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TESTO Non giustifichiamoci!

don Alberto Brignoli  

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XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (10/07/2022)

Vangelo: Lc 10,25-37 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 10,25-37

In quel tempo, 25un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».

29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

La parabola del Buon Samaritano è talmente conosciuta da tutti i cristiani (e non solo), da essere stata commentata in tutte le maniere, in forma dettagliata ed egregia. In genere, la rilettura di questa parabola ci invita a essere cristiani caritatevoli, a prenderci cura degli altri come Cristo, Buon Samaritano, si prende cura di noi, oppure a vivere il nostro amore nei confronti di Dio attraverso l'amore ai fratelli, più che attraverso il culto e la preghiera. E ovviamente, sono tutte letture giuste, che hanno una prospettiva esortativa, ovvero ci esortano a comportarci nello stesso modo in cui si è comportato questo uomo di Samaria.

Io oggi vorrei farne una lettura a partire da una prospettiva differente, ovvero a partire da un verbo: “giustificarsi”. Gesù, infatti, racconta la parabola dopo che il dottore della Legge si è “giustificato” del perché della sua domanda iniziale: “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Tra l'altro, nella tradizione giudeo-cristiana, il termine “giustificare” non ha la stessa accezione che ha per il nostro parlare comune. Non significa, infatti, dare le motivazioni del “perché” di certe nostre azioni o comportamenti, bensì “fare giusti”, “rendere o rendersi giusti di fronte a Dio”. In parole povere, “giustificarsi” significa “avere la salvezza”, o - come dice il dottore della Legge a Gesù - “ereditare la vita eterna”.

Combinando i due significati del “giustificarsi” (essere salvato e dare le motivazioni di ciò che si fa) ne esce qualcosa di relativo alla nostra fede che è sempre molto attuale, e che a mio avviso fa parte dei significati di questa parabola: ossia, la nostra fatica (o addirittura la mancanza di volontà) nel farci prossimi ai nostri fratelli che si trovano nella necessità, “giustificata” dai nostri molti altri impegni presi con il Signore o dalla nostra presunta fedeltà ai suoi comandamenti. Della serie: “Non posso aiutarti, ho da fare in parrocchia”; “Fatemi fare tutto quello che c'è bisogno di fare, ma non mettetemi con i malati o con i poveri, perché non sono capace”; “Io vado in chiesa e seguo il più possibile i comandamenti del Signore, però non sopporto quelli che non fanno niente tutto il giorno e vanno in giro a chiedere la carità”; “Io faccio già tanto per gli altri e per il Signore: che ci pensi qualcun altro, a quella situazione”. O ancor peggio: “Se l'è cercata: se da giovane fosse stato un po' più attento, o se fosse rimasto in oratorio o in ambienti sani, e non avesse frequentato certe compagnie, non avrebbe fatto quella fine. Che si arrangi!”.

È brutto doverlo ammettere, ma spesso è così: giustifichiamo certi nostri comportamenti e soprattutto certe nostre omissioni con modi di ragionare e anche con frasi mutuate dalla nostra presunta fede, ma che di fede hanno ben poco. E sono atteggiamenti in cui tutti quanti cadiamo, a volte anche in maniera inconsapevole. Dietro a tutto questo, si può nascondere un atteggiamento ancor più pericoloso: quello di pensare di poterci “autogiustificare”, che significa da una parte trovare delle scuse sempre plausibili e valide, anche se magari non lo sono affatto, e dall'altra addirittura pensare di poterci “giustificare da soli”, ovvero salvarci attraverso i nostri soli mezzi, senza la necessità della grazia di Dio.

