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TESTO Commento su Gb 1,13-21; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10

don Raffaello Ciccone  

VI domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno A) (05/10/2014)

Vangelo: Gb 1,13-21|2Tm 2,6-15|Lc 17,7-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,7-10

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Giobbe 1, 13-21.
Giobbe (ebr. Iob) è la figura centrale del più profondo e del più poetico dei libri sapienziali dell'AT.
Esiste un racconto in prosa, che inquadra il testo poetico, e che ci trasporta a Uz, a sud di Edom. Giobbe vi è descritto come un importante pastore, ricco e credente in Dio, la cui fedeltà è messa alla prova per istigazione di Satana (vedi versetti precedenti). I suoi beni e la sua stessa famiglia conosceranno le peggiori catastrofi e infine egli sarà colpito da una ripugnante malattia. Il nemico di Dio e dell'uomo scommette con Dio su Giobbe. Egli è fedele perché la sua fedeltà gli produce benessere e ricchezza. Se Dio lo prova e gli toglie questo benessere, anche Giobbe rifiuterà Dio e lo bestemmierà. Dio accetta e permetterà tutto ciò perché si fida di Giobbe mentre Satana pretende di essere sicuro che Giobbe sarebbe rimasto fedele solo nella prosperità (2,6).
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, non è ebreo perché è straniero. La vicenda si svolge nella terra di Uz, che non è territorio di Israele. In tal modo la rivelazione al popolo d'Israele si completa poiché si indica che Dio è attento e presente in tutto il mondo e con tutti gli uomini. Perciò Giobbe è una figura universale: la sua esperienza appartiene ad ogni uomo, in ogni tempo e luogo. Rappresenta l'uomo giusto, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura. Perde i figli, i beni, la salute. Sarà cacciato anche di casa dalla moglie e si rifugerà su un mucchio di immondizie e di cenere. La moglie, stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile, urlerà, alla fine: "Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!" (2,9).
Lo stesso nome del protagonista è drammaticamente eloquente: Giobbe può significare: " dov'è il padre? "; e anche si scrive nello stesso modo della parola "nemico". Tutto questo prefigura il dramma e si potrebbe interpretare il suo nome con la sua vita: "Sei tu per me un Dio padre nemico?", oppure " Sarò io nemico per te?" Oppure " Perché, Dio, mi tratti come un nemico? ".
Il dramma di Giobbe è l'immagine che ci si fa di Dio. I tre amici teologi di Giobbe - Elifaz, Bildad, Sofar - hanno una incrollabile certezza che Dio, il Potentissimo, è sempre giusto. Perciò, di fronte a Giobbe, non sanno decidere altrimenti: Giobbe è punito per qualche peccato nascosto. Se Giobbe fosse giusto, non soffrirebbe. Giobbe sa che questa conclusione è falsa, ma, nello scompiglio del suo stato, vede ovunque segni dell'arbitrio di Dio, con cui si lamenta, ma a cui, nello stesso tempo, s'appella per il giudizio finale.
ll giusto invece, dice il libro di Giobbe, sopporta la prova e ritrova prosperità e felicità (42,10).
Secondo l'opinione più diffusa tra gli studiosi, il libro di Giobbe potrebbe avere avuto origine tra il V e il III secolo a. C..
Nelle due prime sezioni della Bibbia, la Legge e i Profeti, Dio è al centro della storia; egli infatti interviene nella storia del suo popolo, dona la sua alleanza, stringe il suo patto / promessa, si rivela nella sua legge. Il profeta parla a nome di Dio e proclama la sua Parola.
Nei libri sapienziali, al contrario, è l'essere umano al centro. Dio dà alla persona umana piena responsabilità sul mondo e sulla sua vita e il libro di Giobbe, nel suo contesto sapienziale, si rivela come riflessione critica dell'uomo sull'uomo, sulla sua ricerca della felicità e sulla sofferenza, sui suoi giudizi su Dio e il senso della propria giustizia. Egli pretende di misurare la potenza assoluta di Colui che è il mistero stesso, con il metro umano. Se Dio è onnipotente e giusto, si pensa, deve premiare il bene e castigare il male.
E invece ci si imbatte in un destino crudele dove l'uomo, per quanto giusto, viene travolto dal male e dalla sofferenza, entrambe lette all'interno del disegno di Dio riguardo gli uomini.
E solo quando Giobbe cesserà di pretendere giustizia (40,1ss), (42,1ss), la misericordia del Signore farà giustizia. La Sua giustizia si compirà finalmente in Giobbe che avrà ritrovato l'illuminata e piena fede con un'abbondanza che sorpassa di nuovo ogni misura umana (42,10). Nonostante le 4 disgrazie (notare il numero 4 che è l'orizzonte terrestre), Giobbe reagisce, mostrando che la sua religiosità non è interessata: "Nudo sono venuto al mondo e nudo ne uscirò. il Signore dà, il Signore toglie, il Signore sia benedetto". La scommessa finirà, alla fine, con una benedizione.
Non bisogna infatti dimenticare che il Signore, nonostante le apparenze, se crediamo, non ci abbandona mai.
2 Timoteo 2, 6-15.
Questa lettera viene considerata "Il testamento spirituale di Paolo" (sebbene tale espressione venga usata anche per il discorso di addio agli anziani di Efeso: At 20,18-35; e il Card Martini, prima di lasciare Milano, ce la commentò diverse volte). Paolo è in carcere a Roma e scrive a Timoteo, mentre lamenta la sua solitudine, che ha comportato la totale mancanza di ogni difesa. Così i pagani lo considerano un malfattore e gli ebrei un traditore mentre nessuno lo ha difeso. Tuttavia Paolo non si rammarica poiché sente di vivere una grande comunione con Gesù. E' anzi preoccupato del "mio Vangelo" che è quello genuino di Gesù che egli fedelmente ed umilmente ha cercato di interpretare e di comunicare.
Si rivolge a Timoteo poiché si fida della sua formazione e gli raccomanda di insegnare ad altri perché a loro volta insegnino: "Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri" (2,1-2).
Da queste preoccupazioni rivelate perché diventino direttive per il tempo che verrà, e in cui Paolo sa di non poter essere presente, l'attenzione non è istituzionale o di potere da trasmettere, ma è per una successione didattica: Trasmettere un messaggio che sia un insegnamento genuino e coerente: è questo il primo compito dell'autorità, della Comunità cristiana, di ogni fedele adulto.
Per aiutare Timoteo a capire che ad ogni investimento devono accompagnarsi sforzo, perseveranza e sacrificio, Paolo ricorda tre condizioni adulte di vita: il soldato, che non si lascia distrarre dal suo compito, l'atleta che lotta con correttezza secondo le regole, e il coltivatore che raccoglie in abbondanza a secondo dei suoi sforzi (2,3-7).
Il vero modello, tuttavia, è Gesù: "Ricordati di Gesù Cristo" che lottò fino alla morte e, passando attraverso la morte, è risorto.
E dopo Gesù, che è il vero modello, Paolo, in amicizia, osa proporsi come secondo testimone da imitare. E a Timoteo svela anche il significato della sofferenza vissuta con Gesù: essa è carica di forza ed è sostegno e intercessione a favore di chi si ama: "Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna" (2,10).
Ci sono quattro parallelismi: corrispondono alle scelte che facciamo. Alla morte con Lui incontriamo la risurrezione, alla sofferenza di chi è fedele viene data la gloria, al rinnegamento dell'uomo Cristo ci prende sul serio e giudica; ma al quarto si rompe il parallelismo: "se siamo infedeli" Cristo rimane fedele ed è sempre misericordioso.
Il testo di oggi si chiude con un richiamo eccezionalmente prezioso poiché ha fatto soffrire molto anche Paolo nella sua esperienza Pastorale: "Si evitino le vane discussioni". Infatti la parola di coloro che vogliono spingere verso l'empietà, attraverso le chiacchiere vuote e perverse, si propaga come una cancrena" (2,16-17). Il vero antidoto e la vera fiducia nascono dalla forza della Parola di Dio. La Parola di Dio non è incatenata" (v 9). Il cristiano si intravede nel suo servizio gratuito e nella sua fiducia.

