finta di niente: non vedo mio figlio che mi manda segnali di un certo tipo (è iperattivo, timido, sempre ammalato, chiuso); non vedo (mi sta bene non vederlo) le esigenze e le sofferenze di mia moglie; non vedo che dovrei fare una scelta e che rinvio sempre; che c'è un problema e io faccio finta che non vi sia.

Peccato è quando la vita non circola più in me ed è come se fossi morto: non sono più toccato da niente, sono insensibile, niente mi commuove, niente mi emoziona, mi appassiona o mi fa piangere, niente mi scombussola la "pancia", per nessun ideale o sogno sono disposto a giocarmi, ad osare, niente mi ferma e mi fa riflettere.

Peccato è voler rimanere ignoranti, non voler conoscere le cose "per non farsi troppi problemi", preferire il buio e il non sapere alla luce.

Peccato è la pigrizia che mi dice: "E' lontano; c'è la nebbia; questa sera sei stanco; andrai la prossima volta; sono sempre le solite cose; fai già tanto; è difficile; è impegnativo".

Peccato è il narcisismo di certe persone che vedono solo se stesse (amor sui): "Nessuno mi ama; tutti ce l'hanno con me; nessuno mi regala niente; non ci si può fidare di nessuno; io faccio tanto per gli altri, ma poi...".

Peccato è non voler vedere quello che si è realmente, per cui si rifiuta di vedere la propria aggressività, la propria rabbia e il proprio ferire gli altri, così da credersi senza difetti, senza macchia, con "Sì, i soliti piccoli peccatucci, ma niente di grave".

Peccato è non prendersi cura delle ferite che la vita ci ha procurato e lasciarle marcire lì fino ad infettare la nostra anima e il nostro spirito, fino a corroderlo e ad ucciderlo.

Peccato è non parlare di ciò che dovremmo parlare e non dirci ciò che dovremmo dirci, anche quando ci fa paura o ce ne vergogniamo. Ad esempio non affrontare le questioni che riguardano il nostro corpo, la nostra sessualità, il nostro modo di incontrarci nell'intimità, chi comanda nella coppia, il male che ci facciamo (anche involontariamente) l'un l'altro.

Peccato è infischiarsene di ciò che ci circonda: "Siccome non mi riguarda adesso, che lo facciano gli altri". Vedrai se non ti riguarderà domani! O come se uno non vivesse in questo mondo.

Peccato è credere che il fare alcune cose (sacrifici) ci giustifichi, o ci renda tranquilli: "Io vado a messa, non uccido nessuno, non rubo, dico le preghiere e sono un uomo onesto".

Peccato, male, morte, è non esprimere tutta la vita che ognuno ha dentro. Perché dove c'è la vita non c'è la morte; dove c'è l'espressione non c'è la depressione; dove c'è l'amore non c'è la chiusura; dove c'è il bene non c'è il male.

Non si può scegliere di non fare il male. L'unica scelta è solo quella di fare il bene.

Agnello di Dio vieni nel mio peccato e liberami dal mio male.

Ogni volta che io vado a fare la comunione io gli dico: "Dammi la vita, fa' che io veda il mio male e liberami".

Pensiero della Settimana

Dio poteva presentarsi in tante maniere:
come un leone e tutti ne avremmo avuto paura,
come una volpe e tutti avremmo saputo quanto è furbo,
come un serpente che colpisce a tradimento,
come un rapace o come un felino da cui difendersi,
e, invece, si è presentato come un agnello
perché nessuno lo temesse.

 

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