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TESTO Appartenere, conoscere, amare

don Luciano Cantini  

IV Domenica di Pasqua (Anno B) (22/04/2018)

Vangelo: Gv 10,11-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Io sono
L'espressione - costantemente ritornate in Giovanni - “Io sono” richiama il “Nome” che Dio ha rivelato a Mosè dal roveto (Es 3,14), è l'atto supremo della rivelazione del proprio intimo. La preoccupazione dell'evangelista è prima di tutto rivelare la condizione divina di Gesù, la sua identità con il Padre, poi la sua realtà messianica disvelata nel termine “pastore”. Il profeta Ezechiele aveva annunciato un nuovo David, unico pastore (Ez 34,23; 37,24), nella prospettiva di riportare l'Israele nell'unità raggruppando i dispersi in un unico popolo (Ez 37,22).
L'idea di “pastore” tramandata dalla scrittura, prima di una prospettiva religiosa, ha soprattutto rilevanza politica. In antico, e ancora oggi nei paesi del medio oriente e in molte altre culture, non c'è distinzione tra politica e religione; è col sopraggiungere del pensiero illuminista e liberale che si teorizza in occidente la separazione dei due aspetti che comunque fanno parte dell'unica realtà umana.
L'affermazione Io sono il buon pastore identifica Gesù nella sua dimensione di Re Pastore (cfr Mt 25,31ss) il cui giudizio trae origine dalla sua relazione: Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Questo è il Re [e con approssimazione il politico di turno]: colui che dà la propria vita.
Gesù sa bene che la realtà degli uomini non è questa perché i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono (Mt 20,25); il paragone che la parabola di Giovanni ci offre è quella col mercenario che tutto fa per denaro e non gli importa delle pecore.
Ci sarebbe molto da riflettere sul senso che noi diamo alla politica, alla democrazia, al vivere comune.

Al quale le pecore non appartengono
La prima riflessione potrebbe essere generata proprio dal senso della appartenenza. Viviamo in un'epoca in cui è assolutamente difficile (e se vogliamo essere pessimisti è impossibile) identificare il senso di appartenenza, rispondere alla semplice domanda a chi appartengo, di chi sono? Tutto fa immaginare e credere che il pensiero dominante sia il contrario e si incentra più su ciò che è mio, che mi appartiene e la tendenza è ampliare il raggio di appartenenza o ciò che è ritenuto tale. Non riguarda solo le cose materiali la cui proprietà è certificabile; pensiamo alle realtà territoriali, culturali, personali; è mia la città, la nazione, è mia la famiglia, i figli, la moglie (pensiamo al dilagare dei femminicidi), perfino la squadra del cuore. E se per caso ci balenasse l'idea di appartenere noi ad una città, o ad una Chiesa, ad una famiglia, di fatto ci lasciamo sopraffare da una prassi contraria. Anche Gesù in qualche modo mi appartiene ed è più facile che a lui chieda qualcosa piuttosto che donarli qualcosa della mia vita.
Questa visuale ristretta e privatistica del mondo e delle relazioni ci impedisce di guardare serenamente oltre il proprio limite verso altre pecore che non provengono da questo recinto nella prospettiva di diventare con loro un solo gregge.

Le mie pecore conoscono me
Una seconda riflessione potrebbe essere dettata dal verbo conoscere. Non si tratta di allargare o approfondire il “sapere” delle cose e delle persone lasciata ciascuna nel suo mondo, nella sua realtà o nel suo habitat; non dobbiamo girare un nuovo documentario da una telecamera nascosta. Il termine conoscere indica la profondità della relazione intima sponsale (nella Scrittura è il verbo usato per indicare l'attività sessuale; molto lontano è il biblico conoscere dal nostro possedere) che tende a fare di due una cosa sola.
Ogni “conoscenza” non è specchio della relazione con il Signore Gesù e assimilabile a quella con Padre, non sono relazioni diverse paragonabili tra loro ma è la stessa relazione che coinvolge il Padre e il Figlio e coinvolge anche l'umanità. La Buona Novella sta proprio nella profondità della relazione, i Vangeli e le Scritture parlando di relazione sono universali e non esclusivi.
L'appartenere ad una realtà non si può esprimere nel solo senso di possedimento, abbiamo bisogno di conoscere, di entrare in relazione, di fondare una relazione che unisce e costruisce un'unica realtà: così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri (Rm 12,5).

E do la mia vita
Se il senso di appartenenza e la conoscenza si richiamano a vicenda, ambedue per essere compresi hanno bisogno di un ulteriore approfondimento che ci è offerto dall'immagine del pastore buono che dà la propria vita. È la dimensione dell'amore totale che giunge al sacrificio di se stessi, senza limiti e senza compromessi.
L'assurdo utopistico della democrazia (demos - kratos, popolo-potere) è quello che il popolo scelga chi si deve sacrificare per la nazione, sono rarissimi i casi di governanti che hanno speso tutte e loro risorse per gli altri, l'amore e il dono di sé non appartengono al mondo della politica. Non è raro invece che uomini e donne, cittadini comuni abbiano generosamente impegnato la propria vita per gli altri; santi più o meno palesi, uomini di fede o no, non solo cristiani che hanno dato senso al loro essere con generosità e amore.
Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali (Gaudete et exultate n. 14)

 

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