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TESTO Inutili. Ma servi!

don Alberto Brignoli  

XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (02/10/2022)

Vangelo: Lc 17,5-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,5-10

In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

“Il giusto vivrà per la sua fede” - “Iustus ex fide vivit”. Su questa frase del profeta Abacuc, ripresa almeno due volte da Paolo nelle sue lettere, il monaco agostiniano tedesco Martin Lutero costruì la base della sua “teologia della giustificazione”, con la quale cercava di capire e di spiegare ai suoi seguaci quale fosse, per il cristiano, il modo più adatto per ottenere la salvezza, la “giustificazione”, appunto: ci salviamo attraverso le nostre buone opere, oppure è la Grazia di Dio che ci salva, indipendentemente dalle cose buone che facciamo nella vita? La conclusione alla quale giunge - sulla scorta della citazione biblica che pure abbiamo ascoltato oggi - è che nulla di tutto ciò che l'uomo può fare è in grado di renderlo giusto agli occhi di Dio, ma è Dio che, nella sua infinita misericordia, dona la salvezza agli uomini, purché essi credano nel valore salvifico della croce di Cristo. Nessun'opera buona, nessuna penitenza o sacrificio possono pretendere di diventare un “merito” agli occhi di Dio: anzi, illudersi di conquistare la salvezza con le proprie forze è una sicura strada di perdizione, perché non sono le opere buone a rendere giusto l'uomo, ma è l'uomo reso giusto dalla fede a compiere opere buone. Da qui, tutte le conseguenze storiche che ben conosciamo: Lutero si indigna con la Chiesa di Roma, in particolare per la compravendita delle indulgenze, attraverso le quali i fedeli avrebbero potuto conquistare il perdono salvifico di Dio per sé o per le anime dei propri cari con lasciti in denaro che sarebbero stati utilizzati per finanziare la costruzione della basilica di San Pietro. Cercando di portare avanti in maniera radicalizzata questa giusta battaglia contro un atteggiamento a dir poco simoniaco della Chiesa Romana, Lutero non fu in grado di percepire l'esatta portata delle conseguenze che derivavano da questa sua teologia della “giustificazione per la fede”: se solo la fede donata da Dio è in grado di salvare gli uomini, ed essi non sono in grado di fare nulla per ottenerla, ne consegue che solo Dio donando la fede decide - o meglio, ha già deciso dall'eternità - chi si salva e chi no, indipendentemente da come ci si comporti nella vita, in quanto siamo da sempre predestinati a salvarci o a essere condannati. E chiaramente, se solo la fede è in grado di salvare, viene meno ogni funzione della Chiesa come mediatrice di salvezza tra Dio e gli uomini.

Al di là delle conseguenze storiche che la sua teologia e il suo pensiero hanno portato, è innegabile il fascino suscitato da queste sue riflessioni, anche perché oggi non ci troviamo assolutamente nulla di così “eretico” o di così estraneo alla dottrina cattolica da non poter essere accolto e vissuto da tutti i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione. E il fascino viene anche dal fatto che sono pensieri con una forte dose di “modernità”, ovvero molto vicine al modo di pensare contemporaneo, anche in ambito ecclesiale. Il Concilio Vaticano II, non per niente Ecumenico, ha cercato - a fatica, senza ancora riuscirci del tutto - di farci uscire da quella mentalità nella quale siamo stati educati, secondo la quale ci si salva se ci si comporta bene, da buoni cristiani, con tante buone opere, partecipando alla vita della Chiesa, frequentando assiduamente la messa e i sacramenti, confessandosi di frequente per poter fare la Comunione in grazia di Dio, pregando intensamente ogni giorno, e così via. Tutte cose giuste e sante, ovviamente: purché non si abbia la pretesa di pensare che siano queste cose ad assicurarci automaticamente la via al Paradiso. Dio non è un distributore automatico di grazie che, in base a quante monetine di buone opere vi buttiamo dentro, ci dona il prodotto corrispondente a farci sentire salvi: è piuttosto la sua Grazia, e la fede con la quale noi rispondiamo alla sua Grazia, che ci donano la salvezza. E questa strada verso la salvezza si manifesta, ha i suoi frutti nelle buone opere: frutti che, a buon conto, vengono dalla radice della Grazia, senza la quale ciò che facciamo è “inutile”.