E forse questo è proprio quello che Gesù voleva cercare di far comprendere al dottore della Legge, il quale non si avvicina a Gesù con il desiderio di arricchire la propria vita spirituale, già così intensa, bensì “per metterlo alla prova”, cioè per sfidare Dio: vediamo chi dei due la sa più lunga riguardo alla vita eterna. E Gesù non si fa intimidire: lo rimanda alla Legge, quello strumento di cui lo scriba era Maestro in Israele e che, a detta sua, poteva dargli la salvezza, la giustificazione, senza bisogno di chiedere a Dio di salvarlo. E infatti, i comandamenti sono chiari: amore a Dio e amore al prossimo, inscindibili. Qui sta la salvezza. Solo che il dottore della Legge, per “giustificarsi”, per “salvarsi da solo” o per avanzare delle motivazioni ai propri mancati comportamenti, incalza Gesù e gli chiede di essere più chiaro riguardo al prossimo. E allora, lì, si tratta di capire come bisogna comportarsi per evitare di pensare che ci si possa salvare da soli, oppure che sia sufficiente amare Dio attraverso la preghiera e il culto (cose che lo scriba sapeva fare benissimo), mentre il prossimo può aspettare, dicendo che non sappiamo nemmeno chi sia. O forse, non vogliamo saperlo.

Proprio come accadde quel giorno sulla strada che da Gerusalemme scende a Gerico, dalla città “Santa” alla città “avversaria di Dio” per antonomasia (le alte mura, la depressione geografica in cui si trovava, la città del peggiore dei pubblicani, la città cieca di Bartimèo cieco...): una strada che simboleggia la nostra vita, santa dalla nascita per l'umana innocenza e che poi si allontana da Dio a causa dei nostri peccati, anzi, forse a causa proprio della nostra autosufficienza. Perché una volta che siamo stati al tempio a Gerusalemme, come il levita e il sacerdote, ci siamo purificati e santificati, e non vogliamo perdere la nostra santità contaminandoci con il sangue di un ferito gettato sul ciglio della strada in fin di vita dal male che ha trovato su quella sua strada (colpa sua? Può darsi, ma non sta a noi dirlo, visto che su quella strada ci passiamo anche noi...): “Ho pregato, sono stato al tempio, sono andato a messa: sono a posto con Dio e in pace con me stesso. Il mio prossimo? E chi è? Non ci ho fatto caso...”. Eh, no: non puoi non averlo visto. Lo hai visto, ma sei passato oltre: cosa che facciamo spesso! Ma finché pensi di poterti salvare da solo con due preghierine e tre comandamenti, difficilmente ti accorgerai del tuo prossimo.

Chi si accorge del prossimo, invece, è il samaritano: uno che non era certo andato a Gerusalemme per pregare nel tempio, visto che il suo tempio è in Samaria. Infatti, lui, di fronte al malcapitato non si fa troppe domande, e non si autogiustifica: per lui è sufficiente vederlo per “averne compassione” (il verbo che nella Bibbia si usa solo per Dio), per curarlo con olio e vino (simbolo dei sacramenti), per prenderlo su di sé e portarlo in salvo...proprio come fa il Cristo con ognuno di noi.

Perché il Buon Samaritano, in fondo, è lui, e il malcapitato è ognuno di noi; perché se noi non siamo capaci di prenderci cura del nostro prossimo, è perché non lasciamo che Cristo si faccia prossimo a noi, convinti come siamo di poterci “autogiustificare”, cioè di salvarci con due rispostine da catechismo e tre preghierine, invece di lasciare che lui entri nella nostra vita e ci salvi.

Insomma, a forza di giustificarsi con le proprie pratiche religiose, anche le comunità cristiane, lungo i secoli, hanno spesso dimenticato di prendersi cura del prossimo, soprattutto dei più deboli, degli emarginati, degli esclusi; e così ognuno di noi, che spesso ci accomodiamo su una fede fatta di culto e rispetto dei comandamenti di Dio, e ci dimentichiamo che amare Dio e amare il prossimo, in fondo, sono le due facce di una stessa medaglia. E riguardo a questo, non ci sono scuse né giustificazioni che tengano.

 

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