Luca 17, 7-10
Con tanto parlare della dignità dell'uomo e del lavoro, della preziosità dell'uomo agli occhi e al cuore di Dio, di Gesù che serve, anzi, addirittura lava i piedi ai discepoli, le parole di questo vangelo sembrano contraddittorie e persino insensibili.
Bisogna leggerle nel contesto: il cap. 17 si apre con alcune parole di Gesù molto rigorose sullo ‘scandalo' e sul ‘perdono; gli apostoli sono smarriti -"Signore, aumenta la nostra fede"- poi c'è il nostro brano per continuare con l'episodio dei dieci lebbrosi di cui solo uno, samaritano, torna a ringraziare, e con l'esortazione a pregare sempre ‘senza stancarsi mai', e infine con l'annuncio della sua passione. "Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare".
L'esempio è preso dalla vita: il padrone pretende dal suo servo quello che il servo è tenuto a fare.
Ma qui che cosa vuol dire Gesù?
E noi siamo servi o siamo liberi (‘voi siete stati chiamati a libertà!').
A me pare che l'idea sia quella del servizio e non della schiavitù; dello stesso servizio che Gesù prestò lavando i piedi ai discepoli, ma con la sottolineatura che "in servizio" siamo sempre e che questo non deve farci credere di essere bravi o presumere di fare qualcosa di straordinario.
Infatti siamo akreioi, parola che viene tradotta dal greco in modo inesatto, perché la lingua greca antica è estremamente duttile ed ogni parola ha una vasta gamma di significati e di sfumature.
Qui potrebbe semplicemente voler dire ‘siamo sempre in servizio' ‘siamo semplicemente servi', senza presumere per questo di aver fatto chissà che cosa. Certo, siamo utili nella misura in cui non ne approfittiamo per il nostro personale interesse o per accampare chissà quali diritti.
Siamo ‘servi del Signore', esattamente come Gesù, il Servo di Yahveh, che nella vita realizza il progetto d'amore di Dio. Così anche noi non siamo ‘inutili' perché espressione di un pensiero d'amore di Dio, ma siamo ‘gratuiti' perché il nostro vanto non è quello di portare avanti noi stessi,
ma di contribuire a spianare la via al Regno di Dio, cioè al Suo Amore.
Allora si diceva "siamo servi inutili"; oggi possiamo ugualmente dire "siamo gocce che riflettono, se siamo fedeli alla nostra vocazione cristiana, l'infinito splendore dell'amore di Dio".
Certo, dobbiamo rendercene conto, senza nasconderci dietro false modestie o malcelate presunzioni.

 

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