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TESTO Due alberi, due serpenti

don Marco Pratesi   Il grano e la zizzania

Esaltazione della Santa Croce (14/09/2007)

Brano biblico: Nm 21,4b-9 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 3,13-17

13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

Se accogliamo la suggestione che ci proviene dal brano evangelico, celebrare l'esaltazione della croce è celebrare l'innalzamento del Figlio di Dio su ogni possibile cammino umano, come zampillo di salvezza e manifestazione della gloria sovrastante dell'amore di Dio.

Nell'episodio narrato nella prima lettura, la morte viene dai serpenti che mordono, e la salvezza dal serpente di bronzo innalzato nell'accampamento d'Israele. È qui già adombrata nel simbolo del serpente una misteriosa corrispondenza tra luogo della morte e luogo della vita. Corrispondenza che troviamo adempiuta nel mistero della croce, ben espressa dal prefazio odierno: "Nell'albero della croce tu hai stabilito la salvezza dell'uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall'albero traeva vittoria, dall'albero venisse sconfitto". L'albero della trasgressione (cf. Gen 3,6) era stato il luogo della morte, l'albero dell'obbedienza è il luogo della vita. Nel suo mistero sapiente Dio ha voluto che la vita sconfiggesse la morte sul suo proprio terreno, non altrove. In effetti è proprio lì, nella sua morte, che l'uomo aveva e ha bisogno di incontrare un salvatore, non altrove. Se tutta la vita dell'uomo doveva essere salvata, colui che è disceso dal cielo non poteva che assumere l'uomo fin nella sua lontananza più estrema, nella sua morte maledetta: "maledetto chi pende dal legno", ricorderà san Paolo (Gal 3,13). Da allora la morte è per così dire stanata e sconfitta su qualsiasi terreno essa voglia aggredire l'uomo, perché la croce ha fatto di ogni luogo di morte un luogo di vita.

Il Figlio unigenito ci è stato donato dall'amore del Padre perché, lasciandosi avvelenare dal veleno della morte e neutralizzandolo nella sua carne, divenisse antidoto alla morte per chi alza lo sguardo a lui nella fiducia. Il simbolismo dell'albero è eloquente: laddove l'uomo aveva raccolto un frutto di morte ed era stato maledetto, raccoglie adesso frutti di vita, se si affida al maledetto che dal legno pende. La croce è morte della morte, morso per la morte, secondo la fortissima espressione di Osea 13,14 nella traduzione della Vulgata, echeggiata nell'ufficio del sabato santo (vespri, prima antifona): Ero mors tua, o mors; morsus ero tuus, Inferne (o morte, sarò la tua morte; inferno, sarò il tuo morso, la tua rovina; con efficacissimo accostamento tra mors e morsus). Nella croce innalzata, e nella sua attualizzazione sacramentale che è l'eucaristia, il fedele contempla e abbraccia la forma dell'esistenza redenta, oramai svuotata da ogni veleno e aperta al dono della vita nuova.

Signore, guardo con fiducia a te crocifisso, e ti affido qualunque veleno ci sia in me, per essere protetto dallo sterminio (cf. Es 12,12-13) e godere della tua vita infinita.

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo.

 

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