E qui, entra in campo l'affermazione finale del Vangelo: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Non è una dichiarazione di “inutilità” nel senso di indifferenza o di qualunquismo. Non significa: “Non faccio più nulla, non prego più, non mi interesso della mia comunità perché, tant'è, è inutile alla salvezza”. Significa, piuttosto, vivere la nostra fede nella consapevolezza che qualsiasi cosa facciamo è “inutile” alla nostra e all'altrui salvezza se non è profondamente radicata nella fede. Al di là delle tante o poche cose che nella vita - anche nella vita di fede - riusciamo a fare.

Non sono le nostre buone, molte e grandi opere a farci ottenere la salvezza, anche se queste dovessero ottenerci le lodi degli uomini! Potranno anche costruirci monumenti, apporre lapidi e targhe in nostro ricordo, dedicarci piazze e vie al termine della nostra vita per ciò che avremo fatto: saremo sempre “inutili servi”, perché ciò che conta non è l'utilità di ciò che abbiamo fatto, ma il fatto di essere stati “servi”, ovvero a servizio degli altri. Qualsiasi cosa abbiamo fatto, in quantità o in qualità: Dio guarderà solamente alla nostra testimonianza di fede vissuta nel servizio ai nostri fratelli.

E qui, vorrei concludere togliendomi un sassolino dalla scarpa, senza voler giudicare o peggio ancora offendere nessuno, ci mancherebbe!

In questi giorni, la nostra Diocesi - come molte altre in Italia, credo - vive il momento gioioso e insieme doloroso del cambio dei parroci, con spostamenti da una comunità a un'altra, che in molti casi comporta ovviamente entusiasmo e gioia (anche solo perché alcune comunità riescono finalmente a liberarsi di alcuni di noi...), in altri tristezza per i legami affettivi che ovviamente si creano dopo parecchi anni. Ebbene, sul nostro quotidiano locale, sempre molto attento, ovviamente, alla vita delle comunità cristiane, capita sovente in questi giorni di imbattersi in articoli che descrivono l'accoglienza ai nuovi e il saluto ai partenti: in quest'ultimo aspetto (il saluto), gli articoli esaltano quasi sempre - e giustamente - tutto ciò che di bene il sacerdote ha fatto in tanti anni nella comunità dove è stato. E in cosa consiste questo “tutto ciò che di bene ha fatto”?

Vi troviamo un elenco di cose che, più che a un prete, sono da attribuire a un impresario edile: ristrutturazione dell'oratorio, rifacimento del tetto della chiesa parrocchiale, ricostruzione della rete del campo di calcio, costruzione della nuova casa parrocchiale, restauro del santuario, costruzione dei nuovi campi di calcio in sintetico, ecc... Tutto molto “orobico”, niente da dire: ma è proprio da questo che valutiamo “il bene” che, come sacerdoti, facciamo in una comunità? O non forse dal fatto di aver testimoniato il Vangelo spesso in maniera silenziosa, puntando più alla formazione che alle costruzioni, alla predicazione che alla progettazione edilizia, al contatto personale con la gente più che alla conservazione del patrimonio artistico, al ricercare la comunione tra le persone più che i finanziamenti per sostenere spese a volte esose, poco profetiche e poco evangeliche?

Personalmente, quando mi confronto con questi “elogi”, mi sento davvero “inutile”, all'interno delle comunità dove ho operato o dove opero. Ma chiedo a Dio di donarmi sempre questa grazia: quella di essere un “servo inutile”.

 

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