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TESTO Il Dio della tenda

don Alberto Brignoli  

IV Domenica di Avvento (Anno B) (24/12/2023)

Vangelo: Lc 1,26-38 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 1,26-38

26In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».

29A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

34Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». 35Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37nulla è impossibile a Dio». 38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Le cose più belle e più importanti, nella Bibbia, avvengono sotto una tenda, o in prossimità di una tenda. Basti pensare alla vicenda di Abramo, che si gioca tutta intorno alla sua tenda. E come lui, i patriarchi suoi discendenti. Fino ad arrivare al popolo dell'Esodo, che vive di tenda in tenda, per quarant'anni nomade nel deserto. E non solo il popolo: il suo stesso Dio sceglie di dimorare, con l'Arca dell'Alleanza, sotto una tenda, provvisorio, nomade, sempre pronto a sollevare i pioli, a smontare l'accampamento e a dirigersi ovunque egli lo ritenga opportuno, scegliendo per il suo popolo il meglio, o quantomeno ciò che gli serviva per rivelargli il suo amore.

La tenda è l'immagine del cammino, del movimento, della precarietà, a volte anche dell'instabilità (basti pensare al vento che ha soffiato in questi giorni...), ma è pure un segno di forza, perché indica la resilienza, la capacità di resistere alle prove della vita e di rialzarsi con una certa facilità, pronti a ripartire senza dover perdere tempo a piangere su ciò che è crollato e andato in rovina, perché sotto una tenda di cose che vanno in rovina ce ne sono ben poche... E questo fino a quando il popolo di Dio da nomade diventa stanziale: non avendo più la necessità di spostarsi di tenda in tenda, inizia a costruire case che danno più stabilità e più sicurezza; inizia a organizzarsi in villaggi e città; inizia ad avere una struttura come tutti gli altri popoli sulla faccia della terra.

Finché, poi, inizia a pensare anche a un palazzo, anzi a due, strettamente collegati tra di loro: il palazzo del potere politico e il palazzo del potere religioso. Spesso, addirittura, i due poteri coabitano in un palazzo solo, e per gli uomini e le donne di fede è la fine, perché religione e potere politico non possono stare insieme senza farsi e fare del male: e lungo la storia, questo lo abbiamo visto e continuiamo a vederlo molte, troppe volte.

È con il re Davide che inizia a prendere corpo questa logica di un palazzo anche per il potere religioso, di un palazzo anche per Dio: avviene quando il re - lo abbiamo ascoltato nella prima lettura - si sente al sicuro nel suo palazzo, al sicuro da tutti i nemici, per cui giunge il momento per lui di “mettere al sicuro” anche Dio. E a poco a poco, sparisce il concetto stesso di “tenda”: colpisce che, delle oltre trecento volte in cui il termine “tenda” ricorre nell'Antico Testamento, quelle utilizzate successivamente alla vicenda storica di Davide sono solamente cinquanta. E questo, perché il popolo, a partire dai suoi re e dai suoi capi, si era abituato alla logica del palazzo, e alla logica del tempio come palazzo di Dio.

Ma Dio non può essere rinchiuso in un palazzo; Dio non regge le logiche del palazzo. Dio vive come il popolo che lo venera Dio; Dio cammina con il popolo che lo acclama Dio. E se il popolo cammina nella precarietà e vive nella precarietà, Dio condivide con il popolo la stessa precarietà: una precarietà che è di tutti, anche di chi crede di essere stabile, forte, sicuro di sé, perché è la precarietà stessa della vita. Non per nulla, Dio accetterà (suo malgrado, credo) che Salomone, figlio di Davide, gli costruisca un tempio: ma gli chiederà di nascondere l'Arca dell'Allenza dietro una tenda, dietro un velo che ricordi al popolo e ai suoi capi, politici e religiosi, che Dio continua a essere il Dio della Tenda, del cammino, del deserto, della precarietà.

Fino a quando Dio deciderà di mettere definitivamente la sua tenda in mezzo a noi, in mezzo alla precarietà della vita umana, facendosi uomo, in tutto simile a noi, in una tenda fatta “non da mani d'uomo”, come dice l'autore della lettera agli Ebrei. Sì, perché anche se Dio decide di porre la sua tenda in mezzo alla nostra precarietà, non vuole che questa tenda sia fatta da mani d'uomo, ossia non lascia all'uomo l'iniziativa di costruirgli una dimora. Lo aveva già preannunciato a Davide: “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa”; lo porta a compimento in Maria: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra”. Immagini, peraltro, che richiamano l'ombra della nube che, nel deserto del Sinai, copriva la Tenda del Convegno mentre Mosè entrava per parlare faccia a faccia con Dio. Come a dire: è Dio che costruisce una tenda per suo Figlio nel grembo di Maria, ed è in quella tenda che si farà incontrare da coloro che, lungo i secoli, lo cercheranno con tutto il cuore.

Con queste immagini di fine Avvento - ma possiamo a ragione chiamarle di vigilia natalizia - Dio ci vuole ricordare una cosa, molto semplice da comprendere e insieme molto complicata da attuare: ossia che, se l'umanità, assetata di Dio, vuole incontrarlo, conoscerlo, e iniziare un cammino con lui, dovrà farlo nella precarietà di una tenda, e non nella stabilità e nella sicurezza di un palazzo. Che, in fondo, è il mistero della precarietà della grotta di Betlemme: semplice da comprendere, suggestivo ed emozionante da contemplare, ma tremendamente difficile da vivere.

Perché, dopo millenni in cui abbiamo vissuto e continuiamo a vivere una fede “da palazzo”, scrollarci di dosso la pesantezza di strutture e di giochi di potere che con la fede hanno ben poco a che vedere, non è per niente facile. E lo vediamo in quei continui tentativi di riforma che la Chiesa, anche negli ultimi anni, sta cercando faticosamente di portare avanti, e che puntualmente trovano resistenza innanzitutto nel nostro cuore e nella nostra testa, prima ancora che negli ambienti clericali, ecclesiali e di potere. Se continuiamo a ragionare come se fossimo noi quelli che devono costruire una casa a Dio, mentre è lui che la costruisce a noi, difficilmente riusciremo a fare spazio alla presenza di Dio nella nostra vita.

Non perdiamoci d'animo, però, anche perché abbiamo un meraviglioso esempio davanti a noi. Impariamo, da Maria, ad accettare che sia Dio a prendere l'iniziativa: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.

 

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